Tutti i feriti della camerata li hanno trasportati nella mia. Il dott. Piccagnoni era a pianterreno e stava operando un ferito gravissimo. Dopo lo scoppio, ha lasciato il ferito agli assistenti ed è corso di sopra. Ha messo un po' d'ordine. Ha rincuorato tutti. È stato ammirevole di calma e sangue freddo. Sistemati i feriti, è tornato giù a terminare l'operazione. Per fortuna, i nuovi feriti non sono gravi. Il più grave era ormai guarito. Ora una grossa scheggia gli ha rovinato una spalla! Continuano a fasciarlo. Perde tanto, tanto sangue! Quelli che possono parlare, commentano:
— Sono dei vigliacchi! Degli assassini! Ci vogliono uccidere per forza! —
Gli altri, che non possono parlare, fissano le pareti con gli occhi spalancati. Il sibilare delle granate — poiché gli austriaci continuano a sparare — provoca alcuni secondi di silenzio mortale. Ormai cadono lontano.
Il dott. Piccagnoni, insieme col dott. Velia e gli altri due medici, ritorna nella nostra camerata ed annuncia che nel pomeriggio tutti i feriti saranno portati al di là dell'Isonzo. I volti si rischiarano.
— Ed io? — domando.
— Lei rimane. Non è trasportabile. Mi farà compagnia! —
Pomeriggio.
Tutti i miei compagni di dolore sono partiti. Nell'Ospedale sono rimasti i medici, il cappellano, gli infermieri. Di feriti, soltanto io. Silenzio grande nel crepuscolo.
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