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Di poi tutti gli anni, all'ultima domenica d'agosto, ricorrendo in Meldola la famosa sagra della Madonna del Popolo, andavamo, come si dice in Romagna, «a parenti», cioè eravamo ospiti per un giorno o due dei Gaiani. Talvolta anche la mamma ci accompagnava, ma più di sovente andavamo soli, a piedi. Partivamo da Dovia, nelle prime ore pomeridiane del sabato, già vestiti con gli abiti domenicali (ricordo che i sarti lavoravano al domicilio dei clienti), salivamo rapidamente attraverso le ancora esistenti scorciatoie, il Colle dominato dalla Rocca delle Caminate; qui, sempre ci fermavamo per rimirare il panorama della pianura e per la strada comunale scendevamo a Meldola, dove la vecchia Rocca ci faceva sempre una grande impressione. A Casa Gaiani ci accoglievano con particolare cordialità i figli — nostri lontani cugini — e con essi andavamo per i campi a cercare — nelle lacciaie — i primi grani di uva matura o ci fermavamo dietro i pagliai dove una fila di melograni suscitava le nostre meraviglie golose. Intanto l'aia si riempiva di molti biroccini che avevano portato altri rami della parentela. All'indomani, domenica, si andava tutti a messa, nella chiesa della Madonna. Ivi suonava la musica cittadina. Mi è rimasto da allora impressa una sinfonia di Rossini. Alle undici, lungo le strade — piene di movimento e di clamori, nonché attraversate da ondate di odori di cucina che uscivano dalle molte trattorie all'aperto o improvvisate — andavamo al mercato, oltre il canale, dove decine di coppie ballavano all'aria aperta. Talvolta le orchestre si componevano di una sola fisarmonica, ma talora, negli anni dei raccolti fecondi, le orchestre più rinomate di Romagna allietavano gambe e cuori: come i Zangheri di Meldola — grande clarino — il Zaclen di Cesena e il Cieco della Terrabusa, entrambi questi ultimi violinisti di grande riputazione. A mezzogiorno lungo la strada polverosa — allora erano sconosciuti automobili e asfalti — ci si raccoglieva tutti a tavola, abbondantemente fornita di pietanze e di vino. Alle quattro di nuovo in città per il numero più emozionante della giornata: la corsa dei fantini dalla stazione del tram (il solito tram belga, oggi sostituito dagli auto) alla salita del Praticello: cioè tutto il corso. Ricordo il clamore della folla, che faceva largo ai cavalli, pochi metri prima del loro passaggio e io me ne stupivo! Rivedo le scintille dei loro ferri percossi sul selciato e il ritorno trionfale del fantino vincitore. Da quel momento sino all'ave maria, ballo e vino e canzoni. Ma nella serata lo spettacolo che più mi attraeva e mi estasiava era costituito dalla girandola. Le armature dei fuochi artificiali venivano drizzate nella piazza principale vicino alla Caserma dei Carabinieri; c'era una folla immensa che seguiva con esclamazioni di gioia lo svolgersi dei fuochi, interpuntati dal fragoroso scoppio dei mortaretti e, a coronamento dello spettacolo, veniva incendiata la girandola principale, che durava a lungo, policroma, con in mezzo il nome di Maria e commuoveva la folla, riportandola dopo i divertimenti, le bevute e gli strapazzi della giornata, al motivo religioso della festa. La piazza ricadeva nel buio e noi, a piedi, ritornavamo a casa Gaiani, commentando. Prima di addormentarci, Luigi, nostro coetaneo, ci faceva il gioco degli indovinelli. Il giorno dopo tornavamo a Dovia, rifacendo la stessa strada dell'andata e — un po' stanchi e storditi — raccontavamo i particolari della festa ai nostri amici, che erano Donato Amadori della Puntirola, Romualdi Valzania, il Campanino (quest'ultimo morto) e altri minori. |