(segue) Cinque anni dopo San Sepolcro
(24 marzo 1924)
[Inizio scritto]
Signori, la legge elettorale ha
tutti i crismi della legalità. È stata votata da un
Consiglio dei Ministri all'unanimità. Non sarà
inopportuno ripetere che fu presentata alla Camera, che la Camera
nominò una Commissione, che in questa Commissione i fascisti
erano rappresentati da un solo deputato, che il Presidente di questa
Commissione era Giolitti, che si discusse a lungo prima del passaggio
agli articoli, che si discusse non meno a lungo sui singoli articoli,
che la legge fu approvata per appello nominale e fu approvata a
scrutinio segreto con cento voti di maggioranza, e, dopo avere avuto
il suggello della legalità della Camera, ebbe quello del
Senato con l'unanimità meno quaranta voti contrari. Dopo di
che fu firmata da Sua Maestà il Re, e, pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale, diventò legge dello Stato. Mi domando come
si può tacciare in buona fede di anticostituzionalità
la legge elettorale, la quale del resto è molto meno
antidemocratica e reazionaria di quello che non sembri ai nostri
contradditori.
Si era chiesto di togliere il
limite di età? Fatto. La scheda di Stato? Concessa. E non
sentite d'altra parte che l'avere un poco sradicati i cittadini
italiani dai loro piccoli collegi in cui intristivano ha dato alla
lotta elettorale odierna una ampiezza non mai supposta e un elaterio
nazionale che forse era follia sperare? Questa lotta elettorale porge
ai cittadini italiani l'occasione di votare o prò o contro.
Non voglio indugiarmi a fare
l'elogio dell'opera mia e di quella dei miei collaboratori. Ma mi è
capitato fra le mani, proprio in questi giorni, edito dal mio amico
Ciarlantini, un libro del prof. Rignano che è un positivista,
un socialista, un uomo di valore. È strano che questo libro
che doveva scagliare la democrazia contro il Fascismo finisca con una
esaltazione del Fascismo, il che potrebbe farmi supporre che l'autore
covi delle tendenze senatoriali. Il primo e principale vantaggio —
dice Rignano — dell'avvento del Fascismo al Governo non è
che troppo evidente a tutti. Al disordine interno, all'anarchia, un
Governo; al disfacimento sociale, il rinsaldamento della compagine
nazionale; cessato il sabotamento del lavoro da parte degli operai
più riottosi, cessata la indisciplina nelle officine; cessati
i continui scioperi; cessati gli scioperi nei pubblici servizi;
cessata la guerra civile, salvo ancora alcuni fatti sporadici che
accennano a diminuire di numero; rimessa in attività tutta la
produzione del Paese; ispirato ai funzionari dello Stato un maggior
senso di dovere e responsabilità; impresso un andamento più
severo ed energico alle funzioni dello Stato, delle provincie e dei
comuni. Tutta questa ripresa di un ritmo produttivo, di un
funzionamento statale più ordinato, più intenso, non si
può negare abbia portato ottimi frutti nella ricostruzione
finanziaria ed economica del paese. Questo signore mi avverte: badate
che ogni regime ha in sé la legge dei propri confini. Oltre un
certo limite, il bene che può dare la dittatura diventa male.
Ma è appunto per questo che io, tiranno, ho rinunziato ai
pieni poteri al 31 dicembre 1923. Lo stesso consiglio me lo aveva
dato uno dei miei maestri, il più illustre, Vilfredo Pareto.
Ogni regime ha in sé la sua giustificazione a patto però
che non si prolunghi oltre le sue obiettive necessità
storiche, oltre le quali diventerebbe un anacronismo politico. Badate
che io li potevo avere, i pieni poteri. Quei certi popolari che fanno
ora i draghi che sputano fuoco, prima che io avessi parlato di
chiedere la proroga dei pieni poteri, me li avevano offerti. Avevano
votato, come si dice, l'analogo ordine del giorno. Credo che tutto il
resto della Camera, compresi i socialisti, sarebbe stata lietissima
di farmi fare il tiranno per un altro anno ancora. Io invece ho
pensato che ormai tutto quello che i pieni poteri potevano dare lo
avevano dato.
(segue...)
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