(segue) Su l'indirizzo di risposta al discorso della Corona
(7 giugno 1924)
[Inizio scritto]

      Ritengo però che l'occupazione delle? fabbriche rappresenti il massimo sforzo compiuto dai partiti socialisti nel dopoguerra. Ma l'occupazione delle fabbriche non poteva essere fine a sé stessa. L'occupazione delle fabbriche in tanto avveniva in quanto si fosse in un dato momento usciti dalle fabbriche per impadronirsi dello Stato.
      I socialisti non osarono, i socialisti ebbero paura. E non dico paura nel senso fisico, banale, offensivo della parola.
      I socialisti responsabili, di fronte alla realtà dei fatti, dissero: «E poi?».
      Eravamo nel 1920. Vi era una situazione interna difficile; avevamo. 15 o 20 miliardi di deficit, tutta l'Europa era percorsa da quella che fu chiamata la vague de paresse, l'ondata della pigrizia, del non lavoro. Io chiamo questa la tragedia della paura. Non osaste: il poi vi spaventò!
      Voi sapevate che ad un dato momento non avreste saputo frenare queste masse, molti elementi delle quali credevano che la rivoluzione socialista consistesse nel prendere, nell'assidersi più comodamente al banchetto della vita, mentre la rivoluzione socialista non poteva essere che una nuova organizzazione economico-sociale di un dato aggregato nazionale.
      Ma se voi avete avuto la tragedia della paura, noi ne abbiamo avuta un'altra: la nostra è la tragedia dell'ardimento.
      Questo primo colpo aveva danneggiato lo Stato liberale; ma dopo ne abbiamo degli altri. Alla occupazione delle fabbriche corrisponde nel triennio successivo l'occupazione delle città. Noi occupiamo le città. Da questo momento lo Stato non esiste più. È allora che io dico: così non può andare: di due fare uno; non si può essere Costantinopoli ed Angora, non si può essere Roma e Milano.

(segue...)