Giulio Adamoli
Da San Martino a Mentana

Capitolo Secondo
San Martino
(1859)




       Non valse a intiepidire il nostro entusiasmo la sequela di piccoli guai, in cui ci trovammo impigliati al muovere dei primi passi fuori del nido, cagionati, mi duole il dirlo dalla imprevidenza del comando della brigata; il quale, per effetto dell'autonomia concessa nell'antico Piemonte alle brigate che si reclutavano col sistema territoriale, aveva creduto impartirci un'istruzione teorica, severa, e coscienziosa non abbastanza accompagnata dalla necessaria, applicazione pratica. Ben di rado, e sempre. limitatamente, ci aveva portati fuori per esercitarci alle marce, alle fazioni, agli attendamenti nè mai aveva quindi potuto verificare, se agli accessori occorrenti alle operazioni campali bisognassero modificazioni od aggiunte. Pareva che la guerra si dovesse condurre entro le mura della fortezza.
       Quando pertanto fummo sbalestrati a un tratto in rasa campagna, non solo ci mancava l'esperienza, ma saltaron fuori difetti e inconvenienti, non gravi, ma non facilmente riparabili lontano dai laboratori, e causa nei primi giorni di non piccola molestia.
       I giovani militari del dì d’oggi stenteranno per esempio a credere, che poche dozzine di picchetti e di sostegni dovessero bastare all'intero reggimento per imparare il modo di rizzar le tende credendosi inutile di fornirle singolarmente a tutti i soldati, perchè si diceva che ognuno potesse e dovesse provvedersene a piacere dagli alberi del terreno, in mezzo a cui si sarebbe impiantato il campo. In conseguenza di ciò il reggimento, giunto alla tappa, si sparpagliava per correre a devastare boschi e vigneti, litigando e battagliando per ogni ramo, per ogni palo; finchè, prima o poi, la necessità non obbligava ciascuno a prepararsi il proprio bastone, e a portalo alla meglio. La provvidenza, dal canto suo, pensò di ammonirci per tempo ad affrettare una così fatta precauzione, inviandoci a Lu presso Alessandria, la bella prima notte, un violento uragano. che mandò per aria le tende improvvisate, e convertì il campo, piantato su colline coltivate, in un vero lago di fango, nel quale i granatieri impiegarono la mattinata seguente a pescare armi ed arredi.
       In cambio dei picchetti e dei sostegni ci si era data, da portare in campagna, una coperta di lana oltremodo pesante, perfettamente inutile in quella mite stagione. Imponendo il buon senso di levarla via, il comando della brigata, per non assumere la responsabilità del provvedimento, provocò fra i granatieri una votazione plebiscitaria; e così la coperta, in grazie al voto unanime per la sua abolizione, venne rimandata ai magazzini.
       Perché poi ci sia stato sempre severamente vietato di appendere per la bretella il fucile alla spalla, non ho mai potuto spiegare. E nessuno, nè allora nè mai, mi seppe dire, perché quella striscia di cuoio imbiancata dovesse rimaner sempre rigorosamente tesa lungo la cassa. Durante una marcia faticosa un imprudente, stanco di palleggiarsi l'ingombrante fucile da un braccio all'altro, si permise di allentare la bretella, e di servirsene. A tanto sacrilegio gli furono addosso il caporale, il sergente, il tenente, il capitano; la bretella fu tesa di nuovo solennemente, e il granatiere consegnato alla tappa. Il sacro mistero della bretella non verrà rivelato, mai.
       Il keppy, coperto d'incerato nero, era un po' pesante; il cinturone, a cui si attaccavano la daga massiccia, la baionetta e la giberna con venti cartucce, stancava e addolorava il fianco; si sudava a grosse gocce per lustrare a cera lo zaino, anch'esso di pelle, nel quale si custodivano, oltre il corredo, altre venti cartucce, che la vigilia del combattimento passavano nel tascapane. Del resto, gli effetti dì vestiario andavano assai bene, quantunque non fossero perfezionati come al giorno d'oggi.
       Se qualche cosa non correva liscia, e si reclamava o si chiedeva un consiglio, "rangève!” Rispondevano invariabilmente tutti dal caporale in sù; "ràngete” rispondeva per spirito d'imitazione il granatiere, cui il compagno si rivolgeva. Il verbo rangèse veniva coniugato in tutti i modi ,e in tutti i tempi.
       In sostanza voleva dire: "aggiustati come puoi e non mi seccare”; ma spesso i granatieri interpretavano il vocabolo in un senso più ampio, che generalmente si esplicava, per i piccoli oggetti, a danno dei commilitoni. Le nappine rosse, per esempio, col numero della compagnia, e i turaccioli dei fucili, non si potevano salvare in guisa alcuna. Ora, se tutti si fossero "rangiti” vicendevolmente, e il giro non fosse mai stato interrotto, la compensazione si sarebbe facilmente stabilita. Ma ingenui non mancavano; ed essi, interrompendolo, rimanevano vittima degli altri.
       Per abituarci però a queste piccole miserie della vita del campo, il nemico e il comando dell'esercito nostro parve si accordassero a concederci un larghissimo margine di tempo. Durante l'intero mese di maggio non sì fece che alternare metodicamente marce ed accampamenti, così che attraverso quelle grasse pianure piemontesi, in mezzo a popolazioni sobrie di manifestazioni, ma sostanzialmente cordiali, che ci accoglievano come membri della loro famiglia, ci sembrò piuttosto di prender parte ad una esercitazione tattica che ad una guerra combattuta. Anzi, non metterebbe neanche il conto di seguire le peripezie del reggimento in quel periodo monotono: giacchè non si può contare come manovra di battaglia l'esserci spiegati e preparati a sostenere eventualmente, durante la giornata di Confienza, i nostri impegnati al fuoco. Citerò, per quanto si attiene a me, l'attendamento a Borgo Vercelli, in cui, arrivato stanchissimo, e destinato per turno alla gran guardia del campo, venni dimenticato per quattro ore in sentinella, senza che i messaggi al capoposto approdassero a nulla. Il caporale, che mi aveva messo in fazione in un luogo fuor di mano, essendo svenuto per la fatica della marcia, e nessuno ricordandosi di dovermi rilevare, arrischiai di finire come la sentinella leggendaria del primo Impero, ritrovata dopo venti anni con moglie e figliuoli allo stesso posto.
       Ricordo anche il campo di Terranova, su le rive della Sesia, perchè lì per la prima volta ci toccò provare il senso di raccapriccio innanzi alle vittime della guerra, vedendo portare attraverso i nostri battaglioni, ravvolta in un drappo di tenda, la salma del sottotenente Danesi, di fresco uscito dall'Accademia, ucciso sotto gli occhi del padre; il general Danesi, da una racchetta austriaca, tirata dalla sponda opposta del fiume.
       L'avvenimento capitale della giornata, durante quelle tappe, era l'arrivo del bollettino, che riferendo le gesta degli altri corpi, accresceva il malumore per la nostra prolungata inazione. Le mie lettere, a questo proposito, sono piene zeppe di recriminazioni e di querimonie. Così il 18 maggio scrivevo da Ponte Stura: "ieri abbiamo avuto una rivista del ministro La Marmora, oggi si aspetta il Re e quindi avremo un'altra rivista; e sempre riviste e pulire e lucidare; mai una fucilata: è pure una vita sciocca! L'altro giorno il maggiore Santa Rosa mi confermò la consolante notizia, che probabilmente entreremo a Milano senza tirare un colpo: che bravi granatieri!”
       Ma fu peggio quando a Villa Nuova, il 26, il bollettino ci riferì che Garibaldi, varcato il Ticino a Sesto Calende, avanzava in Lombardia. In ogni capannello di volontari non si udivano che frasi d'invidia per i Cacciatori delle Alpi; e parole di rammarico per avere indossata la divisa di un reggimento, che ci sembrava destinato per sempre alla retroguardia. Io non sapevo darmi pace di aver mancato di pazienza a Genova. Tanto più quando a Busto Garolfo, trovandomi agli avamposti, ed avendo fermato una carrozzella, perchè il mio ufficiale desiderava chiedere delle informazioni, seppi dal curato di Lozza, che la conduceva, i particolari delle vittorie di Garibaldi, e come si aggirasse proprio intorno a casa mia, e come mio padre corresse anche lui la campagna a fianco del generale.
       L'entrare in Milano, vergini di fuoco, ci sembrava una tale vergogna, da renderci indegni di ogni onorevole accoglienza. I milanesi, invece, ce la prepararono cordiale splendidissima.
       Il nostro ingresso nella capitale lombarda avvenne la mattina del 9 giugno. Dopo una breve sosta fuori della barriera per ripulirci e rassettarci, passammo sotto l'Arco della Pace in colonna di plotoni, e per Piazza d'Armi, e le vie Cusani, dell'Orso, San Giuseppe e Monte Napoleone, sboccammo sul Corso di Porta Orientale; sfilando sotto il balcone del palazzo Busca, da cui ci salutarono Napoleone III e Vittorio Emanuele, riescimmo sul bastione verso Monforte, ove ci fermammo a formare i fasci: quindi, rotte le righe, ci si permise di andare in città. La scorta di entusiasmo posto in serbo dai cittadini era tanta, che malgrado lo spreco fattone il giorno innanzi all'arrivo dei Sovrani e delle truppe vincitrici di Magenta, ne rimase d'avanzo anche per noi. Dai balconi le signore gettavano fiori, sventolavano fazzoletti; le popolane si spingevano fra i plotoni per stringerci le mani; gli uomini acclamavano: e noi, commossi, attoniti, accoglievamo le appassionate dimostrazioni, stecchiti nei ranghi con l'arme in parata. Il sergente mia guida di sinistra, avendo indicato me ad una bellissima fanciulla, che chiedeva di vedere un volontario milanese, questa mi piantò in petto un mazzolino di fiori, facendosi tutta rossa in viso: ed io non seppi dire altro che un grazie scipito, il cui ricordo mi perseguitò per un pezzo come il si figuri del sarto Manzoniano.
       I miei parenti, dopo averci veduti sfilare dai poggioli di casa Negroni, venivano appunto in cerca di me, quando li incontrai sul Corso; mi presero in carrozza: e in mezzo alla folla, che applaudiva e scoccava baci, attraversai Milano. Fu allora che dissi a mia zia Besana, la quale ne rimase tanto scandalizzata: "Mi paiono tutti matti", è credo proprio sia quella la più esatta espressione del senso che prova il soldato, dopo molte settimane di esistenza randagia, alle prime fervide manifestazioni di amore.
       Appena a casa mi misero a letto, ma mi fu impossibile trovar sonno fra le coltri, essendo avvezzo alla terra nuda. Feci in cambio solenne onore alla colazione, cui sedei insieme con gli ufficiali francesi, ospiti di mia nonna; meravigliati delle premure affettuose di tante belle dame per un semplice soldato. Dopo pranzo, alle sei e mezzo, allorché anche noi, messi all'unisono col concerto generale, ci ripromettevamo una serata di tripudio, il reggimento si pose in marcia, e si fermò lontano dalle porte a bivaccare su la strada maestra, sotto un diluvio di pioggia, che spense i bollori, e della esaltazione di Milano non ci lasciò che un ricordo fantastico, come di un sogno.
       E si riprese la solita vita di marce e di attendamenti, attraverso le campagne lombarde, su le strade polverose, fra gl'interminabili filari di pioppi, confortati però sempre dalle acclamazioni generali. Nei più umili villaggi ci si preparavano, per dissetarci, recipienti con acqua, o, se la condizione della famiglia lo permetteva, con vino; e le giovani contadine ci offrivano i frutti della stagione o le ova fresche, che sorbite di un fiato, passando, tanto ci ristoravano.
       Nelle grosse borgate le manifestazioni crescevano d'importanza. A. Treviglio, ove ci accantonammo, capitai in una casa, che non saprei più indicare, ma ove so che venni trattato cordialissimamente. A Brescia poi, quantunque molti altri reggimenti ci avessero preceduto, avemmo un’accoglienza consimile a quella di Milano. Pareva la nostra una marcia trionfale.
       Durante queste ultime tappe ci trovammo a contatto, qualche volta, con gli alleati; ma talmente alla sfuggita, che la impressione da noi avuta dei soldati francesi non potè mai essere profonda e sicura. Quantunque l'aria di superiorità che pigliavano con noi, c'invitasse poco alla simpatia, pure era facile riconoscere in essi l'animo generoso, la intelligenza, la disinvoltura. Gli zuavi specialmente, nel loro costume teatrale, con quelle loro facce energiche ed abbronzate, ci colpivano pel modo con cui sapevano arrangiarsi, e per le loro facoltà inventive. E più di una volta comprammo della carne agli ammazzatoi da essi improvvisati, e ci divertimmo allo spettacolo dei fantocci con cui intrattenevano il loro campo.
       Però mi fe' specie il vedere di quanti ritardatari seminassero la strada, con quanta indifferenza si sbandassero giungendo alla tappa, e quale mediocre attenzione prestassero alla voce dei superiori.
       Del loro coraggio, anzi della loro temerità nell'azione, non si discute neppure. I commilitoni di altri reggimenti nostri, i quali avevano combattuto a fianco dei francesi, quando se ne ragionava a guerra finita nei cameroni della caserma di Novara, raccontavano di essi cose straordinarie. Quelli della brigata Regina non avevano parole per magnificare gli atti di valore compiuti a Palestro, sotto i loro occhi, dal 3° zuavi. Ma non posso insistere su l'argomento, perchè le mie osservazioni personali, delle quali qui solo rendo conto, sono affatto insufficienti.
       Da Brescia proseguimmo per Lonato, nei cui dintorni accampammo. La mattina del 24 giugno i tamburi, pei quali, in omaggio a quei tempi, conservo una speciale predilezione, batterono la diana alle due e mezzo: e subito venne distribuito il rancio, che i più accorti inghiottirono senza badare all'ora eccezionale, conformandosi al sano precetto, imprescindibile pei soldati e pei viaggiatori, di mangiare prima di mettersi in cammino; mentre gli altri dovettero battersi a stomaco vuoto tutto il giorno, perché o non ne ebbero poi Il tempo o perdettero perfino le gamelle, come accadde a molti di quei volontari, che ci raggiunsero dal deposito di Alessandria precisamente la sera del 23.

       Appena levate le tende ci ponemmo in via: e il mio battaglione, che insieme con una sezione di artiglieria, uno squadrone di cavalleggeri di Alessandria e un battaglione di bersaglieri, formava l'avanguardia della divisione di estrema destra dell'esercito sardo, avanzò con le precauzioni necessarie prima su Castel Venzago, indi su la Madonna della Scoperta.
       Ben presto le nostre compagnie si spiegarono in battaglia nei campi laterali alla strada, fra gli steli del frumento maturo: e quantunque non si vedesse e non si udisse ancora nulla, si presentiva che il ballo non tarderebbe a incominciare. Allorché il Varesi mi disse: "Ouii, ghe semm!", quante impressioni mi assalirono! La idea concreta che si poteva morire, non mi si presentò; ma in sua vece provai una vaga apprensione anticipata del momento, in cui mi sarei trovato faccia a faccia col nemico: e mentre la soddisfazione sincera di menare le mani una buona volta, dopo sì lunga attesa, portava il sorriso alle labbra e un lampo negli occhi, il sangue, precipitando al cuore, faceva impallidire il viso, e un leggero brivido correva giù per la spina dorsale.
       Verso le sei udimmo i primi colpi, e quindi vedemmo riportare i feriti del battaglione dei bersaglieri, steso in catena davanti a noi. Poco dopo, giunti insieme con la sezione di artiglieria su la cresta di una collina, scorgemmo, a mezzo del versante opposto, le bianche uniformi di una colonna austriaca, che saliva rapidamente incontro a noi. Nello stesso tempo le palle incominciarono a fischiare, e colpirono per primo nel collo lo zappatore del nostro battaglione, di cui ancora mi sta dinnanzi la contrazione spasmodica della faccia.
       In un baleno i due pezzi vennero posti in batteria, e spararono a mitraglia, aprendo ad ogni colpo un vuoto nelle masse austriache, che si fermarono titubanti, e poi tosto retrocedettero. Avuto il comando, al grido di Savoia! Ci precipitammo per la china ad inseguirli, e con tale slancio, che subito sparì dai nostri petti quel ribrezzo, con cui il coscritto saluta, chinando il capo, le prime palle, che sibilano al suo orecchio.
       Il nostro ardore fu calmato dalle scariche micidiali di una batteria, che ci si parò di fronte. E toccò a noi retrocedere. E da allora, con assidua vicenda, per più di sei ore si combattè senza posa fra il rullio dei tamburi e il fragore delle artiglierie, attaccando ed inseguendo, fermandosi e ritirandosi secondo che più ingrossavano i nostri o gli austriaci, secondo che gli accidenti del terreno erano a noi od a loro favorevoli, giacché l'azione si svolgeva fra colline ed avvallamenti, fra campagne e selve intramezzate da ogni sorta di ostacoli.
       Il nostro vecchio colonnello Massa fu presto ferito ad un ginocchio, e venne trasportato via. Lo udii gridare dalla portantina, su cui l'avevano adagiato: "A l'è ferì l'vost courounel, avanti granatiè, evviva l'Re”., Quanto al generale Scozia, non lo vidi che un istante presso ad un cascinale.
       Le nostre compagnie quindi, mancando dell'alta direzione sino dal principio della giornata, si disseminarono a seconda dell'apparente bisogno del momento, e in quel terreno intricatissimo non fu possibile di raccoglierle. Quando occorsero forti nuclei per tentare attacchi efficaci e mantenere le posizioni espugnate, mancò perfino l’unità del battaglione. Ogni ufficiale animoso, alle volte anche i sottufficiali, raggranellavano i primi granatieri, che capitavano loro sotto mano, e li portavano contro il nemico. Si attaccava, si sforzava una posizione, sloggiandone un manipolo di austriaci, che si inseguiva. A un tratto, davanti a noi, si smascherava una batteria: o pure usciva da un bosco, appariva improvvisamente dietro l'insenatura di un colle una massa nemica, che ci fulminava, e poneva noi in rotta. A nostra volta, trovato un riparo sufficiente, od avuto un rinforzo amico, sostavamo, ripigliavamo lena, ricaricavamo i fucili e ci slanciavamo di nuovo.
       I nostri pesanti fucili ad avancarica, di grande calibro e di piccola portata, non ci permettevano se non di sparare pochi colpi. Io che fui costantemente nella mischia, bruciai undici cartucce; ma dopo i primi tiri, sentivo il braccio intorpidito pel maneggio della lunga bacchetta nella canna insudiciata, e risparmiavo il fuoco per la fatica che dovevo fare nel ricaricare. Al mio capitano, che ti ordinava di sparare verso una siepe, dietro cui gli sembrava di scorgere dei nemici, dissi: "ma io non vedo nessuno; mi permetta di tener da conto il mio colpo”: Ed egli, accettata la scusa, mi perdonò l'audacia della risposta. Tiravo poi sempre nei gruppi, perchè mi repugnava per istinto dal pigliar di mira, come al bersaglio, un uomo.
       Io ricordo della battaglia un seguito di episodi staccati; dell'andamento generale non capii nulla.
       Alla nostra sinistra, dalla parte dell'esercito piemontese, gl'ingombri e i rialzi delle colline ci impedivano di scorgere ciò che ivi succedeva. Alla destra invece, dove si apriva la pianura, s'intravedeva da lontano la torre di Solferino fra nembi di fumo e di polvere, squarciati a volte dal lampo delle baionette e dal rosso delle uniformi francesi. Ma troppo io avevo da pensare ai casi miei, per occuparmi molto dello spettacolo.
       Dei distaccamenti d'altre armi, nostri compagni di ricognizione del mattino, vidi uno, lo squadrone cavalleggeri di Alessandria, dopo ripetuti tentativi di cariche, resi vani dagli ostacoli insormontabili del terreno, subire stoicamente il fuoco, che lo decimava, fermo in un gruppo sulla strada verso Pozzolengo; dell'altro, la sezione di batteria, che avevo anch'io aiutato a piazzare e servire allorché iniziò con tanta efficacia la lotta, seppi che gli artiglieri, in quello stesso posto, si erano tutti fatti ammazzare su gli affusti infranti dei loro due cannoni.
       Nei molti nostri andirivieni, a un certo momento mi trovai a far fuoco sul ciglio di un burrone, mentre una scarica ben nutrita dei nemici buttò a terra, morti o feriti, quasi tutti i miei compagni. Ricordo sempre il bravo provinciale della mia squadra, che sparava inginocchiato al mio fianco, quando, colpito al cuore, portatavi la mano, invocato: "Gesù Maria!", capitombolò giù per lo scosceso pendio, rimase penzoloni impigliato in uno sterpo, nè più si Mosse.
       Un cascinale nei pressi della Madonna della Scoperta, fu per qualche tempo il centro delle nostre evoluzioni. Riparatici colà dopo un attacco, quante volte uscimmo alla riscossa tante dovemmo ripiegare entro quelle mura, sopraffatti dal numero dei nemici. I tirolesi, dalle uniformi grige, ritti come una fila di giovani pioppi sui dorsi dei poggi circostanti, ci fulminavano spaventosamente.
       Abbandonammo infine quel disgraziato cascinale; ma in esso, pur troppo, anche dei nostri, che furon fatti prigionieri. Fra questi un provinciale, il maggior pelandrone della 2a compagnia, che rintanato in cucina, non volle sapere di venir con noi, malgrado le più vive esortazioni. Ritornò al reggimento dopo parecchie settimane di prigionia, credo in Boemia, estenuato, in uno stato da far pietà, ben punito della sua cocciutaggine. Del resto fecero a costui degno riscontro alcuni soldati austriaci, che nella prima nostra carica trovammo seduti in fondo a un fossato, fumando tranquillamente le loro pipe di maiolica, e che si lasciarono catturare come se fosse cosa intesa.
       In generale però i nostri mostraron molto coraggio, quantunque alle volte la grandine delle palle seminasse strage in mezzo a noi. Pochi vidi scansarsi, col pietoso pretesto di accompagnare i feriti. I primi, che si slanciavano contro il nemico senza badare al rischio quando si comandava l'attacco alla baionetta, venivano sempre seguiti dal grosso dei compagni. Ma non mai sparvero le distanze fra gli avversari in modo da impegnarli all'arma bianca; prima dell'urto, l'una o l'altra delle masse cedeva invariabilmente il campo.
       Uno degli ultimi episodi del nostro combattimento fu l'allarme per la minaccia di una carica di cavalleria. Si gridava: "gli ulani! gli ulani!", e si correva tutti a formare il quadrato sopra un rialzo dì terreno intorno a un maggiore del 2° reggimento. Gli ulani non comparvero: ma in quella vece un vero turbine di fucilate finì di ridurci a mal partito.
       Era passato il mezzogiorno. La nostra ostinata resistenza aveva mandati a vuoto sino allora gli assalti del nemico, ripetuti con forze sempre maggiori, però che esso voleva penetrare fra gli eserciti alleati e separarci; ma oramai, spossati da più che sei ore di lotta continua, incominciavamo a piegare, e ci mancava la lena per ritornare alla riscossa. Io non mi reggevo dalla stanchezza, dal caldo, dalla sete, tanto più che non avevo gettato lo zaino, come molti altri; invocavo una palla, che mi sottraesse alla vergogna di rimaner prigioniero.... In quel supremo momento, si può immaginare con quanta emozione, noi vedemmo spuntare la brigata Savoia, dalle mostre di velluto nero, riserva della nostra divisione. Al passo di carica, vigorosamente battuto dai suoi tamburi, essa traversò, fresca, allineata, bellissima, gl'intervalli delle nostre compagnie, che l'acclamarono entusiasticamente: con un attacco gagliardo alla baionetta spazzò via i nemici, già affaticati anche loro; e così noi fummo salvi.
       Brava brigata Savoia! Quel giorno essa pugnò l'ultima volta per il suo re, per la sua dinastia a fianco de' suoi vecchi commilitoni del Piemonte; come l'ultima volta, in quella campagna, essa intuonò al bivacco italiano il ritornello della sua lieta canzone:

       Oh belle brigade,
       La brigade Savole!
       Peccato!

       Non pochi dei nostri, entrati un po' più tardi nell'azione, seguirono i savoiardi, e combatterono da valorosi nelle loro file: tra questi, Giuseppe Noghera, del 2° che allora si guadagnò la menzione onorevole. Ma io, io ero talmente affranto, che non appena liberato dall'incubo del nemico, mi gettai a terra, senza neppure slacciare il sacco, e lì, presso una nostra batteria, che tuonava senza interruzione, mi addormentai di un sonno di piombo.
       Rialzatomi dopo poco fresco, e riconfortato, cambiai il mio fucile, che m'aveva tanto fatto disperare perchè non riuscivo mai a ripulirlo dalla ruggine, con un altro, che raccolsi e mi sembrava ed era infatti più nuovo, e mi posi alla ricerca dei miei ufficiali, che non tardai a raggiungere. Domandai ingenuamente al mio tenente Mortarino: “Abbiamo vinto o perduto?” "Per ora” mi rispose "occupiamo il campo di battaglia, dunque mi sembra che abbiamo vinto”. Ma la lotta continuava; e poco dopo il temporale, fummo inviati a sostenere la nostra sinistra verso San Martino, senza però impegnarci in altri scontri. Finimmo per fermarci alla cascina di Ponticelli, dove aveva eroicamente combattuto la brigata Casale, 11° e 12°, dalle mostre gialle: e là, ad ora inoltrata, quando cessarono le cannonate, delle quali nell'oscurità si vedeva il bagliore lontano, ci gettammo per terra a riposare.
       Quella prima notte un solenne raccoglimento regnò fra le nostre fila. Un sentimento religioso occupava tutti gli animi. Si parlava poco, s'interrogava a voce sommessa intorno alla sorte di un commilitone, si chiedeva con una parola una notizia: poi ognuno si chiudeva nella propria coscienza. Solo più tardi nacque il desiderio di espandersi, di rallegrarsi con gli amici superstiti, di rimpiangere quelli che mancavano; e si diè la stura ai racconti interminabili degl'incidenti della giornata.
       Lo spettacolo, che ci si presentò tutt'intorno all'aurora del giorno 25, era spaventevole. I morti tanto spessi che li dovevamo smuovere per piantare le tende; semivestiti, gonfi, neri, giacevano in tutte le attitudini. Cavalli feriti si trascinavano nitrendo; altri, sventrati, ributtavano. Carriaggi rovesciati, affusti fracassati, armi rotte, attrezzi, cenci sanguinolenti coprivano la campagna, che pareva tutta spruzzata di giallo, per la gran quantità di distintivi gialli della brigata Casale. Un numero incredibile di lettere, gettate via dai predoni che avevano svaligiati gli zaini, faceva tristamente pensare a Dio sa quali e quanti cuori, spezzati per sempre.
       I pochi smarriti ritornavano, spiegando come meglio sapevano, la loro assenza. Un certo furiere, che non si era mai veduto durante l'azione, comparve quella mattina, raccontando una serie di avventure. Richiesto dal capitano dove avesse riposto il bossolo, in cui serbava i ruoli della compagnia, rispose seriamente, che una palla di cannone glielo aveva strappato di dosso. Uno scoppio generale di risa salutò cotesta invenzione.
       Si rimase in mezzo a quella gran desolazione più e più giorni, sino a che le squadre di contadini, stesi in catena, ebbero finito di raccogliere i cadaveri nelle grandi buche scavate all'uopo. Ci eravamo talmente avvezzati a questo pietoso lavoro, che non ci faceva più caso. Si commiseravano quei feriti, che venivano trovati ancora vivi dopo molte ore, dopo interi giorni di abbandono sul campo.
       La mattina del 27 ebbi la gioia di vedere comparire mio padre, primo fra i parenti dei volontari, che ci raggiungesse. Egli arrivò carico di lettere, di commissioni, di denaro confidatogli dalle famiglie pei loro cari: e fu accolto festosamente dal campo intero, e ben presto, grazie al suo carattere espansivo, godette anche fra noi della stessa popolarità, che si era già acquistata fra i garibaldini nella campagna comasca, e che doveva mantenere ed accrescere in altre campagne successive.
       Egli aveva ritardato di un giorno la venuta, per essersi fermato a Brescia a cercarmi nelle ambulanze e negli ospedali, credendomi ferito dietro una falsa informazione, come facilmente avviene in simili frangenti.
       Quel ritardo gli aveva porto l'occasione di assistere alle conseguenze del famoso panico, che sorprese le truppe alleate a Brescia, dopo la battaglia; pel quale, senza che mai si sia conosciuta la cagione, cavalieri e fanti si diedero ad una corsa disperata, non vedendo più nulla, solo pensando a fuggire il nemico immaginario. Mio padre ci raccontò gli aneddoti più strani ed incredibili, di conducenti che tagliavano le tirelle abbandonando i carriaggi, di moribondi che scappavano dalle ambulanze meravigliosamente risanati, urlando "les Allemands, les Allemands”. In verità gli effetti della paura su le masse superano ogni credenza.
       Il maggiore Santa Rosa disse a mio padre, che mi ero battuto bene, e che io e Bresciani della 2a compagnia, con parecchi altri volontari del reggimento, eravamo stati proposti al Ministero per la nomina ad ufficiali. Sperava che il Ministero consentisse. Infatti ricevetti allora le congratulazioni dei sottufficiali ed anche degli ufficiali. A Milano, scrive mia madre nel suo diario, si dava la nostra promozione come un fatto sicuro; ma il Ministero la rimandò alla fine della campagna. Certo è, che dopo la giornata della Madonna della Scoperta i volontari godettero nel reggimento di una maggiore considerazione.
       Il capitano Fezzi, che durante l'azione del 24 si condusse benissimo, tenendo compatta la compagnia, tanto che si meritò la medaglia di argento, ricevè anch'egli mio padre con deferenza cortese. Lo intrattenne intorno ai casi del combattimento, nei quali mi aveva avuto vicino, e conchiuse battendomi sulla spalla con assai lusinghiere parole al mio indirizzo. Mi propose poi per la menzione onorevole.
       Bravo Fezzi! Severo, arcigno, temuto ed amato nello stesso tempo dalla compagnia, di cui si occupava assiduamente, imparziale, di una solidità a tutta prova, aveva tutte le qualità dell'antico soldato piemontese. Nativo di Cremona si era arrolato nell'Esercito Sardo nel ‘48. Una seconda medaglia al valore, oltre quella del '59, si acquistò a Perugia nel ‘60. E da soldato morì alla testa del battaglione che comandava, il 24 giugno del 1866.
       Un saluto mando a lui, mia valorosa guida in quella giornata memorabile di San Martino. E un saluto mando a voi, commilitoni caduti quel giorno, così decisivo per il nostro risorgimento, durante quelle ore, di cui la memoria mi scuote ogni fibra. Evocando que' primi miei ricordi, il mio spirito corre con infinita commozione a quella così grande ecatombe di eroi che lassù versarono il sangue per la libertà e la indipendenza d'Italia. E le immagini di tanti giovani corpi, che vidi trafitti, il pensiero, che tante nobili vite furono troncate là nel loro fiore, ancora mi agitano la mente. Vorrei offrir loro un omaggio più degno, che non sieno queste umili parole, se l'indole del lavoro lo comportasse; ma il mio intento è più modesto, e la rapidità del racconto mi porta fuori del campo di San Martino.
       Prima però di procedere oltre, voglio far parola di un episodio, che avvenne non lungi dalla brigata dei granatieri già estrema destra dell’esercito sardo, ,e di cui non ho trovato alcuna menzione negli storici, che consultai; chiarire cioè la posizione, che una nostra brigata di artiglieria occupò durante la battaglia presso l'ala sinistra dei francesi. L'episodio mi fu, or non è molto, detto dal general Biandrà, capitano allora in quella brigata.
       Questa brigata, che faceva parte della divisione di riserva del generale Pastore, si componeva della 16a e 17a batteria con 8 cannoni da 16 per ciascheduna, e della 18a con 8 obici da 15 centimetri, ed era comandata dal maggiore Della Valle. Dopo aver passata la notte alle bettole di Lonato, nel mattino del 24, sentendo il cannone, essa stava coi cavalli bardati pronta alla partenza, quando, alle 9, il suo comandante ricevette l'ordine di accorrere verso Solferino e di mettersi a disposizione del comando generale dell'esercito francese. Le batterie partirono di trotto verso il punto indicato: ma non appena abbandonata la strada maestra Lonato-Desenzano, incontrarono tale ingombro di carriaggi e di feriti provenienti da Solferino, che l'avanzare fu loro impossibile. Il maggiore Della Valle comandò di entrare nei campi, e allora naturalmente occorsero parecchie ore per fare pochissimo cammino. Intanto il maggiore si allontanò per andare in cerca di ordini, e ritornò solamente prima che scoppiasse l'uragano, raccontando di aver assistito a tutta la battaglia tra Solferino e Cavriana, ma di non aver trovato nessuno cui chiedere istruzioni. Sul tardi, ben persuasi che verso Solferino non avrebbero più fatto nulla, le batterie retrocederono fin presso al crocicchio della strada maestra, ed ivi bivaccarono la notte.
       G. B. Tenani, di Padova, ora vice presidente della Camera dei Deputati, che serviva sin dal principio della campagna come volontario della 16a batteria, narrandomi i particolari di quella giornata, fremeva ancora, e si struggeva, rammentando le ore d'inazione presso la linea dei combattenti, mentre udiva il fragore, vedeva il fuoco, e seguiva le peripezie dell’attacco dei francesi. Per un giovine c'era di che diventar frenetico!
       E fu una vera disdetta per l'Italia, che l'imperatore non chiamasse a entrare in azione il Della Valle, perché l'intervento di una brigata di artiglieria piemontese all'assalto di Solferino avrebbe avuta un’importanza militare e politica non indifferente. In ogni modo non è men degno di memoria il fatto, che ventiquattro bocche da fuoco vennero tolte, durante la più grande battaglia della guerra, all'esercito sardo, e poste a disposizione dei francesi.

       Il mio reggimento rimase a Ponticelli sino alla fine di giugno, poi si portò a Ponti con una marcia, che poco mancò non diventasse funesta a me e a molti commilitoni, mandati per un momento ad occupare un castello diruto, il quale, appena usciti noi, venne tempestato di bombe dai fortini di Peschiera. A Ponti ci accampammo sul versante meridionale delle colline, che si stendono a mezzodì di Peschiera: e in attesa dei cannoni di posizione, che si dicevano in cammino, si bloccò la piazza. Allora incominciò per noi la vita veramente dura.
       Con un caldo soffocante, su di un terreno spoglio di ogni vegetazione, si lavorava per turno a scavare lungo il ciglio un fossato e delle buche, ove si collocavano al riparo le avanguardie destinate a sorvegliare il nemico. E bisognava aver cura di maneggiare il piccone e il badile curvi ben bene perché i cacciatori tirolesi, armati di eccellenti carabine, si divertivano a colpire quelli che per poco offrivano loro un punto di mira.
       Dai forti austriaci arrivavano incessantemente bombe, racchette, cannonate, che oltrepassavano quasi sempre il nostro campo non so se per imperizia degli artiglieri o per altra cagione; forse non ci credevano tanto vicini. Ben pochi di quei proiettili cadevano fra le tende, recando danni relativamente lievi, mentre parecchi incendiarono dei pagliai e distrussero dei cascinali alle nostre spalle.
       In principio ci dettero qualche inquietudine. Ma, dopo, abituatici, durante lo azzurre e stellate notti d'estate, erano per noi una festa, così le granate trasvolanti sul nostro capo con una coda di scintille e un vivace ronzio, come i razzi da cui si sprigionava un paracadute con una fiamma di bengala, la quale, illuminando i nostri trinceramenti, permetteva al nemico d'indirizzarci una cannonata, che noi però, al lampeggiare della scarica, avevamo il tempo di schivare.
       Ci opprimeva sopratutto il turno di guardia, che ci toccava ogni due giorni. Nelle ore chiare si stava accovacciati nelle buche, e sotto il sole di luglio si arrostiva, e per la stanchezza non ci si reggeva dal sonno. Di notte poi, dovendo fare il servizio di sentinelle volanti, che veniva di solito affidato a noi volontari, si arrischiava sempre, malgrado ogni cautela di parola d'ordine e di segnali convenuti, di pigliarsi in corpo una fucilata dalla sentinella fissa, alla quale bisognava avvicinarsi: lo sparare, per chi è colto dal panico, vien naturale, e nelle tenebre, fra mille accidenti di ombre paurose, in faccia al nemico, è difficile ridurre lo spirito degli uomini tanto calmo da saper distinguere la realtà dalle fantasime della immaginazione sovreccitata. Ciò accadde pur troppo le prime notti; si respinsero degli attacchi veri: ma non mancarono anche gli allarmi falsi, seguiti perfino da mischie funeste, durante una delle quali venne appunto ferito un vecchio caporale della mia compagnia. L’abitudine e la pratica rimediarono a tali inconvenienti in brevissimo tempo, tanto la natura del soldato italiano è pronta a intuire e facile ad addestrarsi.
       Alle volte ci si distribuiva pane ammuffito, immangiabile; nè era possibile provvedere altrimenti, perché il cantiniere non trovava modo di approvigionarsi. Non si potevano ristorare coi lavacri le membra riarse, perché acque vicine non esistevano, e il Mincio scorreva anch'esso troppo lontano. Saputosi una volta che alcuni granatieri, tra i quali anch'io, si erano spinti su le rive del fiume per bagnarsi, subito l'ordine del giorno portò la proibizione assoluta di uscire dal campo.
       Eppure, fra tante fatiche e tanti disagi la solidità e la resistenza nostra non si smentirono mai. Sotto la tenda si mormorava, come avviene sempre nelle grandi riunioni d'uomini; si mormorava come nel quartiere e nelle marcie: ma nè la disciplina nè il servizio soffrirono mai il minimo strappo.
       Forse le forze fisiche non avrebbero potuto sopportare a lungo una simile esistenza; ma a interromperla, ed anche troppo presto, sopravvenne l'armistizio, concluso dall'imperatore dei francesi l'8 luglio, valevole sino al 15 di agosto.
       Confesso, che accogliemmo come un sollievo l'annunzio della sospensione delle ostilità. "Finalmente” scrivevo il 9 a mia madre “possiamo dormire un po' più quieti, senza essere destati tutti i momenti dal rombo dal cannone”. Con ineffabile voluttà ci tuffammo nel Mincio, e ci concedemmo tutte le raffinatezza che la situazione consentiva. Una lepre smarritasi fra le tende ci offrì anche un passatempo cinegetico, perchè i granatieri si diedero a cacciarla sul ciglio dei colli con tale scalpore, che gli austriaci, insospettiti che si rompessero i patti, coronarono gli spalti dei forti colle micce accese alla mano.
       Godevamo con tanto più intenso piacere il riposo accordatoci, quanto più credevamo per fermo, che la guerra continuerebbe, e ci ripromettevamo per la fine dell'armistizio una energica ripresa delle ostilità. Invece, l'11 di luglio si firmava la pace di Villafranca.
       La notizia cadde nel campo come un colpo di fulmine. I veneti piangevano, mettevano compassione. Noi, desolati, non ci volevamo convincere che tutto fosse finito, che si dovesse abbandonare nelle mani dell'Austria quella Venezia, che già consideravamo come nostra. Ci vergognavamo del piacere provato alla conclusione della tregua, che aveva preceduta una soluzione così inattesa. Senza il freno della disciplina, chi sa quali clamorose dimostrazioni avremmo fatto.
       Si riprese mestamente la via del ritorno, e il 21 di luglio il reggimento si acquartierò a Monza, ove ricominciò la vita di guarnigione con le sue noie inevitabili, alleviate dalle manifestazioni di simpatia delle popolazioni, che appena sorte a libertà godevano di avere finalmente dei soldati italiani, comandati da italiani, a guardare le loro case.
       Poco tempo rimasi a Monza, e il 12 di agosto lasciai il reggimento per recarmi alla scuola militare di Novara.
       Già nel luglio i quadri dell'esercito erano stati rafforzati coi sottotenenti usciti dalle scuole di Ivrea e di Pinerolo, dove molti volontari entrarono prima della campagna con la promessa del governo piemontese di ottenere il grado di sottotenente dopo un breve periodo di studi. E infatti una parte elettissima di quei giovani novellamente promossi, fiore della società milanese, ci aveva raggiunti a Monza, dolente che la pace di Villafranca lasciasse inappagato il suo desiderio di prendere parte alla campagna. Ma neppure questi bastavano alle esigenze dei quadri, dopo l'aumento dell'esercito richiesto dall'annessione della Lombardia al Regno, e dalle previsioni di prossime complicazioni. Quindi il governo, per sopperire alla deficenza, invitò i volontari più colti, che avevano partecipato alla campagna come semplici soldati, a seguire un corso d'istruzione a Pinerolo per quelli di cavalleria, a Novara pei fantaccini.
       Sebbene io non avessi intenzione di dedicarmi alla carriera militare, pure mi decisi a profittare della offerta, per essere ancora pronto a servire il paese in caso di nuove guerre nazionali. Fui quindi inviato, insieme con settecento commilitoni circa fra volontari e bassi ufficiali di ogni arma di fanteria, a Novara, dove, acquartierati nella gran caserma Perrone, seguimmo un corso teorico-pratico sotto la direzione dei tenenti colonnelli Cadorna prima, poi Bicotti, per porci in condizione di disimpegnare le funzioni del grado futuro.
       Quelle ore di intimità cordiale, di gaiezza spensierata, trascorse in quei cameroni, sono ancora vivissime nella mia mente. E vorrei che tali si conservassero anche pei compagni, fra cui molti raggiunsero alti gradi nell'esercito; perchè così sorriderebbero meco al ricordo delle scene, in cui essi hanno pure rappresentata una parte.
       Non possono per esempio aver dimenticato il concerto eseguito nel primo camerone, splendidamente illuminato a moccoli, in cui il granatiere Cavallotti, alto un metro e ottanta, coronato di fiori e leggiadramente drappeggiato nei lenzuoli delle brande, rappresentava la Sorella Ferni; e come al morire delle ultime note del Carnevale di Venezia, fra un subisso di applausi, si spalancasse l'uscio, e nel vano della porta apparisse l'ufficiale di picchetto gridando: "cosa ca l'è sto rabell?”; e come la Ferni scivolasse col violino sotto il leggio, e l'uno sofiasse i moccoli, l'altro si liberasse dai travestimenti, un terzo facesse scomparire gli apparecchi teatrali: la chiusa, insomma, riuscisse degna dello spettacolo.
       I bersaglieri, alloggiati nei cameroni del secondo piano, rivaleggiavano coi granatieri nella varietà delle invenzioni, e per non parere da meno, organizzarono, sopra un palco disegnato dal bersagliere Casnedi, una rappresentazione mimo-danzante, che attirò pure una folla di spettatori. Vi colsero applausi infiniti la prima ballerina, bersagliere Airaghi, ravvolta in veli trasparenti, che permettevano di ammirare il candore delle carni; la seconda ballerina, bersagliere Peverelli; e il primo mimo, bersagliere Praga; nonché l'orchestra. E anche allora una scappata generale al comparire del tenente diede termine al divertimento.
       L'animazione della scuola durò sino al tempo degli esami, che ci dette il Ricotti. Dopo, nel novembre, la caserma si spopolò, perché si concessero con grande facilità le licenze, e specialmente i volontari inscritti nelle università ne profittarono per recarsi a dare gli esami del corso annuali. Io, come gli altri, il 2 novembre, andai a Pavia con un permesso di venti giorni.
       I professori, in considerazione dell'anormalità dei tempi, si mostrarono di facile contentatura. Alcuni poi di quei più vecchi, compresi di ammirazione per i giovani salvatori della patria, e fors'anco per far dimenticare qualche piccola marachella rispetto a patriottismo, ci abbracciarono con entusiasmo, e per poco non ci ringraziarono del favore loro concesso di esaminare degli eroi. Superato così il secondo anno, mi inscrissi al terzo di matematica.
       Però il soggiorno di Pavia, in mezzo alla esaltazione dell'Università, nocque alla scuola di Novara, e le rubò qualche anima. Il partito d'azione, al quale appartenevano tanti miei amici, promettendo spedizioni e nuovi ardimenti a chi non fosse coperto da una divisa, tentò anche me. Solamente dopo fieri contrasti ritornai fra' commilitoni, ma in una condizione di spirito assai difficile; gli ultimi giorni passati nella caserma Perrone, anche perchè eravamo incerti del nostro avvenire, ci si resero alquanto uggiosi.
       Finalmente ci si licenziò il 17 dicembre. Riuscito tra i primi agli esami, venni assegnato al mio antico reggimento, il 1° granatieri, di guarnigione a Milano, insieme con molti compagni, tra cui Achille Bizzoni, che aveva fatta la campagna nella brigata Regina, giovane pieno di brio, col quale presi alloggio per la grande amicizia che ci univa sin da Pavia; il conte Gritti e lo Zorzi, due colti gentiluomini veneziani, quest'ultimo anche non mediocre dilettante di pittura; Paolo Frigerio, che fu poi a Custoza, nel quadrato del 49°, a fianco del principe Umberto; Luigi Poli, fine, aristocratico, già sin d'allora portato verso un certo sentimentalismo mistico, che gli doveva inspirare una fatale risoluzione; Luigi Chiala, il noto scrittore segnalatosi alla Madonna della Scoperta; Michele Radaelli, il Vighi, l'Amadio, e poi tanti e tanti altri, e poi anche, sicuro, il mio degno sergente Quasso.
       Ci presentammo al reggimento in uniforme di sottotenente il 1° gennaio 1860. E’ facile immaginare la soddisfazione per un giovane non ancora ventenne di vestire la tunica elegante che allora si usava, di sfoggiare le spalline rilucenti; ma quando il colonnello Incisa di Beccaria, nella caserma di San Vittore Grande, ci condusse solennemente, in mezzo agli antichi superiori, dinnanzi a quei veterani, che avevano partecipato con noi alle fatiche della campagna, e ci fece giurare su la bandiera, che ci aveva guidati nella battaglia.... Dio mio! la intensità della commozione che provai non fu in seguito mai più superata.
       Il mio vecchio amico, il maggiore Santa Rosa, mi accolse con l'usato affetto, e mi volle ancora sotto i suoi ordini nel 1° battaglione. Venni destinato alla 4a compagnia, sotto il capitano Grosson e il sottotenente anziano Rinaldo Taverna.
       Quando il Grosson si dimise, preferendo, come fecero parecchi ufficiali dell'esercito di quell'epoca, di andare nell'Emilia e ottenervi un grado superiore, lo sostituì al comando della 4a l'ottimo capitano Fiore.
       Fra gli ufficiali contavo una numerosa schiera di amici. Il reggimento, essendovisi introdotto, di mezzo alla severa ufficialità piemontese, un elemento nuovo, giovane, brillante, aveva preso un aspetto più gaio. Nella città piena di vita, esultante per la libertà recentemente acquistata, si succedevano splendide feste, e in ogni luogo ci si accoglieva con favore. Passai un inverno di delizie, alternando con il servizio balli e mascherate, e perfino un po' di studi matematici.
       Così durò per quattro mesi. Nel maggio Garibaldi partì per la Sicilia con la spedizione dei Mille; io gli tenni dietro poco dopo, e un nuovo seguito di avvenimenti mi travolse.


Capitolo Terzo: In Sicilia (1860)

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