(segue) All'Assemblea quinquennale del Regime
(10 marzo 1929)
[Inizio scritto]

      Fin qui io vi ho parlato del popolo nelle sue molteplici ed eterne espressioni; ma il popolo italiano ha una fede, è credente, è cattolico. L'Italia ha il privilegio unico di ospitare il centro di una religione da oramai due millenni. Non è per una mera coincidenza o per un capriccio degli uomini che tale religione è sorta e si è irradiata e si irradia da Roma. L'impero romano è il presupposto storico del Cristianesimo prima, del Cattolicesimo poi. La lingua della Chiesa è ancora oggi la lingua di Cesare e di Virgilio.
      Dopo i lunghi, tristi secoli della divisione e del servaggio straniero, Roma doveva essere la capitale dell'Italia risorta, poiché nessun'altra città poteva e può essere la capitale d'Italia, ma l'evento necessario e la fatale conclusione della prima fase del Risorgimento determinarono un grave dissidio che dal '70 in poi tormentò la coscienza degli italiani. Tale dissidio, vera spina nel fianco della Nazione, è sanato con gli accordi dell'11 febbraio.
      Accordi equi e precisi, che creano tra l'Italia e la Santa Sede una situazione, non di confusione o d'ipocrisia, ma di differenziazione e di lealtà. Io penso, e non sembri assurdo, che solo in regime di concordato si realizza la logica, normale, benefica separazione tra Chiesa e Stato, la distinzione, cioè, tra i compiti, le attribuzioni dell'una e dell'altro. Ognuno coi suoi diritti, coi suoi doveri, con la sua potestà, coi suoi confini. Solo con questa premessa si può, — in taluni campi —, praticare una collaborazione da sovranità a sovranità.
      Parlare di vincitori e di vinti è puerile: si parli di assoluta equità dell'accordo che sana reciprocamente «de jure» un'ormai definitiva, ma sempre pericolosa e comunque penosa situazione di fatto. L'accordo è sempre meglio del dissidio: il buon vicinato è sempre da preferirsi alla guerra.

(segue...)