(segue) Al settimo Congresso di chirurgia
(7 aprile 1926)
[Inizio scritto]

      Nata da remotissime origini, la vostra scienza diventò tale in terra italiana e, sfuggendo ai suoi primi profanatori, si fece legge e disciplina con i sapienti uomini della scuola di Salerno, dalla quale poi doveva giungere, col Rinascimento, ai quattro gloriosi maestri cui ancora oggi essa, come ai numi più venerati devotamente si raccomanda; da Andrea Vesalio al Wurtzius, da Paracelso ad Ambrogio Pare.
      Non occorre ricordare a voi che questo ultimo, chirurgo di Francesco II, di Carlo IX e di Enrico III, accompagnava nelle lunghe guerre le armate sul campo. E quando, chinandosi sui guerrieri colpiti a morte, restituiva ad essi la sfuggente vita soprattutto con la legatura delle arterie da lui per primo sostituita al cauterio nell'arduo sacrificio delle amputazioni, quando dalla morte imminente ricreava prodigiosamente la vita, Ambrogio Paré, in esemplare modestia, e levando dal ferito gli occhi al cielo soleva dire: «Je le pansai, Dieu le guerit». No. Egli non aveva solamente curato, egli guariva. E là dove la morte uccideva, l'uomo ritornava a creare la vita.
      I sette libri di una delle più illustri opere della storia chirurgica hanno questo titolo: De corporis humani fabrica. Voi siete infatti, o Maestri dell'anatomia, i secondi fabbricatori del corpo umano. Con polsi fermi, con mani sapienti, con stoici cuori, con lucidi e freddi cervelli, voi avete, a poco a poco, strappato all'insidia del male la maggior parte dei più oscuri territori del corpo umano.
      Come soldato della grande guerra ho esperimentato a lungo sul mio corpo la vostra sapiente perizia, e con me milioni e milioni di feriti. Io saluto in voi i prodigiosi salvatori di innumerevoli vite, i vittoriosi eroi delle ambulanze. Ma se i soldati hanno riposo poiché anche le guerre più ardue hanno fine, non ha mai riposo il vostro combattimento contro la malattia. Sino all'ultimo giorno della vostra esistenza voi rimanete sul campo a tentare di salvare i feriti della vita; ancora più numerosi che i feriti su un campo di battaglia. Se ogni uomo degno di questo nome è soldato nell'ora della prova imposta alla Patria, voi siete, o maestri, gli infaticabili soldati della diuturna battaglia contro la morte. Sono lieto di vedervi in un numero così imponente, ospiti di Roma, e vi prego di accogliere insieme col mio saluto cordiale i sensi della mia ammirazione e simpatia.

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