(segue) Per l'«Olimpiade delle civiltą»
(20 aprile 1939)
[Inizio scritto]

      Se, malgrado i cirri temporaleschi che gravano all'orizzonte, noi abbiamo osato e continuiamo a lavorare alacremente, ciò dovrebbe essere considerato come un indizio promettente: e cioè che noi non vogliamo aggredire alcuno e che vogliamo, invece, continuare il nostro lavoro. È quindi sommamente ingiusto e da ogni punto di vista ingiustificabile il tentativo di porre i Paesi dell'Asse sul banco degli accusati; non meno assurdo è il congegno delle reciproche garanzie decennali, senza contare i piramidali errori di geografia (si ride) in cui si è incorsi da parte di individui che hanno la più rudimentale cognizione delle cose europee. Quanto poi alla «conferenzissima» ventilata e nella quale gli Stati Uniti si limiterebbero effettivamente alla solita parte di spettatori lontani, l'esperienza ci dà in proposito amare lezioni, e cioè che maggiore è il numero dei conferenzianti e più sicuro è l'insuccesso.
      Che si mandi o no una qualsiasi risposta al noto messaggio, io non potevo mancare l'occasione, che mi è data in questo momento, per riaffermare che la politica di Roma e dell'Asse è una politica ispirata a criteri di pace e di collaborazione, e di ciò Germania e Italia diedero molte concrete prove.
      È tempo, quindi, di ridurre al silenzio i seminatori di panico, gli anticipatori di catastrofi, i fatalisti di professione, i quali spesso coprono con una grande bandiera la loro paura, il loro odio insensato o la difesa di interessi più o meno inconfessabili.
      Noi, comunque, non ci lasciamo impressionare da campagne di stampa o da vociferazioni conviviali o da messianici messaggi (si ride), poiché sentiamo di avere la coscienza tranquilla e uomini e mezzi per difendere, con la nostra, la pace di tutti.
      L'Esposizione universale di Roma vuole essere la consacrazione dello sforzo che tutte le genti civili fanno sul cammino del progresso, non soltanto materiale.

(segue...)