Il sole, incendiando la collina, era tramontato da poco. Qualche stella appariva qua e là, nel cielo sereno. Il mare palpitava appena, mentre lontano, tra le ombre che s'infittivano, le barche dei pescatori passavano a vele spiegate, come fantasmi. Terminati i lavori campestri, le villanelle tornavano a casa cantando in coro.
Io, seduto sulla spiaggia, favorito dall'ora, pensavo, fantasticavo sui misteri che avvolgono il creato, quando mi scuoteva la voce di un uomo, che appariva agitato, non normale. Ed in vero, dopo di avermi scrutato, senz'altro incominciava:
"Non so, signore, chi voi siate. La vostra presenza quì, in questo luogo solitario ed in quest'ora malinconica, la vostra fisionomia, il vostro atteggiamento, mi possono far ritenere di essere dinanzi ad un uomo dal delicato sentire, dall'animo aperto al bello e alla poesia. Comunque, vi esorto un po' ad ascoltarmi. In questo momento una forza occulta mi agita, mi spinge a camminare, mi costringe a parlare. Quantunque apparentemente nulla mostri, pure non sono come tutti gli altri uomini, e posseggo una facoltà da nessun altro posseduta. Voi non ignorerete, certo, le sacre leggi della rincarnazione. Ebbene, senza poter spiegare per quale straordinario dono, a me è concesso di rivedere con la mente talune delle innumerevoli esistenze vissute nei secoli. Non ho facoltà, però, di scelta nelle rievocazioni: avvengono a brani, a squarci, ad episodi. Vi influiranno, forse, le impressioni esterne. Quest'ora, ad esempio, mesta e poetica, favorisce il risveglio, la rappresentazione, la rivivificazione di gentili episodi. E mi veggo in Germania al tempo dell'invasione romana. Io, in quella fortunata epoca per la latinità, comandavo una delle forti legioni condotte da Cesare. Dopo un vittorioso combattimento, inseguendo i nemici in fuga, in un bosco m'imbattevo ad un popolo, vario di condizioni, di sesso, d'età, inalzanti ai numi tutelari della patria in pericolo, con canti lamentevoli e solenni, calde, disperate invocazioni. Quella inaspettata scena poteva commuovere e consigliare generosità, ma le severe e sacre leggi di allora imponevano senz'altro al soldato, l'adempimento del dovere. E nel ritornare in sul tramonto negli accampamenti, con i prigionieri e gli ostaggi, si conduceva anche una giovane nemica dai lineamenti perfetti, dalla fisionomia dolce, dagli occhi appassionatamente belli, dalla capigliatura del più brillante oro. Pareva che l'aquila romana non dovesse esitare dall'allungare, sul prezioso pegno, i suoi artigli; invece, la gentilezza latina, che neppure allora mancava, riusciva a reprimere gli istinti, gl'impulsi brutali e violenti. E' vero che più tarde la rapace aquila trascinava ugualmente la sua dolce preda nella azzurre regioni, ma solo quando, conquistata nel cuore, la gentile preda s'era offerta spontanea e lieta alla presa dei rosei artigli. E le due fiorenti giovinezze, dimenticando le origini, le differenze di civiltà e di razza, potevano libare con uguale giocondità, al dorato calice d'amore.
Ma quell'idillio non durava molto, essendo stato mandato, nel vasto impero, nelle chiare regioni orientali. Colà, dopo altre fortunate imprese, cadevo per tradimento tra arbusti fioriti, quando, suonanti più melodiosi le eterne divine musiche della natura, la mite febea spandeva placida i suoi pallidi raggi.
Passava, così, ad un tratto, violentemente, dall'ardere della vita giovinezza, in potere della bieca morta. L'anima, scossa e desolata, aleggiate alquanto intorno alle sue gelide spoglie, come bianca libellula, librava il volo verso i regni d'oltre tomba.
E in una bella notte di maggio si chiudeva tragicamente quella mia eroica esistenza...
Non so, signore, quanto tempo rimanessi nelle buie regioni del silenzio; molti anni, certo. Non mi riveggo, ad ogni modo, in un'altra rincarnazione, vivo tra i viventi, che molto tempo dopo, quando il cristianesimo già trionfava con le sue miti dottrine, con la sua umanità. Ma quanto diverso! Non apparivo più il fiero e forte guerriero pagano, ma, come un'ironia, un giovane sì, ma dimesso, penitente servo della nuova religione. Il fatto, però, strano in apparenza, poteva rispondere, nei decreti supremi, ad un qualche ordine superiore, a ragioni di evoluzioni, a fini d'alta giustizia. Ai godimenti, spesso smodati, della vita precedente, s'assegnava, alla vita susseguente, un periodo d'astinenza, di raccoglimento, di perfezione. Non crediate, però, che la nuova esistenza trascorresse tutta in mistiche opere, in ascetiche contemplazioni! Anche sotto l'umile saio della povertà della remissività vi era un petto, entro cui batteva un cuore. Gli antichi istinti non erano evidentemente in me del tutto spenti. Spesso, nei misteri notturni dei boschetti del solitario convento, amavo rimanere solo, per vivere con la fantasia gaie vite fittizie, per conversare con i più piacevoli fantasmi. Ma non tutto era immaginazione, non tutto appariva illusione. Accanto al nostro, come allora s'usava, vi era altro covento, ma non di uomini. Ogni sera, dopo il tramonto, si elevavano da quelle mura, come per tener lontano i cattivi spiriti, canti flebili e dolci, canti che fortemente mi scuotevano, che mi inondavano l'animo di ineffabile tenerezza.
Mai nessuno, nel mio vagar notturno e nei miei indeterminati desideri, avevo incontrato sul mio cammino. Una sera, però, d'improvviso m'appariva, come fantasma, tra le ombre, una figura bianca. Una di quelle recluse, oppressa dal chiuso e dall'afa, era furtivamente uscita all'aria, al sereno, alla vita. Ben diverso, da quel di appassire, di sfiorire la bella giovinezza in un freddo chiostro, doveva essere stato il suo sogno! Ne ebbi compassione e, piano piano, me le avvicinai. Trattandosi di un religioso, non disdegnava la mia compagnia. S'era tentato, dapprima, il linguaggio a noi confacente, quali servi di Dio, ma senza fortuna. Le parole giungevano ed uscivano dalle labbra sbiadite, malinconiche, senza significato. La bella notte, il cielo sereno e vivamente stellato, la dolce musica del creato, il mistico, divino incanto che ci avvolgeva e ci scuoteva, ci spingeva a ben altro linguaggio, a ben altri atti. E del mistico biondo di Nazaret si vivificava e s'ingrandiva alla memoria, più di tutti gli altri, il sereno caro agli amanti, che tutto ai forti amori è perdente. E quando in un dolce tremore ci sedemmo, non tardammo ad accorgerci che anche nelle nostre vene scorreva caldo, vivido sangue, che anche entro il nostro petto palpitava un cuore, vibrava veemente un'anima. Eravamo, d'altra parte, nella notte solitaria, entrambi nel vigor degli anni, ad entrambi, quindi, per gli imprescindibili diritti della giovinezza, tutto in quell'ora ci doveva essere consentito e tutto perdonato. Non vi era la luna, ma dai misteri siderali giove, più splendido del consueto, mandava un chiarore vellutato. La bella mistica, dagli occhi di fiamma e dalla piccola bocca dai denti di perle e dalle labbra di corallo, sussultava, voluttuosamente fremeva e palpitava. Non lontano un ruscello mormorava flebilmente; un usignuolo gorgheggiava con vaghezza nella notte d'incanto. Tutto invitava, incitava ad amare, e noi ci amammo.
La mia anima, più tardi, aveva ancora una volta a lasciare le sue spoglie mortali nelle gialle terre d'Asia, ove ero stato inviato missionario. L'oriente, come si vede, non mi era favorevole!
Non posso dire quante altre volte tornassi nella vita ed in quali altre alternative di ricco e di povero, di sapiente o d'ignorante, di nobile o di plebeo. Certo, dopo d'essere stato brillante guerriero romano e zelante religioso medievale, mi riveggo in una terza rincarnazione uomo di teatro, uomo destinato a rappresentare in una finzione, sia pure artistica, ciò che il vivere realmente è attraverso l'eternità: oggi povero e domani ricco; oggi re e domani servo; oggi felice godere e ridere, domani in lutto piangere, piangere, piangere.
Ma in queste varie vicende, l'anima seguiva il corso del suo perfezionamento, eliminando i vizi, conquistando le virtù, per poter ascendere, per poter giungere un giorno, purificata, nel beato regno.
Non ho di questa nuova missione, se così possa chiamarsi il ritorno alla vita, molto da dire. Viaggiai molto, passai, come passano gli attori, ininterrottamente, di paese in paese, di terra in terra, di teatro in teatro, giungendo tra gente sempre nuova, senza però avvertire notevoli differenze. Ovunque vedevo ripetersi la commedia, la grande ed eterna tragedia umana portata da me ogni sera, con non generosa parodia, su un angusto e freddo palcoscenico.
Giungevo alla mia vecchiaia, dopo la penosa vita randagia, senza rinomanza e senza sufficienti mezzi. Sorte spesso comune a quelli che si ostinano ad inseguire, in un vano sogno, vacue chimere! In un mesto meriggio d'autunno, tra la commiserazione di poche derelitte, compagne sfortunate della vita vagabonda, lasciavo ancora una volta questo povero mondo. In quella occasione mi potevo convincere che gli infelici non si sfuggono nel giorno del dolore! Quelle tapine, un giorno superbo di vanità e di bellezza, a ricordo delle poche ore allegre vissute insieme, con pietoso atto, gettavano, sul freddo mio corpo, lagrime e fiori.
Son ora nuovamente su questa terra, con miglior fortuna. Evidentemente nella bilancia vi dovranno ancora essere a mio sfavore notevoli differenze da pareggiare! Rappresento oggi nella società le sfaccendate e vivo senza desideri e senza passioni. Non so dove fossi ieri, nè dove sarò domano. Vado senza una meta, senza uno scopo, senza un'attrattiva; vado come l'ebreo errante della leggenda. E sono guardato, dove passo, dove mi presento, con diffidenza, con sospetto. Il vagabondo, pericoloso e dannoso, non a torto, è considerato l'uomo de' malifici, l'uomo maledetto del malaugurio e della sventura. Non è stato raro il caso, prendendo i sospetti parvenza di verità, d'essere, da una plebaglia inferocita, rincorso e malmenato. E vivo, ciò che è peggio, senza volontà, senza energia, accettando la mia condizione supinamente, come una necessità, come imposta dalla legge inesorabile del destino. A nulla d'altra parte varrebbe la reazione, la ribellione, se ciò rientri nelle fisse ed eterne leggi degli uomini. Coloro, quindi, che inveiscono contro i derelitti non capaci di risalire l'erta, da cui precipitarono, sono ingiusti ed inumani.
Non vi meravigliate; è così. Qualche cagnaccio tra poco, da qualche sperduto casolare, abbaierà, urlerà, si lancerà rabbioso contro di me, al mio passaggio. E mi potrà anche mordere. Non vi farò caso e continuerò impavido il mio cammino. Torneranno anche per me, nelle alterne ed eterne vicende, giorni migliori. Non vi turbate e continuate ad inseguire, con l'accesa fantasia, le vostre chimere; continuate a sognare. I sogni, come le speranze, illuminano, riscaldano, confortano. Senza i sogni arida sarebbe ed impassibile la vita. Ma troppo qui mi sono trattenuto. Il tempo vola; il tempo è oro. Vado; seguo il mio destino".
E l'uomo strano, concluso così stranamente il suo strano discorso, scompariva come un fantasma nelle ombre della notte. Non doveva essere, certo completamente in possesso delle sue facoltà mentali, ma non si poteva neppure giudicare uno squilibrato, un esaltato. La sua narrazione, in apparenza fantastica, ma molto ordinata e talvolta lirica, non mi aveva dispiaciuto. L'affermazione del fatto, per via della rincarnazione, ad una vita, anzi ad una serie di vite viventi nell'eternità, non poteva non allettare, non divertire. Tutto è possibile, essendo tutto nel vivere mistero.
Ma anche la mia fantasia, rimasto solo, s'ebbe per un momento ad accendere, ad alterarsi, rivedendomi vivo nei secoli attore in gaie scene, in dolci ed epici episodi. Se gli istinti non si spengono del tutto, come affermava quell'uomo, potevo ammettere d'essere stato anch'io nei più poderosi eserciti valente, forte, prode guerriero; potevo ammettere d'essere stato anch'io nell'arte squisito musico, eccellente poeta.
E mentre nella strana suggestione mi cullavo, m'abbandonavo in altre bizzarre e piacevoli fantasticherie, le onde del mare, nell'eterno moto, continuavano lievi a frangersi nella ghiaia. Guardando però lontano, dalla parte nella quale l'uomo strano s'era allontanato, vedevo dapprima un punto luminoso; poi d'improvviso una vivida, grande fiammata.
Quella fiammata pareva che desse un avvertimento, che avesse in sè qualche cosa di nero, di sinistro. M'allontanai anch'io, nella notte, in fretta e turbato dal mare.
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