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Nel novembre del '26 Arnaldo scriveva: «Il Duce non può essere presente che nelle manifestazioni, oseremmo dire, di carattere storico. Ed ora dopo la sosta, più agile e più deciso di prima riprenda il Duce il cammino sull'erta della storia. Noi seguiamo in silenzio e da lontano». Io ero già dal novembre del '26 «Benito Mussolini che ha sgominato dei partiti, creato il Fascismo, sciolto in 48 ore un corpo armato come la Guardia Regia, liquidato il Soldino, l'Aventino e col discorso del 3 gennaio gli opportunisti». Solo una volta, dopo l'attentato della Gibson, sul Popolo d'Italia, Arnaldo dice «ho telefonato a mio fratello». Questo rapporto fatale di gerarchia politica non impediva però ai nostri spiriti di battere all'unisono nell'ambito familiare. La nostra vita privata era, si può dire, in comune. Ma la manifestazione del nostro reciproco affetto era sempre contenuta in Arnaldo dal suo temperamento più interiore che comunicativo e da un certo rispetto. Egli aveva il pudore del suo affetto verso di me. Io lo sentivo onnipresente, ma nell'ombra. C'era la «confidenza» la più ampia e reciproca, ma c'era in lui — anche — la devozione al Capo. In me c'era per lui un sentimento di tenerezza — centuplicato dopo la sciagura di Sandrino — e un moto d'orgoglio, perché anch'egli aveva superato brillantemente la sua difficile prova. Egli doveva salire; era già salito, ma per virtù propria, non per il nome che portava. S'egli fosse vissuto ancora qualche anno, gli sarebbe venuto di diritto quel riconoscimento di ordine nazionale, che tutti avrebbero perfettamente compreso e approvato. Il dolore lo aveva maturato, prima di ucciderlo. Negli ultimi tempi, i nostri incontri, la nostra intimità, veniva interrotta da lunghi silenzi. Ci aggiravamo per i viali di Villa Torlonia, senza fare parola. Ma avevamo entrambi lo stesso pensiero: Sandrino. Volevo dirgli e gli dicevo qualche volta: «Riprenditi, distraiti»; il viaggio in Libia gli fu quasi imposto da me, ma non insistevo troppo nella tema di apparirgli già dimentico della sua interna inguaribile tortura. Passato il Natale, io gli avevo progettato un viaggio nei paesi balcanici, ma non mi facevo illusioni sui risultati. Oramai egli viveva in un'altra vita e quella che trascorreva con me e con gli altri non era che una vita riflessa, di semplice attesa. |