Benito Mussolini
Diario di guerra (1915-1917)


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     Ecco l'Isonzo. Ampio, ceruleo, chiarissimo. Ronchi, quasi intatto. Trovo alcuni sottufficiali miei amici che mi invitano a dividere la loro mensa. Mentre si mangia, gli austriaci mandano quattro granate dirette alla stazione. Grande sinfonia di shrapnels contro un velivolo nemico. Alle ore quattro, partenza. Seguo il mulo che porta la mensa agli ufficiali della mia compagnia. Al bivio Selz-Monfalcone, una grande colonna, fatta con pietre appena scheggiate, reca un'epigrafe che non mi è possibile copiare. I muli vanno in fretta. Il movimento, salvo in alcuni punti, non è congestionato. Passo sotto le cave di Selz. Ora comprendo le difficoltà enormi che dovettero essere superate, per espugnare quel primo grande bastione dell'altopiano carsico. I nostri cannoni tuonano sempre. I segni delle battaglie sono ancora evidenti. Il terreno è lacerato. Trincee sconvolte. Casupole rovinate, alberi divelti. Nulla è in piedi. La guerra è passata qui, col suo terribile rullo compressore. Negli angoli, croci solitarie e collettive. È il crepuscolo. Mi volto, per guardare la pianura dell'Isonzo. Laggiù, è una striscia di mare.
     Doberdò è un nome. Del villaggio non restano che mucchi di macerie. Passiamo vicino ai due laghi o, meglio, due grossi stagni morti. Alcune voci: è la nostra quota. Tumulto di voci. Un camion è fermo: ha portato l'acqua. Trovo i bersaglieri della mia compagnia. Affettuosissime strette di mano. Mi attendevano.
     — Si parlava proprio di voi, in questo momento — mi dice un bersagliere amico, di Vernole, provincia di Lecce. Ricordo che egli mi volle portare lo zaino da Quel Taront a Minigos. Non dimenticherò tale atto di affettuosa simpatia da parte di questo umile contadino pugliese.