(segue) Per il Consiglio Nazionale delle Corporazioni
(21 aprile 1930)
[Inizio scritto]
È ciò che accade in
tutti i Paesi dell'occidente, dove il sindacalismo, non potendo
arrivare alla cosiddetta socializzazione dei mezzi di produzione e di
scambio, come in Italia alla corporazione, segna il passo, o impegna
battaglie che si concludono regolarmente in disastri. Gli è
che il sindacalismo giunge a un punto in cui deve o tramutarsi in
qualche altra cosa o ridursi all'ordinaria amministrazione. È
per quest'ordine di ragionamenti che io attribuisco la massima
importanza all'art. 12 della legge: è per questo che io
affermo l'originalità e la forza di questo istituto, nel quale
la corporazione trova la sua espressione non soltanto economica, ma
politica e morale.
Ciò precisato, voglio
aggiungere subito che non bisogna attendersi di punto in bianco
eventi portentosi e miracoli inauditi dal funzionamento, che oggi
praticamente incomincia, del Consiglio nazionale delle Corporazioni.
L'azione che esso deve armonizzare e, se necessario, stimolare, si
svolge in un momento interessante dell'economia mondiale. Ho detto
interessante, nel senso che deve richiamare l'attenzione del Governo
e dei ceti dirigenti. Il fenomeno non è italiano, ma
universale e quindi anche italiano. È una situazione di
disagio, — più o meno acuto —, sulle cui cause è
perfettamente inutile di insistere, poiché sono note a ogni
mediocre osservatore della realtà economica attuale.
Episodi clamorosi e drammatici,
come le giornate nere dell'ottobre scorso alla Borsa di Nuova York,
la flessione dei prezzi all'ingrosso, le cifre dei disoccupati che
salgono a un milione 675.000 in Inghilterra, con un aumento di mezzo
milione nel corso di un anno, che sommano a circa due milioni e
350.000 in Germania, e a un numero di milioni non bene precisato ma
certamente alto negli Stati Uniti, sono elementi di giudizio e di
confronto alla portata anche dei semplici lettori di giornali.
(segue...)
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