Come si vede anche nella dichiarazione del 1920 l'atteggiamento del Fascismo potrebbe chiamarsi «pragmatistico». Né questo atteggiamento sostanzialmente mutò durante gli anni 1921-1922. Nei momento della insurrezione, la repubblica, come dottrina o come istituto, non era presente all'animo del popolo. Dopo la morte di Giuseppe Mazzini e dei suoi compagni di apostolato — l'ultimo, Aurelio Saffi, morì nel 1890 — il partito repubblicano visse sulle «sante memorie», soffocato dalla realtà monarchica e premuto dalle nuove dottrine socialistiche.
Tre uomini si stagliano dal grigiore collettivo di questo crepuscolo: Dario Papa, Giovanni Bovio e Arcangelo Ghisleri, quest'ultimo di una intransigentissima adamantina fede, per cui non volle mai essere deputato per non dover giurare. Ma gli altri esponenti del partito si erano mimetizzati — attraverso l'elemento corruttore per eccellenza, che è il parlamento — con le forme monarchiche, sino, durante la guerra, ad assumere responsabilità ministeriali.
Questo tipo di repubblicanesimo demo-massonico era rappresentato dall'ebreo Salvatore Barzilai. Si può affermare che monarchia da una parte e massoneria dall'altra avevano praticamente svirilizzato l'idea e il partito. D'altra parte con la guerra del 1915-18, con la liberazione di Trento e Trieste, il compito storico del partito poteva considerarsi esaurito. Il sogno di un secolo di sacrifici, di martiri, di battaglie era stato realizzato. Il merito di avere per tanti decenni tenuta accesa questa fiaccola spetta incontestabilmente al partito repubblicano. Nel dopoguerra, fatta esclusione della «parata» rossa alla riapertura della prima Camera eletta nel novembre del 1919, nessuno parlò più di repubblica, nemmeno fra le sinistre.
|