(segue) All'assemblea dell'Istituto Internazionale di Agricoltura
(19 aprile 1926)
[Inizio scritto]

      Signori!
      Credo che nessun'altra rievocazione sarebbe oggi più degna di voi in questo moderno tempio di Cerere, che l'alta saggezza civile di Vittorio Emanuele III ha donato a Roma ed al mondo. È vero: in esso non si svolgono i riti né risuonano i canti delle prische celebrazioni. È vero: all'alato carme di Tibullo si sostituisce la prosaica umiltà dell'ordine del giorno: ma è pur vero che da quegli antichissimi riti, dai canti di quel popolo e di quei poeti che in Cerere veneravano la dea delle biade e della civiltà perviene a voi, per lungo ordine di secoli, il retaggio commessovi dalle mani di S. M. il Re d'Italia e che voi custodite con amore e fervore.
      È pur vero che la triplice spiga, vostra insegna, è l'insegna altresì di questa fulgidissima tradizione. È pur vero che vi aduna qui a consultare e a deliberare uno spirito di concordia e quel sano patto di sodalizio civile che attinge — dalla forza fecondatrice della gleba onde è nato ed in cui tutto vi si ritempra — i germi della ricostruzione mondiale. Purtroppo questa ricostruzione è ancora ritardata da molte cause di ordine economico e morale: è da una parte il distacco dalla terra che tocca in vari paesi così larghi strati della popolazione e che si manifesta con l'esodo rurale, calamità che mette in pericolo l'equilibrio delle forze sociali e insieme l'armonia dei rapporti tra le classi; è d'altra parte, la questione formidabile delle materie prime, alla cui soluzione deve contribuire in massima parte la produzione agraria e il meccanismo della sua distribuzione; è la questione non meno imponente della mano d'opera che andrebbe meglio ripartita sulle terre incolte o non abbastanza coltivate per ottenere una produzione più abbondante e, con l'aumento del reddito delle classi rurali, un più lungo benessere delle popolazioni.

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