Capitolo I - Eri qualcuno
Ho aspettato prima di parlarti che le cerimonie del Trigesimo fossero concluse. Sono finite. Ho voluto che si celebrassero solo nei luoghi che furono le tappe importanti del tuo breve cammino quaggiù; credo che sono venuto incontro alla tua volontà. Lascia che io ringrazi in tuo nome quanti ti hanno pianto. Sono stati molti. Innumerevoli. Grandi e piccoli. Noti e ignoti. Vecchi e giovani. Moltitudini si sono allineate lungo le strade del tuo ultimo viaggio da Pisa a Predappio: molti occhi erano pieni di lacrime e dominava — nel grande sole di agosto — un silenzio come mai si ascoltò. Migliaia di braccia si levavano per salutarti. Non sarà facile per me dimenticare il pallore e la emozione delle donne fiorentine né i singhiozzi che ti accolsero quando il tuo feretro fu innalzato sul carro a Forlì, né le piccole contadine che si inginocchiavano pregando al tuo passaggio. Dolore profondo, generale, spontaneo. Perché? Non perché ti chiami Mussolini. Ti chiamavi, ti chiamano ancora Bruno. Con una delle sue segrete imponderabili sensibilità, il popolo italiano, i giovani degli stadi o delle scuole e quelli delle armi, così ti chiamavano: questo voleva dire che tu eri qualcuno: che ti eri da te fatta la strada e che su te e non sul nome paterno volevi contare e contavi nella vita.
Così, quando nella mattinata del 7 agosto si diffuse di un tratto la notizia che tu eri morto, la gente disse: Bruno è morto! Ti scrivo in questa stanza di Villa Torlonia, dove alla sera entravi per sfogliare i giornali che io ti passavo. Alle pareti ci sono molte tue fotografie. Una di esse sembra guardarmi con una ombra di melanconia. Più volte nelle rare pause della tua esuberante giornata ho sorpreso in fondo al tuo occhio qualche cosa di vago, di lontano, di aspettante. Ecco che io rievoco il ciclo della tua vita: è perfetto; va da una guerra mondiale all'altra. Quando nascesti al quinto piano del numero 19 di via Castelmorrone a Milano, l'Italia era in guerra e si preparava alla riscossa. Era il 22 aprile del 1918. Io ero assente. Ero andato a Genova per la cerimonia della consegna di una batteria «Battisti» che gli operai dell'Ansaldo avevano offerto alla Patria. Al mio ritorno udii i tuoi primi vagiti. Eri venuto al mondo senza difficoltà. Tua madre ebbe appena il tempo di buttarsi sul letto. Finita la guerra, portammo i nostri lari in via Foro Bonaparte 38 sempre all'ultimo piano. Erano gli anni '20, '21, '22. Più volte fosti svegliato dalle sparatorie cittadine, diurne e notturne e dai tumulti scatenati nell'antistante Arena. Una improvvisa difterite ti assalì e ti mise in pericolo. Ricordo che tua madre, per alleviarti l'asfissia, ti portava su e giù lungo l'angusto corridoio, tutta affannata e piangente. Fosti salvo. Forse sin d'allora tua madre ebbe per te una sfumatura di predilezione. I tuoi ricordi di Milano sono quelli dell'infanzia. La scuola, i primi giochi, le prime esperienze della vita collettiva fra i Balilla e gli Avanguardisti. Molte fotografie che risalgono a quel tempo dimostrano già il tuo spirito agonistico e sportivo. A dieci anni praticavi già quasi tutti gli sport anche i più rischiosi. Tutto ciò ch'era macchina, gara, fatica dei muscoli, ti seduceva. Chi non ricorda, per le strade diritte della pianura attorno a Carpena, le tue corse in bicicletta, in moto, in auto? Già allora la velocità sembrava essere il tuo Dio o il tuo demone. Quante volte tornavi coi capelli arruffati, rosso in viso, madido di sudore — talora leggermente ferito — e ti addormentavi di piombo, stanco — talora senza toccare cibo — e dormivi il sonno senza uguali dell'adolescenza.
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