(segue) Ritorno di De Vecchi
(12 febbraio 1925)
[Inizio scritto]
La grande crisi iniziata nel
giugno è da ritenersi superata, almeno nel suo punto
culminante.
Il discorso del 3 gennaio è
stato risolutivo. Lo riconoscono i nostri avversari. Ma non è
finita. Se mi fosse lecito impiegare termini di guerra senza far
rizzare le orecchie lunghe dei sedicenti normalizzatori, io direi che
abbiamo vinto una battaglia, una grande battaglia, ma non ancora la
guerra. Abbiamo, all'infuori dei vecchi partiti, ritrovati molti
consensi anonimi, ed imponenti: li dovremo lavorare in profondità
per renderli definitivi, ma i frammenti dei vecchi partiti manovrano
ancora.
Ho voluto, caro De Vecchi,
ritracciarti in sintesi quanto è avvenuto. Né vale la
pena di scendere ai dettagli che a te — abituato oramai alle
solitudini primitive di quella terra africana al cui fascino strano e
potente si soggiace — non direbbero nulla.
Ma, prima di finire, voglio
additare il tuo esempio di disciplina ai fascisti d'Italia. Si parla
troppo, di disciplina. Della parola disciplina ci si riempie la
bocca, finché la disciplina è facile, ma se per
avventura essa impone un sacrificio politico o personale, allora
nascono i puntigli, i secessionismi e talvolta i tradimenti
nerissimi. La verace disciplina non conosce, anzi repelle, dagli
esibizionismi di troppi Marcelli, coi loro ridicoli sterili e oramai
noiosissimi dissidentismi, che durano quanto dura l'imbecille clamore
cronachistico e pettegolo della stampa nemica.
Disciplina è la tua, De
Vecchi. Tu sei andato dove ti ho detto di andare. Ti sei preso le
responsabilità che ti ho affidato. A Roma e in Somalia. In
Italia e fuori. Oggi come ieri. Domani come oggi. Così si
serve il Fascismo. Così si serve la Nazione. Questo è
l'esempio da dare al popolo, il quale nelle sue masse profonde, offre
da tre anni uno spettacolo semplicemente superbo di disciplina come
tutta la Nazione, come tutto il Fascismo, malgrado le ricorrenti
sporadiche beghe dei delusi, dei vanitosi e dei deficienti.
(segue...)
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