— Come ti chiami?
— Stanko.
— E poi? —
Il bambino non capisce e non risponde. Lo domando a una ragazza che attraversa il cortile.
— Si chiama Robancich.
Nome prettamente slavo.
Nel prato, poco lungi, un caporale, il milanese Bascialla, fa circolo. Ha ritagliata e l'ha conservata nel portafoglio una cartina della zona di guerra. Col dito teso, egli indica il famoso e misterioso Monte Nero.
Iscrizione trovata, due chilometri prima di Caporetto, su di una cappella votiva al ciglio della strada:
Nikdar Noben se ni Bil zapuscen
Kiv vartoo Marjis Bil izzogen.
Caporetto. Non ho visto che un campanile bianco con una guglia grigio-verde, sottile. Una moltitudine di soldati si affolla attorno a noi per cercare i compaesani. Ci accampiamo poco lungi dall'Isonzo, sulla nuda terra. Miei compagni di tenda: caporale Buscema, caporale Tafuri, caporal maggiore Bocconi. Nella notte romba il cannone, verso Gorizia. Nell'accampamento — vigilato dalle sentinelle — silenzio alto. Si sente la guerra.
16 Settembre.
Mattina fredda. Sull'Isonzo è un velo di nebbia. La notizia del mio arrivo a Caporetto si è diffusa. Discorsi e impressioni. Due soldati d'artiglieria. Accidenti! A sentirli, il nostro esercito è quasi interamente distrutto; l'Inghilterra dorme; la Francia è spezzata; la Russia finita.
Discorsi odiosi e imbecilli che io ho sentito ripetere tante volte. I due compari — che non sono mai stati al fuoco — la piantano in tempo giusto per evitare una energica cazzottatura. Ma ecco tre bolognesi. Il loro morale è infinitamente migliore.
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