Durante il tempo che scorse fra il licenziamento dalla scuola di Novara e la presentazione al reggimento, mentre stavo a casa, in Varese, occupato ad equipaggiarmi, mi venne fatto di soddisfare all'ardente, antico desiderio di conoscere personalmente il generale Garibaldi.
Il generale, dopo aver deposto il comando delle truppe dell'Italia Centrale, si era recato verso la metà del dicembre 1859 nella villa del marchese Raimondi, a Fino, presso Como. Là, il 21 di quel mese, mio padre mi condusse, insieme con un amico, a visitarlo.
Garibaldi giaceva in letto per una scorticatura alla gamba, cagionatagli dallo avere violentemente urtato contro un albero, montando a cavallo, per diporto, nella foresta. Un suo intimo e mio conterraneo, Felice Origoni, ci annunciò e c’introdusse.
Per quanto io fossi preparato, la emozione, che provai alla presenza di quell'uomo, mi riescì profondissima: il fascino della sua voce mi vinse addirittura; l'abbraccio ch'egli mi diede, mi fece suo. Ci accolse con familiare cordialità, facendo particolarmente a mio padre una gran festa, e rammentando con semplicità carezzevole i servigi, che egli aveva reso ai Cacciatori delle Alpi quando si aggiravano fra il lago Maggiore e Varese. Informatosi dei fatti miei e dei miei progetti, m'incoraggiò a continuare nella carriera delle armi, per tenermi pronto a combattere le nuove guerre della patria, e mi raccomandò di non trasandare gli studi di matematica, che mi avrebbero giovato anche nella milizia. Infine ci congedò, augurandosi di trovarci presto, tutti quanti, di fronte al nemico.
Mi sentivo, partendo da Fino, più alto di un palmo.
La impressione di quell'ora rimase certamente assopita presto dalle occupazioni del servizio e dalle seduzioni della città, che mi assorbirono completamente durante i primi mesi del 1860. Ma quando, nella primavera, si sparse la notizia della insurrezione di Sicilia, e l'opinione pubblica si commosse all'annuncio dei preparativi della spedizione di soccorso, la fantasia mi riprodusse viva la immagine affascinante di Garibaldi, e, nella mia mente il proposito di seguire le sue sorti, vago dapprima, andò agitandosi e pigliando ogni giorno maggiore consistenza.
Non però senza una lotta fiera e dolorosa. Perchè se da una parte m'incalzavano la smania di fortune nuove, gli eccitamenti dei condiscepoli dell'Università, la convinzione di cooperare più attivamente alla liberazione della patria, e il lievito rivoluzionario, che un po' fermentava sempre in fondo all'animo mio, anche per effetto delle opinioni di parte democratica, condivise da mia madre e da mio padre; dall’altra mi rattenevano lo scrupolo di abbandonare la bandiera, cui da così poco tempo avevo giurato d'esser fedele, l'affetto dei commilitoni, i consigli dei miei capi, dolenti che io rinunciassi ad una brillante carriera e convinti che anche l'esercito sarebbe presto nuovamente entrato in campagna, e, finalmente, le amorevoli ma calde
rimostranze dei miei congiunti di Milano, severi conservatori, i quali mi trattavano nientemeno che di spergiuro se loro parlavo di svestire la divisa piemontese per andare a combattere con Garibaldi. Solo chi ha vissuto in quei tempi di sovraeccitazione può comprendere a quale duro cimento venisse posta la mia coscienza. E in tanto che mi dibattevo nel bivio, Garibaldi partì, e io mancai di far parte della prima spedizione dei Mille.
Allora la tensione di tutte le facoltà dell'animo mio diventò insopportabile. Non seppi resistere più oltre, e il 10 maggio presentai le dimissioni, che trattenute ventiquattro ore dal colonnello, il quale tentò un'ultima volta di persuadermi in contrario, vennero da lui spedite al
Ministero, mentre, a un tempo, mi accordava una licenza di tre giorni per recarmi in seno alla famiglia.
Ritornato a Milano il 14, non ritrovai più il
reggimento partito per Livorno. Lo seguii immantinenti: ma arrivato a Genova, profittai delle ore che ancora mi avanzavano prima di salire a bordo (non esisteva la ferrovia littoranea), per abboccarmi col Bertani e col Medici, e raccomandar loro di annoverarmi tra' volontari di una
prossima spedizione per l'isola. E il Bertani mi lasciò intravedere, che se ne preparava una, ma piccola, di cui pochi sarebbero stati gli eletti”. S'immagini quindi con quale ansia io vivessi in quei giorni a Livorno, temendo sempre di leggere su per i giornali che la nave fosse salpata, poichè io non sapevo come recarmi da solo in
Sicilia, già messa oramai fuori di ogni comunicazione regolare.
Il 20 maggio mi fu annunciata l'accettazione delle dimissioni, e senza por tempo in mezzo, preso in fretta congedo dai superiori e dai commilitoni, i quali, com'è naturale, giudicavano diversamente della mia condotta, ma tutti affettuosamente si auguravano di trovarsi presto al
mio fianco sui campi di battaglia, m'imbarcai per Genova. Dal canto mio ho conservato sempre un ricordo carissimo del mio antico reggimento, e i legami, stretti in mezzo a quella nobile famiglia militare, vanno per me diventando sempre più preziosi. Per nulla al mondo cederei il vanto di aver vestita la divisa del l° granatieri, ed oggi ancora, quando vedo quegli alamari spiccare su le uniformi e fiammeggiar le granate, il sangue mi si accende come in un vecchio cavallo
di squadrone, e griderei volentieri a quei giovani ufficiali: "anch'io fui dei vostri!”
In que' momenti però, pieno d'ardore per la impresa cui mi accingevo, non abbondai in dimostrazioni e fui spiccio negli addii, impaziente soltanto di giungere a far vela per l'isola misteriosa. Ma il Bertani mi calmò, assicurandomi, che per ora non partivano spedizioni, e che avevo tutto il tempo di andare a casa; e così venni dì nuovo a Varese.
Qui trovai Felice Origoni, che ignaro della risoluzione di Garibaldi, si trovava in Sardegna al momento della partenza da Quarto, e ora anelava di raggiungere il generale in Sicilia. L'Origoni era un vecchio amico della mia famiglia; abbandonato sin da giovane il paese nativo, e datosi alla marineria, aveva corso il mondo, e fatto anche parlare di sè per una traversata dell'Atlantico su di un piccolo battello, quando così fatti ardimenti non erano tra noi di moda. Legatosi d'amicizia in America con Garibaldi, ne aveva sempre seguite le fortune, laggiù, in Lombardia, a Roma, e serbava, a testimonianza delle sue avventure, una cicatrice di ferita d'arma da taglio nel bel mezzo del naso, che non lo abbelliva, ma gli conferiva un certo carattere originale.
Concertammo di viaggiare insieme, con piena soddisfazione di mia madre e di mio padre, i quali vedevano in lui un appoggio alla mia inesperienza. Io, inquieto e impaziente. a malgrado delle assicurazioni del Bertani, tornai a Genova la mattina del 25; Origoni mi doveva raggiungere la sera.
Un'ora dopo mezzogiorno, risalendo per caso all'albergo, udii raccontare vagamente, che una spedizione partiva la notte stessa per la Sicilia: nessuno però ne aveva notizia certa; non si conosceva nè chi la componesse, nè chi la guidasse. Per attingere schiarimenti, corsi dal Bertani; questi mi rispose asciutto, che erano fandonie. Mi rivolsi al Medici; mi ripetè anch'egli, che pel momento non partiva nessuno, e mi fece in cambio un mondo di promesse, dicendomi, che si sarebbe giovato di me per l'avvenire, come
ex-ufficiale dell'esercito, organizzare i volontari per una nuova spedizione.
Niente pago di coteste spiegazioni, pranzai di mala voglia, e scesi a zonzo verso il porto.
“Ehi, Adamoli, che fai?” mi odo alle spalle. Volgo il capo: è Francesco Fera, un giovane calabrese, valoroso cacciatore delle Alpi, ferito a Varese e curato in casa mia; lo stesso, che ora comanda il 40° reggimento di fanteria.
"Aspetto d'imbarcarmi per la Sicilia, e tu?” gli chieggo io, correndo con l'occhio alla borsa da viaggio che aveva ad armacollo.
"Io parto stasera per laggiù”. E mi racconta su due piedi di sè e di altri pochi, che movevano senz'altro per l'isola dei nostri sogni.
Lo accompagno al molo, salto con lui nel gascio, monto a bordo del vapore, che alle 11 leva silenziosamente l'àncora, ed eccomi, col cuore in sussulto, su le acque del mare.
A spiegare l'enigma conviene ricordare, che i vapori Piemonte e Lombardo, dopo di avere imbarcati i mille a Quarto, incrociarono tutta la notte in vista della costa, aspettando le barcacce, che dovevano portare i fucili e le munizioni. Per uno di quegli accidenti tanto facili a verificarsi in occasioni così straordinarie, le barcacce
si smarrirono, e Garibaldi, obbligato all'alba di partire per non destar sospetto, dovette poi approdare a Talamone, ove, com'è noto, si fece consegnar le armi dal comandante della fortezza.
Il Bertani, organizzatore della spedizione, volendo rimediare al contrattempo, "in fretta e in
Furia” com'egli scrive nella sua relazione, con i pochi denari avanzati e con il concorso del Lafarina, noleggiò il vaporetto Utile alla casa Queirolo, vi caricò non so se due o tremila fucili e un milione di cartucce; vi mise su per scorta una squadra di volontari scelti dal Medici e dal
Lafarina, e non appena il convoglio fu lesto, il 25 maggio, lo fece partire munito di patente netta per Atene, a fine di sviare i sospetti del governo.
Le ragioni poi, per cui tanto il Bertani che Medici non avevano voluto svelarmi la partenza dell'Utile, e m'avevano anzi lasciato andare in Lombardia, sono facili a indovinare. Oltre al riserbo, che loro s'imponeva in massima, e alla necessità di mantenere il segreto con le autorità piemontesi, le quali non potevano non opporsi ad un aperto tentativo contro il reame di Napoli, essi avevano dovuto tener conto da un lato della piccolezza del vapore, che limitava la scorta, e dall'altro del bisogno di ufficiali sperimentati per il secondo grosso invio di volontari. La cieca fortuna, portandomi al molo, mandò a monte quei loro propositi al riguardo mio.
Quando l'Origoni arrivò a Genova la sera, trovò all'albergo la mia valigia, ma di me nessuna traccia, perché l'imbarco inatteso e precipitato non mi consentì di fargli tenere una riga o una parola. Il Medici, al quale l'Origoni chiese di me, lo mandò al Bertani, che ne sapeva ancora meno. Suppose la verità, e la scrisse a mio padre: "Tuo figlio è partito ieri mezz'ora prima che io
arrivassi.... Mi spiace questo contrattempo, poichè Medici aveva tutt'altre intenzioni a suo riguardo, e credo volesse tenerselo vicino...”. Ma di me non si ebbe notizia sicura fino a quando non furono ricapitate le mie lettere da Cagliari.
Un solo rimorso, un acerbo rimorso mi pungeva, mentre salivo a bordo dell'Utile, quello di mancare alla promessa data al giovane amico Francesco Lanza, di Palermo, secondogenito del principe di Scalea. Accorso in Piemonte nel 59 per la guerra contro l’Austria, il Lanza portava anch'egli le spalline di sottotenente dei granatieri, quando Garibaldi sbarcò nella sua isola natia; e punto non esitando dinanzi al suo dovere di siciliano, anch'egli aveva date le dimissioni, e fidente aspettava a Firenze, ov'era andato a salutare la madre, un mio cenno per raggiungermi e partire con me. Ero, in quell'istante, desolato di abbandonano; ma sfido a far diversamente! Il Lanza s'imbarcò poco dopo col Malenchini, e alla testa di una compagnia si guadagnò a Milazzo la medaglia al valore. Ora egli è senatore del regno.
Destatomi all'aurora in mezzo al mare, dopo aver dormito saporitamente sul nudo assito del ponte, mi volsi intorno per sapere un po' de' fatti miei. Incominciai dalla ispezione del legno, che non fu lunga. L’Utile, un vaporetto a ruote, adoperato fino allora all'ufficio di rimorchiatore nel porto, stazzava sessantanove tonnellate. Immerso fino ai tamburi per il grave carico delle armi e delle munizioni, navigava pesantemente, filando in media quattro sole miglia per ora. Guai se il tempo si fosse volto alla burrasca! Ispiravano però piena confidenza così la ciurma, composta
dì svelti marinai genovesi, come il capitano Francesco Lavarello di Livorno, un pezzo d'uomo, con un viso bruciato dal sole, con certi occhi fieri e sicuri, ombreggiati da folte sopracciglia da vero lupo di mare.
Non riescii così facilmente ad orizzontarmi in mezzo ai volontari, la maggior parte estranei fra loro. Eravamo sessantanove: i più, siciliani, di Palermo e di Trapani, parecchi genovesi, due ungheresi, un polacco; il rimanente d'ogni regione d'Italia: con gradita sorpresa trovai un
conterraneo, Somaini di Viggiù. Passato il mal di mare, a poco a poco finimmo per conoscerci e stare allegri; la varietà dei dialetti, l'italiano barocco dei bravi ungheresi, che la vena umoristica e prettamente meneghina di un giovane milanese sfruttava, servivano di pretesto inesauribile ai frizzi. La sera poi, a prua, cantavamo in coro le canzoni paesane.
Si presentò come capo della spedizione, mostrando le lettere del Medici e del Lafarina, Carmelo Agnetta, un siciliano bruno, vivace, intelligente, che dopo aver subito la prigione in seguito ai moti del 48, era emigrato in Oriente, poi a Parigi, donde ora veniva. Riconobbero tutti
la sua autorità, tranne uno, Enrico Faldella di Trapani, ex-ufficiale, credo, della marina britannica, il quale dichiarò di voler essere indipendente. Contrariamente all'Agnetta, il Faldella era biondo, e aveva il portamento e i modi di un inglese.
Intorno a quei due e al Vassallo, anch'egli siciliano, a poco per volta si raccolsero i più colti, e si formò a poppa un crocchio simpaticissimo. Il Faldella magnificava l'Inghilterra e non ammirava che gl'inglesi; l'Agnetta i francesi: la discussione si animava, e le ore passavano piacevolmente.
Si costeggiò con buon tempo la Corsica verdeggiante. Alle bocche di Bonifacio il vento rinfrescò, e non senza pericolo, mancando noi di pilota, si poggiò all'isola della Maddalena per approvigionarci di carbone, avendo l'Utile la
stiva ingombra di casse, e non tenendo posto che per il combustibile di due giorni.
Gl'isolani, che ci guardavano in gruppi su la spiaggia perché giorno di domenica (27 maggio), saputo che andavamo a raggiungere Garibaldi, ci festeggiarono cordialmente. Ma le autorità locali, insospettite, opposero molte difficoltà allo sbarco e all'approvigionamento, e solo in seguito a uno scambio di telegrammi col ministero si ottenne quanto occorreva. Passammo dei brutti momenti appena arrivati, mentre vedevamo Agnetta sbracciarsi a discutere su la calata con gli ufficiali del porto, per timore di non poter proseguire il cammino.
La condotta ostile dei rappresentanti del governo, la proibizione per parte dell'Agnetta d'impostar lettere, a fine, ei diceva, di dare a conoscere il meno possibile la rotta dell'Utile, la mancanza assoluta di notizie di Garibaldi, la constatata deficienza di qualità nautiche del nostro legno, formavano un assieme di circostanze, che
non potevano non colpire le nostre menti. E infatti uno dei nostri fu colto dal panico, e al levar dell'ancora si fece calare a terra per ritornarsene a Genova. Ma ad onore della spedizione, il suo esempio non fu imitato, ed egli stesso, più tardi, mosse per la Sicilia, ove al fuoco cancellò il ricordo di quell'ora di debolezza.
Guidati da un pilota del luogo, riprendemmo la rotta lungo le aspre e nude coste della Sardegna, e la mattina del 29, costretti di nuovo a rifornirci di carbone, gettammo l'ancora nella rada di Cagliari, incerti sempre dell'accoglienza, che avremmo trovato presso le autorità, e inquieti per la presenza poco gradita di una nave da guerra sarda, l'Authion, comandata dal tenente di vascello Piola Caselli.
Tolto rapido consiglio, l'Agnetta scese nella lancia e si recò diritto a bordo dell'Authion, mentre noi ci rannicchiavamo sotto i parapetti per non tradire la vera destinazione del nostro legno.
L'Agnetta doveva tastare prudentemente il terreno, senza scoprirsi; e qualora il comandante regio avesse dimostrato intenzioni ostili, ciò che temevamo, se le notizie di Garibaldi non fossero buone, il Lavarello aveva stabilito di far credere senz'altro, che il suo non fosse che un pacifico vapore mercantile diretto ad Atene, come dichiarava la patente.
Per buona sorte, l'ansia durò poco. Dopo breve colloquio, l'Agnetta tornava nella lancia, spinta a tutta lena, e ci gridava, agitando il fez che portava sempre: "Garibaldi è entrato in Palermo!” E noi a levarci in piedi, e a sporgerci dai parapetti, prorompendo in un'acclamazione
entusiastica, sebbene la notizia deludesse le migliori speranze nostre....
L’Authion arrivava appunto da Palermo per trasmettere al governo l'avviso, che Garibaldi, entrato nella capitale della Sicilia la mattina del 27, vi si batteva e vi si manteneva.
Mentre poi si ammucchiava su l'Utile tutto il carbone che si poteva far stare, ingombrando persino il ponte, e noi passeggiavamo per Cagliari, aspettando con febbrile impazienza l'ora della partenza, l’Agnetta si abboccava di nuovo con il comandante Piola, il quale cortesemente gli
communicava altri ragguagli preziosi. Lo avvertì che la flotta napoletana occupava il porto di Palermo, e quindi non dovevamo lusingarci di penetrare colà; che la crociera durava attivissima lungo le coste per impedire i soccorsi, e
quindi era uopo usare le maggiori precauzioni nel tentar l'approdo.
Dovendo poi l'Authion tornare subito a Palermo, il Piola assunse l'incarico di ricapitare a Garibaldi una lettera, in cui lo si avvertiva di noi, e lo si pregava di mandarci incontro, nelle acque di Ustica, un battello con la indicazione del posto, ove desiderava che noi sbarcassimo.
Finalmente, dato assetto alle cose nostre, il 30 maggio, innanzi giorno, levammo l'àncora per l'ultima rotta della nostra spedizione. Filavamo diritti su la Sicilia.
Il giorno dopo, cercato invano il battello aspettato, accostammo alcune barche di pescatori, dai quali sapemmo, che anche a Trapani, ove forse avremmo voluto far punta, era una forte guarnigione borbonica. Allora Agnetta e Lavarello
decisero di volgere la prua a Marsala, nella fiducia di trovare una sorveglianza meno attiva, però che i napoletani, era a credere, non sospettassero colà una seconda edizione dello sbarco: e, in attesa della notte, fermarono la macchina, e diedero mano ai preparativi per l'approdo.
I volontari vennero divisi in quattro squadre, di una delle quali io fui il capo. Poi si frugò in cerca delle uniformi, che speravamo fossero camice rosse. Invece il Bertani aveva imbarcato una balla di camiciotti azzurri di cotone della guardia nazionale coi rispettivi berretti....
La cassa delle armi, destinate a noi della scorta, ci preparava una disillusione anche più amara. Invece delle carabine e delle rivoltelle, di cui si era parlato, scoprimmo vecchi fucili, anch'essi della guardia nazionale di buona memoria. Si bestemmiò, lì per lì; poi, celiando, infilammo su gli abiti la pacifica divisa azzurra, e scegliemmo le armi meno impossibili.
Era già buio. Il Lavarello, prima di dare le ultime disposizioni marinaresche, raccoltici a poppa, ci volle arringare: "Attenti, e disse, figliuoli! Badate, che se incontriamo una nave napoletana, io le filo sopra, diritto; voialtri state pronti per saltare all'arrembaggio”. Un discorso, se si vuole, troppo breve, ma efficacissimo, che fu salutato da un urrà frenetico, e che ci mise tutti i diavoli in corpo. Ve lo figurate però l'Utile, che investe una fregata napoletana? Eppure il bravo Lavarello era in piena buona fede, e senza esitare avrebbe certamente tentata la prova. Non meritava quell'uomo ardito la sorte che gli toccò, quella cioè di morire miseramente all'ospedale, il 1886, dopo avere speso sè stesso e la sua fortuna in pro' della patria!
Spenti a bordo i lumi, spiando il mare coi fucili alla mano, guidati da un pilota del luogo, certo Sesti, avanziamo con la macchina a tutta forza. Siamo in vista di Marsala. I nostri trapanesi con la scialuppa, vogano innanzi in ricognizione, e ritornano avvisandoci che la piazza è
sgombra. Entriamo nel porto e vi affondiamo l'àncora, e alle tre e mezzo del mattino del primo giugno io scrivo con la matita a mia madre, affidando il messaggio al macchinista dell'Utile: "sbarco finalmente in Sicilia!”
Solo a giorno chiaro appare una nave da guerra borbonica, la quale, mandata una lancia alla bocca del porto, si ritirò di lì a poco senza far mostra
di sorta.
Sbrigata lestamente dai facchini e dai marinai, che vi si adoperarono con zelo, l'operazione dello scarico del materiale, e assicuratane la custodia, seguimmo finalmente i cittadini, accorsi sul molo all'annunzio del nostro arrivo, impazienti com'erano di ospitarci nelle loro case, già imbandierate coi colori d'Inghilterra, sotto il cui protettorato la prudenza aveva loro consigliato di porre
i beni e le persone.
Avendo essi fatto un'accoglienza timida ai Mille, scesi laggiù improvvisamente fra le cannonate del naviglio borbonico, ora, punti dal rimorso, riversavano su noi l'entusiasmo della vigilia, raccomandandoci in tutti i modi di testimoniare presso Garibaldi e i commilitoni del
loro buon volere e della loro devozione alla causa nazionale; ciò, del resto, di cui nessuno aveva mai dubitato.
Anche gl'inglesi degli stabilimenti vinicoli misero da banda le formalità e ci dimostrarono la loro simpatia con quei modi schietti ed aperti, che sanno adoperare quando vogliono.
Io fui accolto da una famiglia, le cui bellissime figliuole mi colmarono a gara di delicate attenzioni, e la vecchia, al momento della partenza, m'impartì la benedizione e mi donò una grande immagine della Madonna, che sgraziatamente sciupai dopo la prima tappa.
L'Agnetta profittò della buona disposizione generale, per procurarsi le vetture necessarie al trasporto del nostro materiale. Caricammo armi e munizioni sopra una sessantina di quegli strani carretti a due ruote, istoriati, con vivaci colori d'ogni sorta, di soggetti biblici e romanzeschi, tirati da un cavallo coperto di bardature sfarzose: e il due giugno c'incamminammo alla volta di Palermo, non senza il dubbio che la guarnigione di Trapani tentasse un colpo di mano sul nostro convoglio. Questa, già s'intende, non si
Mosse.
Il nostro drappello, oltre i conduttori, si componeva di una sessantina d'individui, vestiti e armati come già ho detto, insieme con alcuni giovani di Marsala e pochi disertori svizzeri e bavaresi dell'esercito napoletano, che avevano sostituito il Faldella e quei di Trapani, rimasti indietro col proposito di sollevare la loro città nativa contro le truppe che l'occupavano.
L'Utile se ne tornò subito a Genova; e là, pochi giorni dopo, imbarcò, unitamente al vapore Charles Georgy, la spedizione comandata da Clemente Corte. Durante il viaggio, il Charles Georgy ebbe avaria in macchina e l'Utile dovette dargli rimorchio; e mentre i due legni navigavano in
tali condizioni, vennero nelle acque libere del
Mediterraneo catturati dai bastimenti napoletani e condotti a Gaeta, senza che il povero Lavarello, reso impotente ad agire dal compagno legato a poppa, potesse neppure in questa circostanza tentare il vagheggiato abbordaggio.
L'Utile poi, dopo il glorioso intermezzo del 60, riprese il suo modesto ufficio, ed oggi ancora rimorchia le "bette” su le coste di Manfredonia e di Brindisi. Ma oggi è proprio agli estremi: e il signor Queirolo oramai pensa di ridurlo a pontone, perché la macchina non è più in grado
di agire. Prima che sia distrutto, si abbia il memore saluto dell'antico suo ospite!
Il lungo nostro convoglio procedeva con la maggiore celerità possibile, secondo l'itinerario prescritto da Garibaldi nei suoi dispacci. Si viaggiava la sera, parte della notte e il mattino: solo nelle ore più calde ci si concedeva riposo. La novità del paesaggio e dei costumi, che tutto eccitava la nostra curiosità in quella classica terra di Sicilia, ci acquetavano l'ansia affannosa di raggiungere al più presto il nostro duce. Le montagne brulle, gli sterminati campi di frumento, i boschi di ulivi e di mandorli, i vigneti verdeggianti, in mezzo a cui passa la strada bianca, fiancheggiata da giganteschi fichi d'india
e da agave fiorite: la solitudine di quelle regioni, senza un casolare, senza una capanna; e a grandi distanze le borgate brune, aggruppate al sommo dei colli, con un'aria, con nomi, che richiamano tradizioni fenice, greche, cartaginesi, normanne, saracene, spagnuole.... Che paese, e che memorie!
Gli abitatori, dalla tinta olivastra, dagli occhi
neri e lucenti, montati su briosi e magri cavallini della Barberia, con la lunga "scoppetta” attraverso la sella, ci venivano d'attorno e ci davano festosi il benvenuto.
A Vita trovammo alcuni feriti di Calatafimi, ai quali fu di grande conforto l'apparizione improvvisa e inattesa dei compaesani, ancora avviluppati dal soffio dell'aura nativa. Più in là visitammo con sacro raccoglimento quel campo, ove si decisero le sorti dell'isola. Le nostre guide,
garibaldini feriti in quella giornata, ci mostravano a uno a uno i luoghi ne' quali erano caduti essi stessi, quelli ne' quali avevano veduto cadere l'amico, e dove il mio conterraneo Martignoni aveva avuto le reni fracassate da una
palla; la leggenda era ancora di là da venire, e però nè io chiesi nè altri m'indicò il posto in cui Bixio e Garibaldi si scambiarono le parole memorabili, o l'altro, in cui stramazzò, con la bandiera in alto, lo Schiaffino. Sebbene la battaglia fosse avvenuta soltanto quindici giorni prima nessuna traccia ne rimaneva per tutto il terreno all'intorno.
Invece, tracce recenti della guerra civile, efferata e selvaggia, s'incontravano in alcune borgate da noi attraversate. A Partinico, per esempio, si vedevano ancora le case saccheggiate ed arse, i campi calpestati, e qua e là gli avanzi carbonizzati de' roghi, su' quali, al dire de' paesani, i borbonici avevano bruciato i cadaveri non ancora freddi de' liberali, mentre, come i borbonici asserirono più tardi, fu proprio il contrario. Probabilmente, vere l'una e l'altra versione.
Per quanto ci affrettassimo, fu impossibile raggiungere Monreale prima del 5. Qui, disposto il materiale su la piazza, in faccia a quel miracolo d'arte arabo-normanna che è la cattedrale, aspettammo gli ordini di Garibaldi, secondo un suo dispaccio antecedente.
Garibaldi, entrato in Palermo all'alba del 27 maggio, si era battuto lungamente per le vie della città, e il 31 aveva conchiuso col generale Letizia una tregua di settantadue ore, che prorogata prima, venne mutata in capitolazione definitiva il 5 giugno, appunto al nostro arrivo in Monreale. Quel giorno stesso egli c'inviò un
ordine di raggiungerlo subito, poi un contrordine. Finalmente il 6, alle due pomeridiane, anche noi entrammo in Palermo, e consegnato in perfetto stato il carico affidatoci al commissario del comando generale, sfilammo, sempre con la modesta nostra divisa di guardia nazionale, nella piazza del municipio, salutati con effusione dai Mille, che ci assediavano di domande, ansiosi sopratutto di sapere ciò che si dicesse di loro sul continente. E noi li contentavamo, guardandoli con ammirazione e con rispetto, lieti di essere
noi i primi a recar loro notizie del paese. Essi accoglievano le nostre dimostrazioni come un omaggio loro dovuto, nè, in verità, si può dire che brillassero per troppa modestia; ma credo che nessun italiano abbia mai avuta tanta ragione, com'essi avevano, di sentire altamente di se. Non eran essi partiti da Quarto per l'ignoto?
Ci si condusse nella chiesa di san Giuseppe dei Teatini, sui Quattro Canti, aperta la volta da una bomba, e già occupata dai garibaldini. Schierati nella navata sinistra, attendevamo già la visita di Garibaldi, impazienti di vederlo e di udirlo: l'Agnetta era già pronto a presentargli il suo piccolo drappello, quando entrarono due
ufficiali in giubba di tela. Quegli che aveva l'aria di maggior grado, venne difilato a noi, e domandò: "Chi comanda qui?” L'Agnetta, si fece innanzi, e l'altro, senza aspettar risposta: "Vada coi suoi uomini ad accompagnare ai funerali la salma del colonnello Tukory”. L'Agnetta, ritto sul guard'a voi, chiede: "Ma scusi, chi è lei?” "Io sono Bixio", grida e gli lascia cadere in viso un manrovescìo....
Ne nasce un parapiglia infernale. L'Agnetta mette mano alla sciabola. e i nostri si vogliono scagliar sul Bixio per vendicare il loro comandante. Giuseppe Dezza, il compagno di Bixio, ed altri ci si buttano di mezzo per trattenere i contendenti. A gran fatica le cose si acquetano. L'Agnetta voleva aver subito, e con ragione, una soddisfazione per le armi. Ma Garibaldi, a più buon diritto, proibì il duello: i tempi non permettevano a lui di dare a un Bixio il lusso di giuocarsi la vita. L'Agnetta dovette rassegnarsi e mordere il freno; dopo ventidue mesi egli cancellò l'ingiuria, piantando una palla nella mano dell'avversario, e storpiandogliela per sempre. Di simili scatti di Nino Bixio se ne contano molti. Ma le sue alte doti di cuore e di mente li compensavano ad usura, così che pochi generali furono come lui amati dai loro soldati. Io però non ebbi mai occasione di avvicinarlo, e non posso esprimere alcun giudizio personale intorno a quella grande figura del nostro risorgimento.
Con la .consegna del convoglio e di una lettera segreta pel dittatore, affidatagli dal Medici con raccomandazioni severissime, ebbe fine la missione speciale dell'Agnetta. E la guardia d'onore al feretro del Tukory, durante l'imponente funerale, cui presero parte volontari e popolo, fu l'ultimo atto compiuto dalla sua spedizione, la quale, pel modo con cui fu condotta, e per avere la prima raggiunti i Mille, merita di non essere del tutto dimenticata. Mentre pertanto noi ci disseminavamo fra i ranghi dei nostri precursori, l'Agnetta entrava nel commissariato, ove prestò
non pochi servigi; a campagna finita, ebbe poi dal governo il posto di prefetto, che occupò nella provincia di Massa dal 1870 sino alla sua morte, avvenuta il 4 aprile del 1889.
È debito di giustizia ricordare anche altri pochi, che per la via di Malta giunsero a Palermo, dall'Alta Italia, pur essi in quei giorni, vincendo ogni ostacolo con singolare pertinacia. Antonio Frigerio e Luigi Perelli, milanesi, s'imbarcarono a Genova il 18 maggio, ed io, ancora in uniforme dei granatieri, li salutai al loro passaggio per
Livorno, augurandomi d'incontrarli presto in Sicilia, come di fatto avvenne. A Malta, insieme con alcuni romagnoli, noleggiato non senza difficoltà un vecchio schooner, dopo fortunosa traversata a vela presero terra a Palma, trionfalmente accolti ed accompagnati a Girgenti, ove grandi feste li attendevano. Di là in carrozza raggiunsero Palermo senza molestie.
Anche questi, come gli altri pochissimi capitati dopo alla spicciolata, furono ricevuti a braccia aperte e subito adoperati in quei momenti di suprema urgenza; perchè la capitolazione, liberando Garibaldi e i suoi dai pericoli e dalle fatiche immediate, li aveva posti di fronte a nuovi doveri, pure imperiosi, e non meno gravi di pericoli e di fatiche.
Occorreva ristabilire innanzi tutto l'ordine e la calma nella città. Ora, alla conclusione della capitolazione, in fatto di ufficiali e di bassi ufficiali più o meno pratici di servizio, e in grado di comandare, non si poteva contare che su la parte ancora valida della falange dei Mille, giustamente bisognosi di riposo, sui pochi sopraggiunti, e sui siciliani più eletti, in tutto alcune centinaia. In fatto di soldati, su qualche migliaio
di picciotti, terrazzani, che avevano marciato al seguito dei Mille nelle squadre, o popolani di Palermo: brava gente, animata di sincero entusiasmo e piena di fiducia nei capi, ma assolutamente priva di ogni concetto di milizia.
Con tali elementi convenne allestire un servizio di piazza in città, e un servizio di guardia ai Quattro Venti, ove le truppe borboniche, raccolte nelle caserme ed accampate su la spianata, aspettavano d'imbarcarsi per sgombrare l'isola, ad eccezione delle fortezze di Trapani, Milazzo, Messina e Siracusa. Nel centro non si presentavano difficoltà serie, perciò si aveva a trattare soltanto coi cittadini; ma fuori, di fronte alle sentinelle napoletane, era necessità stendere non senza una certa forma militare, altrettante sentinelle nostre.
Io venni subito destinato colà, e al primo affacciarmi agli avamposti, confesso, provai un tal quale senso di sgomento. Non sapevo capacitarmi che il corpo d'esercito avversario, che m'era d'innanzi, resistesse alla tentazione di schiacciarci d'un colpo solo. Ci volle l'indifferenza
dei commilitoni, già sicuri del fatto loro, e il ricordo di Calatafimi e di Palermo per convincermi della realità delle cose. In faccia a noi si stendeva una linea di fazioni inappuntabili, tutte in uniforme, con buone armi, regolarmente esercitate; dalla parte nostra, una scarsa fila
di straccioni, con le "scoppette” e gli archibugi dell'Utile. Dietro quelle, ventimila uomini perfettamente equipaggiati; dietro noi, una massa incomposta e quasi inerme. Eppure, di là i vinti, di qua i vincitori! Pareva di sognare. Però, passata la prima impressione, la vista di quei soldati dimessi e paurosi, in mezzo a tanta abbondanza di attrezzi da guerra, produceva nell'animo un disgusto doloroso, e io fui contentissimo, quando mi si tolse a uno spettacolo così umiliante per la natura umana.
I picciotti, che non avevano, come me, ragione di compatimento per quelle vittime della demoralizzazione borbonica, serbavano verso di loro un contegno provocante, che ci dava assai da fare. Invece di mantenere la consegna, quella cioè di evitare collisioni fra le truppe capitolate
e la popolazione, ben sovente incominciavano essi pei primi ad inveire a parole contro le sentinelle nemiche, e se non erano subito frenati, passavano dalle parole ai fatti, specialmente quando avevano di fronte, non i bavaresi o gli
svizzeri, ma i napoletani, verso i quali nutrivano un odio speciale.
Di notte, per darsi coraggio, ogni quarto d'ora urlavano: "sentinelle all'erta", e il coro ripeteva: “allerta sto”; senza ragione, alle volte, sparavano e gridavano all'armi, spiegando poi la chiamata con parole difficili a capirsi per la novità del dialetto, intramezzate dall'interiezione indigena del "santo diavolone!”
In città la natura del servizio mi consentiva un po' più di svago, e mi dava agio di mescolarmi a quella strana, unica, indimenticabile fantasmagoria, che Palermo offriva in quei giorni. Gli abitanti, dopo il grande spavento e la lunga reclusione in fondo ai sotterranei, erano sbucati da ogni parte, e respiravano forte, a pieni polmoni, ed esprimevano la loro contentezza con la solita esuberanza meridionale: frase stereotipata, che si persiste ad usare, sebbene io abbia veduto i popoli del settentrione manifestare negli stessi modi, rumorosi ed appassionati, le sensazioni profonde e vivaci.
Nobili sfarzosi e laceri plebei, monache e frati di ogni colore, divise militari di ogni foggia, circolavano dappertutto e rendevano allegre e pittoresche perfino le macerie che ingombravano la città intera, sconquassata dal bombardamento. Numerose barricate, veri baluardi di pietre, interrompevano ad ogni passo il cammino, principalmente per le vie Toledo e Maqueda. In mezzo a Toledo pendeva ancora un enorme velario, messo colà durante la lotta per impedire
lo scambio dei segnali fra le navi e le truppe trincerate nel palazzo reale. Il percorso dalla Marina a porta Nuova s'intraprendeva come un viaggio di avventure. La folla impaziente, girando le barricate massicce, si era aperto un varco attraverso le circostanti case diroccate, e qua infilava i corridoi di un monastero, là i ricchi appartamenti di un palazzo, altrove un seguito di luridi bugigattoli. E la moltitudine incalzava, gridando e gesticolando, e innumerevoli poverelli assediavano con l'eterna canzone: "moion di fame", dimenando l'indice e fissando il pollice sotto il mento. Per liberarcene, bestemmiavamo come turchi, ciò che li scandolezzava e li
metteva in fuga.
Non mancavano le scene teatrali: le funzioni solenni, il battaglione degli adolescenti con la camicia rossa e le alabarde, ed altre rappresentazioni come in Lombardia nel 1848. Non mancavano le tragedie, come la caccia agli sbirri dell'antica polizia, soprannominati sorci, che venivano scovati nei nascondigli, e, quando per loro fortuna si arrivava in tempo a strapparli dalle mani di quei furibondi, trascinati a furia in prigione fra le imprecazioni generali.
La massa non aveva una idea chiara dello scopo nazionale della rivoluzione. In mente sua, Vittorio Emanuele, il Piemonte, l'Italia rappresentavano il principio del bene, il Borbone, Napoli, la polizia il principio del male. A tanta confusione suppliva esuberantemente l'entusiasmo per Giuseppe Garibaldi, la cui figura si levava
purissima e sublime su tutti, arbitra di ogni cuore,
venerata come quella di un profeta, sacra come un discendente di Santa Rosalia, la patrona celeste dell'isola
Financo i preti ardevano incensi a Garibaldi. E, del resto, dai preti udii forse i discorsi più assennati intorno al movimento italiano; non ultima, questa, fra le strane antitesi di quella terra, ove s'incontravano l'ignoranza e la sudiceria accanto alla coltura e al fasto quasi regale, la burbanza alla cortesia più squisita, la crudeltà alla grandezza d'animo, la bigotteria alle aspirazioni più libere e generose.
A compagno e a guida nelle escursioni di quei giorni io m'ebbi il fido condiscepolo di Pavia, Giuseppe Rebuschini, cacciatore delle Alpi nel 1859, allora della settima compagnia dei Mille. Accorso tra i primi incontro a quei dell'Utile, egli mi pigliò seco, mi mostrò i luoghi più famosi pei fatti d'arme recenti, mi menò alla conquista di un piatto di maccheroni in una locanda, da lui scoperta in fondo a un andirivieni di vicoli, e infine mi condusse a dormire sui morbidi divani del Casino Gerace anch'esso malmenato dalle bombe. Fummo, in quei giorni, inseparabili. Ci separò soltanto la diversità delle destinazioni.
L'ansia più penosa di quel tempo proveniva dalla mancanza quasi completa di notizie generali. I giornali di Palermo non ne avevano, paghi degli argomenti cittadini; i giornali del continente non arrivavano, perché mancavano ancora le comunicazioni regolari. La curiosità ci divorava, e ci spingeva a lavorar d’immaginazione. Se poi, per via degli ufficiali delle navi da guerra o mercantili di tutte le nazioni, che capitavano in porto, veniva una qualunque novella, questa, in un ambiente così propizio, cresceva
gigantesca e si spargeva immantinenti per la città. Ora si narrava che Vittorio Emanuele mandasse un rinforzo di truppe e di bastimenti, e Garibaldi salpasse alla volta di Napoli; ora invece, che i napoletani, rianimati dalla cattura di una spedizione di soccorso, ritornassero alla riscossa; ora che intervenissero le potenze europee coalizzate, ora solamente Napoleone III: e tanto più grosse si sballavano, tanto più trovavano facile credenza.
Un giorno, con l'amico Rebuschini, dopo aver fatto il solito bagno nel mare, anche per liberarci dalle pulci che ci assalivano dappertutto, andammo a bordo della fregata Maria Adelaide, ov'era un mio cugino, Filippo Cobianchi, allora guardia marina, per cavare una qualche informazione sicura. L'accoglienza fu sì affettuosissima, ma ci tornò facile intendere, che le nostre camice rosse sconcertavano quegli ufficiali, e però non ci arrischiammo neppure a chiedere il permesso di sfogliare i giornali, che guardavamo
sott'occhio con tanto desiderio, e ce ne tornammo senza aver appreso nulla. Ancora oggi il capitano di vascello, che tutti conoscono per il bravo comandante del Ruggero di Lauria, non ha dimenticata l'impressione fatta dalle nostre camice rosse sul giovinetto luogotenente della Maria Adelaide.
Ci recavamo sovente da Benedetto Cairoli, il quale, circondato dall'affetto universale, giaceva disteso in una stanzetta a curare la tibia fracassata, certi che la nostra visita gli sarebbe sempre riescita cara. Cairoli, appena colpito, era stato trasportato all'ospedale di Sant'Anna, ove, mentre gli si facevano intorno medici e infermieri, una bomba cadde fra il suo e il letto accanto, in cui languiva il colonnello ungherese Tukory, tanto rimpianto. Lo sconquasso pose in fuga il personale dello stabilimento, e i due valorosi uomini rimasero del tutto alcune ore abbandonati, finché, avutane notizia, Garibaldi ordinò venissero condotti al Palazzo reale. Se non che, durante il tragitto, un patriota, che accompagnava la barella di Cairoli, si cacciò in testa, certo a buon fine, di menarlo in casa sua; e nonostante le proteste in contrari del povero
Benedetto, egli obbligò i portatori a entrare nell'angusta scala di un quartierino, aspettò che si allargasse col piccone l'uscio di casa, e soddisfattissimo del fatto suo, adagiò il ferito nel proprio lettuccio. Eppure il nobil uomo, assuefatto agli agi, non perdeva, in mezzo alle sofferenze, la nativa serenità dell'animo, e, dimenticandole, c'intratteneva piacevolmente delle condizioni e delle speranze del paese.
Mi presentai anche a Garibaldi, che mi accolse con la usata affabilità sua, quantunque sopraffatto dal lavoro veramente immane, che la grandezza del compito gl'imponeva; ma nulla di notevole potrei raccontare di quel colloquio.
Intanto si procedeva a gran passo. Mentre i ministri si occupavano dell'assetto politico ed amministrativo, i fidi compagni del dittatore, sotto la direzione del Sirtori e del Turr, preparavano con meravigliosa sollecitudine gli armamenti necessari alla continuazione della guerra. Il giorno 8 di giugno veniva creata una divisione, che seguendo la numerazione piemontese, fu detta la 15a dei Cacciatori delle Alpi in origine, poi dell'Esercito Meridionale, formata di due brigate, di quattro battaglioni ciascuna. Turr ebbe li comando della divisione, e provvisoriamente assunse quello della seconda brigata; Bixio prese il comando della prima. Con i superstiti dei Mille, i pochi continentali sopraggiunti e i migliori delle squadriglie
siciliane, si costituirono i quadri di tre battaglioni per brigata, destinati ad essere riempiti con i pochi picciotti già armati, e con quei volontari e quei coscritti, che si sarebbero man mano raccolti. Io venni assegnato, col grado di luogotenente, alla seconda brigata, 3° battaglione (maggiore Bassini), 3a compagnia (capitano Rovighi), e quel
giorno finalmente indossai la camicia rossa.
Però, siccome la burocrazia deve farne sempre delle sue, così anche laggiù essa prescrisse per gli ufficiali una casacca e un berretto, rossi bensì, ma di panno lucido, con listoni e mostre verdi filettate di bianco: un orrore. Ma, in verità, molti fecero il comodo loro, e nessuno ci badò più che tanto. I soldati ebbero la camicia e il berretto rosso listato di verde, una coperta di lana e un tascapane, e vennero armati coi famosi fucili dell'Utile.
Il lavoro di organizzazione continuava intenso, ma presto bisognò convenire, che la baraonda di Palermo non lo favoriva gran fatto. Gli ufficiali volevano ristorarsi dei disagi patiti, e la scialavano; i picciotti, nella confusione che regnava, si dileguavano. Occorreva un provvedimento pronto e radicale, che venne preso senza indugio. Ogni brigata ebbe ordine di partire per la sua destinazione: la brigata Bixio per la costa meridionale dell'isola, la brigata Turr per il centro. Nel frattempo, il 19 giugno, sbarcava a Partinico la brigata Medici in pieno assetto di guerra, seguita a breve andare dalla brigata Cosenz e dal reggimento Malenchini; e questi corpi venivano trattenuti a disposizione del dittatore, che pensava di avviarsi lungo la costa settentrionale per fronteggiare i borbonici ancora padroni di Milazzo. Punto estremo, cui dovevano convergere le tre colonne, Messina.
Il 20 giugno la brigata Turr, passata in rivista da Garibaldi, forte di poco più che cinquecento uomini, s'incamminò per l'interno, con vera soddisfazione di coloro che amavano compiere coscienziosamente il loro dovere. Alla prima tappa però, a Misilmeri, ci arrestammo due giorni ancora, per aspettare coloro che si erano attardati a libare l'ultimo sorso delle delizie di Palermo, e per ordinare il lungo treno di armi e di equipaggi destinati alle reclute future.
Anch'io, invero, tornai la sera alla capitale, attratto dal vivo desiderio di vedere i nuovi arrivati della spedizione Medici, che doveva appunto nel pomeriggio di quella giornata entrare in Palermo. Strinsi la mano a Francesco Simonetta, a molti amici e a molti conoscenti; dal
capitano Alessandro Cattaneo e dal tenente Pietro De Bernardi, che comandavano una compagnia di comaschi e di varesini, ebbi finalmente notizie e lettere della famiglia. L'indomani, per tempo, raggiunsi il mio corpo, alquanto offeso, non lo nascondo, nel mio amor proprio di granatiere, dal paragone fra l'ordine delle truppe di Medici e il disordine dei miei soldati.
Lo sconforto però ebbe breve durata, perchè,
contrariamente ai miei pronostici, la compagine, lo spirito, l'aspetto della brigata rapidamente migliorarono: si rese possibile l'applicazione dei regolamenti; si attese con diligenza all'istruzione; il congegno della gerarchia funzionò fra gli ufficiali; la disciplina si assodò nella truppa. E io che mezzo spaventato avevo perfino chiesto al
Simonetta di pigliarmi con sè, tanto invece mi appassionai della mia brigata e m'immedesimai con essa, che non volli più staccarmene neppure quando mi s'invitò ufficialmente a passare in quella di Medici.
L'applicazione della legge su la leva degli uomini atti alla milizia, dai diciassette ai trent'anni, per cui si sarebbero dovuti riempire i nostri quadri, diede un risultato assolutamente negativo, perché il sospettoso dispotismo dei Borboni, esentando i siciliani dalla coscrizione, e tenendoli lontani dalle armi, aveva fomentato in essi un'avversione insuperabile per il servizio obbligatorio; avversione che noi, incalzati dalla fretta,
non avevamo nè il tempo nè i mezzi di vincere, e contro cui lottarono invano e la fermezza del generale Turr, e l'eloquenza di padre Pantaleo, il quale aveva appunto seguita la nostra colonna.
Questo giovine, col quale ebbi allora dimestichezza, accorso tra i primi dal suo convento di Salemi incontro a Garibaldi, che apparve a lui apostolo di carità e di giustizia; questo frate, di cui la tonaca bruna e il crocifisso alla cintola davano alle camice rosse la nota della poesia religiosa; quest'uomo, che sinceramente convinto degli ideali umanitari e cristiani, volle continuare la missione riformatrice per l'Italia e per l'Europa anche dopo le campagne della indipendenza: padre Pantaleo, possedeva senza dubbio le migliori attitudini per conquistare i cuori dei suoi compaesani. Eppure, quando egli toccava, nelle sue prediche immaginose, il tasto scabroso della coscrizione, le corde simpatiche dell'uditorio non
vibravano più. Stizzito per l’insuccesso, egli ci abbandonò per correre a Milazzo presso il dittatore.
Rinunciammo a raccogliere i soldati che ci accordava la legge, e ci contentammo per forza dei volontari, i quali, nel percorso fra Palermo e Catania, salirono a un migliaio, appartenenti alle classi meno colte, perchè i galantuomini (così chiamansi nell'Italia meridionale i possidenti) non sapevano indurli a fare la campagna da gregari, e noi non accordavamo gradi a chi non aveva precedenti militari.
Dapprima ci costò non poca fatica dirozzare quelle reclute, di cui alcune sparivano presto, dimenticando di restituire la coperta e magari l'arma. Ma forniti com'erano di pronta percezione, e nutrendo per noi una deferenza illimitata, si formarono assai più sollecitamente e assai meglio di quanto avremmo immaginato. Sul continente poi, fuori del loro ambiente, la trasformazione si compiè come per incanto, e nessuno avrebbe più riconosciuto i cenciosi picciotti di Sicilia in quel fiore di volontari, fieri ed animosi, dei campi di Capua.
L'onore del miracolo spetta alla ufficialità, che
possedeva tutti i requisiti per cattivare le nature più ribelli, e crearne dei buoni soldati e dei saldi cittadini. La componevano per la maggior parte bergamaschi, bresciani e pavesi; in minor numero comaschi e milanesi; pochi siciliani e di altre province d'Italia. E allegria più schietta,
fortunata dote del carattere lombardo, regnava sempre nelle file, e giovava anch’essa non poco a modificare favorevolmente le tendenze dei subordinati.
I picciotti del mio battaglione si sarebbero gettati nel fuoco pel maggiore Bassini, il nostro vecchio amico di Pavia. Burbero, buono, maldicente, coraggiosissimo, con una grinta tutta sua, con una testa bernoccoluta (come dice l'Abba nelle sue impareggiabili Noterelle di uno dei mille),
con certe arie alla Bixio, uno scudiscio alla mano, su le labbra la bestemmia pavese: carogna!, egli imponeva loro un timore salutare, che si convertiva presto in devozione sincera, perché lo vedevano occuparsi indefessamente delle loro sorti con appassionato amore. Se poi volessi nominare partitamente, come meriterebbero, i commilitoni, io dovrei riportare almeno per metà la lista delle ultime quattro compagnie della prima spedizione, che costituirono i quadri della seconda brigata.
La nostra marcia nell'interno dell'isola, perché
sgombra di soldati borbonici, fu senza emozioni. Se in qualche comune esistevano dei reazionari politici o dei perturbatori dell'ordine, essi, all'annunzio del nostro arrivo, si dileguavano prudentemente, e noi trovavamo dappertutto accoglienze solenni.
Si accampava fuori delle borgate; quando si entrava, ci venivano a preferenza destinati per alloggio i conventi e le case dei preti. Le famiglie dei cittadini, quando erano costrette ad ospitarci, di solito relegavano le donne negli appartamenti più riposti, e noi non riescivamo a scorgere che quei pochi visini, che la curiosità femminile spingeva a sbirciarci. Se però la dimora si protraeva di qualche giorno, la bonarietà lombarda finiva per ammansare la gelosia siciliana, le signore comparivano, e si avviavano con esse relazioni cordiali.
Nei pubblici ritrovi i cittadini ci prodigavano mille cortesie. Non si poteva pigliar nulla al caffè ed al casino che non si trovasse pagato. E quella risposta invariabile quando si lodava qualche cosa, quell' "è vostro”, certo senza valore in sostanza, pure mostrava, almeno in apparenza, il desiderio di essere affabili.
A rompere la monotonia delle nostre tappe io ebbi la fortuna di prendere parte a due diversioni interessanti.
L'autorità municipale di Prizzi, un paese di montagna su la nostra destra, fece sapere al nostro comando, che alcuni prepotenti, alla testa di una squadriglia, commettevano ogni sorta di abusi contro le sostanze e le persone dei cittadini.
Il comando della brigata, che rappresentava anche il potere politico, ordinò al nostro battaglione di ristabilire la calma in quel paese; e a tale scopo il 26 di giugno, staccatici a Villafrati dal grosso del corpo, ci avviammo verso la montagna, accompagnati da padre Pantaleo, che a Mezzojuso, dove sostammo, pronunciò il suo ultimo sermone di propaganda.
L'indomani, dopo alcune ore di marcia nel fondo della valle, ci apparve Prizzi, grossa borgata di forse otto o nove mila abitanti, situata come una fortezza medioevale in cima al monte, accessibile soltanto per un sentiero da muli.
Fermata la colonna, Bassini chiamò a rapporto gli ufficiali per concertare il miglior modo di mandare a fine l'impresa; non sembrava facile l'arrampicarsi per quei dirupi, e l'attaccare senza artiglieria quel nido di aquile.
Ma ecco, mentre dura il consiglio, la scena muta repentinamente. Le mura e i poggi si coronano di gente, che sventola bandiere e manda grida giulive, le campane suonano a festa, una folla di cavalieri e di popolani, preceduti da allegre fanfare, si precipita giù per la china, si mescola alle nostre file, e si profonde in dichiarazioni patriottiche. Sorpresi della inaspettata accoglienza, ci abbandoniamo anche noi alla giocondità di quell'ora, e seguiamo i cittadini che fanno a gara per rubarsi gli ufficiali, perfino i soldati.
Trasecolammo di trovare lassù tanto lusso di arredi e tanta squisitezza di conforti nelle ricche abitazioni, in cui fummo colmati di cortesie. Il comandante, accompagnato trionfalmente, fu ospitato in forma addirittura principesca. A tutti indistintamente i soldati s'imbandì un lauto banchetto.
Alla sera si accesero vaghe luminarie, e nelle sontuose sale del casino sociale, con un concorso di eleganti signore, si aprì una sfarzosa festa da ballo, "dove i nostri bergamaschi (gli ufficiali del battaglione erano quasi tutti di Bergamo) fecero prodezze più nel bere che nel ballare",
come scrissi a mia madre, raccontandole la "favolosa accoglienza di quei buoni abitanti”. E veramente la strage di bottiglie, che si fece in quella notte dai miei commilitoni, dee essere rimasta famosa nei fasti di Prizzi.
Al mattino, preceduti dalle musiche, e seguiti dagli applausi generali, partimmo per Alcantara, e a Rocca Palumba raggiungemmo la brigata, proclamando, al cospetto dei commilitoni, Prizzi la perla e i suoi abitanti gli eletti della Sicilia.
Però non ho mai potuto sapere di che genere fossero cotesti disordini, e chi componesse coteste mitiche bande, che noi dovevamo disperdere. Quelli del paese, alle nostre interrogazioni, rispondevano alzando il mento e stringendo le labbra, senza aggiungere parola, lasciandoci solo intravvedere che la paura stessa, la quale aveva permesso agli audaci d'imporsi alla popolazione, ora chiudeva loro la bocca.
Le cose andarono ben diversamente in un altro paese, a Resuttano, ove il Bassini, che godeva fama di energia, venne mandato parimente a ristabilire l'ordine. Essendo corso del sangue, colà davvero bisognavano prontezza e vigore.
Alcuni caporioni, istigando la plebe di Resutto contro l'esattore comunale, sotto pretesto, che cacciati i Borboni non si dovessero pagare più imposte, avevano suscitato un tumulto, del quale profittarono per sfogare vecchi rancori: una intera famiglia di dieci persone era stata barbaramente massacrata. A noi incombeva l'obbligo. di ricercare e di arrestare gli scellerati autori della vendetta.
Bassini diresse la spedizione magistralmente. Condotti da guide interessate al nostro intervento, arrivammo a mezzanotte dinanzi a Resuttano così segretamente, che nessuno del luogo se ne accorse; e prima che qualcuno si destasse dal sonno, avevamo già completamente circondato con tre compagnie l'abitato, mentre la quarta, con a capo il comandante, entrava silenziosa nel borgo.
Rimasto fuori, finivo appena di appostare le mie sentinelle, quando uno scoppio di urli e d'imprecazioni mi avverti che l'opera di giustizia era incominciata, e conveniva stare all'erta. A un tratto, infatti, vidi gettare dall'alto delle mura, fiocamente rischiarate dalla luna, una corda, poi un uomo sporgersi, abbrancarla e calarsi giù. Era un vecchio robusto e sinistro, in abito da contadino, che i miei soldati afferrarono, senza ch'ei battesse ciglio nè pronunciasse parola, e trascinarono alla presenza di Bassini, cui i terrazzani lo indicarono come il più feroce dei sicari, colui che aveva ucciso rabbiosamente il suo
nemico, delibandone il sangue e, rotto il cranio, sbranandone le cervella. Altri dieci furono arrestati in quella notte. Il mattino, stretti in catene e sotto buona scorta, gl'imputati vennero inviati a Palermo: ma, a dire il vero, io non seppi più che cosa accadesse di loro.
Noi raggiungemmo la brigata a Caltanisetta, ove, ultimi arrivati, alloggiammo assai male: in cambio, trovammo laggiù novità e sorprese, che ci compensarono largamente.
Tra le novità conto la conoscenza di Alessandro Dumas, del quale meglio che dire la mia impressione fugace di quei giorni, mi piace riferire un incidente succeduto appunto a Caltanisetta. Egli viaggiava con un codazzo di segretari e sempre insieme con "sa petite", come la chiamava lui; grazie ai buoni uffici del nostro brigadiere, aveva ottenuto ospitalità nella famiglia baronale dei Fiandacca, una delle più cospicue del paese. Ma quei nobili signori, annoiati dai modi del Dumas, il quale, come sovente accade ai grandi uomini, si permetteva molte libertà, e urtati dalla presenza della "petite", una sguaiata ragazza che lo seguiva in abito maschile, non nascondevano al celebre romanziere una tal quale loro freddezza. Ne nacquero dei piccoli screzii, per cui i padroni di casa, trovandosi in imbarazzo, pregarono l'altro loro ospite, il capitano Vittore Tasca, dei Mille, valoroso gentiluomo e artista geniale, di far intendere la ragione e il galateo al bizzarro spirito francese.
Il Tasca, per tastare il terreno, s'indirizzò prima a un servo del Dumas, un circasso, dalla faccia aperta, che indossava tutto un costume del suo paese, e che pareva fosse addentro nelle grazie del padrone. Nè egli ebbe difficoltà a intendersi con lui, perchè il circasso gli si rivelò per un
brianzuolo puro sangue, non mai uscito dai confini d'Italia, al quale il suo padrone aveva imposto quel travestimento teatrale. Per farla breve, il Tasca accomodò con molto tatto i dissapori e quindi entrò in cortesi rapporti col Dumas. Quando poi a pranzo gli raccontò di aver percorsa la Persia, il Caucaso, gli Urali, il Dumas si accese di entusiasmo per lui, e profondendo tutte le seduzioni del suo spirito, mostrò vivamente d'interessarsi ai più minuti particolari del viaggio. E il Tasca, che era un narratore pieno di brio, riscaldato dal calore dell'uditore, non si risparmiò punto, e provocò le sue maggiori esclamazioni
ammirative col raccontare certi curiosi episodi ai fuochi eternali di Baku, e una caccia ai pellicani nell'isola di Leukoran.
La stessa sera il Tasca, commosso dalle lusinghiere dimostrazioni del Dumas, riferì il caso, conversando, al suo brigadiere Eber; e questi, che conosceva bene il Dumas, ridendo di cuore: "Sicuro", disse, "so anch'io che vi dev'essere grato e riconoscente; gli avete dettati due capitoli dei suoi viaggi!” Mi si afferma infatti, che fra
le memorie di quei paesi, scritte dal Dumas, figurino appunto avventure molto simili a quelle del Tasca.
La sorpresa poi che ci aspettava a Caltanisetta, toccò particolarmente a me; e di essa dirò qui
appresso.
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