Con grandi precauzioni fu tolto dal lettuccio del treno, e trasportato all'Ospedale territoriale della Croce Rossa di via Arena, ove fu ricevuto dal capitano dott. Ambrogio Binda, legato a Mussolini da vincoli di fraterna amicizia.
Il Dott. Binda così parla del periodo in cui ebbe in cura il ferito:
Lasciando il campo, Mussolini mi scriveva: «Sono stanco, ho bisogno di riposo. Trovami un letto nel tuo ospedale».
Ed entrò nel mio reparto la mattina del 2 aprile.
Mussolini era enormemente deperito, fortemente anemizzato e febbricitante.
Venne ricoverato in una modesta stanzetta al secondo piano. Doveva sottostare, prima quotidianamente, poi a giorni alterni, a lunghe e dolorose medicazioni, che egli sopportò con uno stoicismo ed una forza d'animo impressionanti anche per noi, rotti a tutti gli orrori delle ferite prodotte dalle armi moderne.
Non volle mai la narcosi, neppure quando si trattò di operazioni necessarie supplementari.
Era soprattutto la ferita alla gamba destra, che per la scopertura dei tendini e dei nervi rendeva spasimante la medicazione.
Una sola era la sua preoccupazione: «Dimmi, Binda, riprenderò le funzioni dell'arto? Potrò tornare in trincea?».
Passava il suo tempo studiando il russo e l'inglese e leggendo opere letterarie e politiche.
Nelle ore pomeridiane aveva la costante compagnia della sua Signora, della buona e gentile signora Rachele, e dei suoi figli Edda e Vittorio. Bruno non era ancora nato.
Durante la sua degenza all'Ospedale, non vi fu uomo politico — italiano o alleato — che, passando per Milano, non abbia sentito il dovere di porgere un saluto ed un augurio al nostro martire.
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