«Fervidissimi auguri ed un abbraccio. Ti aspetto qui!»
Vedo poi lettere e telegrammi ben auguranti di Dante Dini, di Giovanni Capodivacca, di Giselda Brebbia, Ida Bacchi, da Milano; Camillo ed Erminia Guaitani da Cassano d'Adda, Luigi Boni da Forlì, l'editore Ferdinando Zappi da Verona, un gruppo di operai da Torino; prof. G. C. Ferrari da Imola; soldato G. B. Ronconi, Pietro Montani da Reggio Emilia, ecc.
Mi pare di chiudere degnamente la manata di auguri scelti a caso, con la trascrizione letterale di questo messaggio da Ferrara:
«Egregio, come posso augurare bene a mio figlio, combattente sul Carso, auguro a Voi, soldato Italiano socialista, «una pronta guarigione. Vostro Angelini Giovanni, umile lavoratore».
Quanta nobiltà e quanto cuore in queste poche righe modeste!
Il tempo urge. Annotta. Mussolini è preso via via, da un accentuato torpore. Anziché a diminuire, la febbre accenna ad aumentare. Gli sussurro qualche parola. Apre gli occhi, mi tende la mano, sorride lievissimamente.
— Che dovizia di affetti in questi telegrammi, in queste lettere!
— Veramente! — risponde il nostro eroico bersagliere. Veramente! Ringraziate gli amici che sono stati con me in quest'ora. Ringraziateli al grido di «Viva l'Italia!».
Il volto di Mussolini, incorniciato dalle bende che gli fasciano la testa, mi appare assai più pallido, ora. Anche la fronte scotta.
Mi chino su Lui. Ci scambiamo un bacio. Mi allontano volgendomi verso il letto. I suoi occhi scintillanti e neri — singolari e suggestivi tra il candore del viso, del letto, delle fasce, di tutto — sono di strano contrasto con tanto bianco. Ma sono stupendamente sereni.
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