Giulio Adamoli
Da San Martino a Mentana

Capitolo Quarto
Sul Volturno
(1860)




       Il generale Stefano Turr, nominato comandante in capo della 15a divisione, reggeva contemporaneamente la nostra brigata, e con essa il 20 maggio era uscito da Palermo per guidarla attraverso la Sicilia. E noi andavamo alteri di avere un tanto capitano, già rinomato per valore e per sagacia, così favorito dalla fortuna, così addentro nell'affetto e nella stima di Garibaldi.
        I suoi compagni d'armi della spedizione, che ricominciavano nella brigata la campagna di guerra, avendolo conosciuto alla prova, ne portavano a cielo la intrepidezza e le qualità militari non solo, ma anche il carattere franco ed affabile, che inspirava affetto sincero, e la cortesia dei modi, che gli cattivavano quanti gli erano d'intorno. Io, che non potevo ancora apprezzare le doti dell'animo, come quando ebbi l'onore di servire più da vicino sotto i suoi ordini, mi limitavo allora ad ammirarne, allorché appariva sul focoso morello, alla testa di un brillante stato maggiore, la figura cavalleresca, ravvolta in un candido haik, il bel viso pallido, con i grandi occhi azzurri dolcissimi, ombreggiato dai lunghi baffi bruni.
       Sino dai primi giorni, nell'esercizio della sua nuova autorità, egli aveva saputo rassicurare ed entusiasmare le popolazioni, attraverso le quali passavamo, e imprimere alla brigata uno slancio, che affidava di riuscir fecondo di gagliarde imprese. Ma pur troppo la lusinghiera promessa durò poco. Le fatiche eccessive avevano scossa la salute di Turr, le ferite gli si riaprivano, e l'ostinata energia dovè cedere alla violenza dei patimenti. A. Villafrati, con gran dolore di tutti, Turr, gravemente ammalato, ci abbandonò per tornare a Palermo, consegnando la brigata al suo concittadino, amico e commilitone nelle guerre d'Ungheria, Ferdinando Eber.
       Questi era pure fornito di grandi attitudini, ma era d'altra stoffa del Turr; e forse, appunto per l'amore dei contrasti inerenti alla natura umana, il Turr lo aveva prescelto a suo successore. Eber possedeva la coltura, il gusto, il temperamento del letterato; corrispondente del Times, che lo pagava profumatamente, noto pei suoi viaggi in Oriente, non mancava di studi militari: ma, in cambio, non era animato dal fuoco sacro del mestiere. Lo si indovinava dall'aspetto poco marziale, malgrado l'alta statura, e dalla foggia borghese del vestire. Fedele alla moda britannica, cingeva di rado la sciabola, e non portava alcun distintivo nè sul cappello di feltro all'ungherese, nè sulla casacca rossa, che sola, di tutto l'abbigliamento, lo dinotava garibaldino. Il contegno riservato, la parsimonia nelle parole, da cui traspariva la convinzione della superiorità, lo sguardo freddo dell'occhio grigio, perfino la correttezza rigida delle abitudini inglesi, agghiacciavano in tutti noi ogni tentativo di espansione. Infatti, sebbene godesse fra noi stima e considerazione, egli non curò mai di contrarre una sola amicizia. La natura gli aveva negato quel dono, di cui era stata prodiga a Turr, il dono della influenza ammaliatrice, che ravviva la corrente di simpatia fra le truppe e il comandante.
       Egli abbandonava volentieri la cura della brigata al suo capo di stato maggiore, il colonnello Pietro Spangaro, un patriota di vecchia data, antico ufficiale sotto l'Austria, valoroso difensore, nel 1849, di Venezia sua patria, ove combattè con il grado di maggiore. Rifugiato in Egitto durante il periodo della emigrazione, era corso in Italia l'anno innanzi per vestire la divisa dei cacciatori delle Alpi, e aveva poi seguito Garibaldi nella prima spedizione di Sicilia. Tutti lo amavano per la grande bontà, che gli si leggeva anche in volto, e perché esercitava le funzioni del suo ufficio con passione e con cognizione, avendo compiuta la sua educazione militare nel collegio di Neustadt. Si deve a lui, lo si può dire senza esitazione, se la brigata raggiunse un completo assetto.
       Finché Turr durò con noi, il lavoro di stato maggiore camminò senza intoppi. Ma quando Turr andò via, e portò con sè quasi tutti gli ufficiali che appartenevano allo stato maggiore divisionale, lasciando a Spangaro quei pochi destinati all'ufficio della brigata, la situazione mutò.
       Gli ufficiali rimasti con Spangaro, due o tre a quanto ricordo, eran napoletani, i quali, abbandonato a Palermo prima dell'imbarco l'esercito borbonico, e diventati d'un tratto garibaldini senza quasi mutar neanche d'uniforme, furono addetti allo stato maggiore, perché a noi facevan difetto le cognizioni tecniche indispensabili in una cancelleria militare; forse anche, chi lo sa? per un vago fine di accorgimento politico.
       Ai volontari, sin da prima, era spiaciuto di vedere i loro capi mettersi d'attorno costoro, e affidare ad essi le mansioni più gelose; e ne avevano mormorato. Se però i nuovi venuti avessero voluto, con una condotta equanime, conquistare la benevolenza dei camerata, tutta gente incapace di serbar rancori, vi sarebbero, ne sono persuaso, facilmente riesciti. Invece, per una inconcepibile mancanza di tatto, pareva si sforzassero, con la eccentricità dei modi, a tener vivi l'astio e la diffidenza, giustificando così il malcontento generale.
       Malgrado l'intervento dei capi, la incompatibilità fra i due elementi si andò esacerbando al punto, che, infine, a Caltanisetta scoppiò minacciosa. Gli ufficiali dei battaglioni, radunatisi nei quartieri, protestarono di non volerne più sapere dei disertori, ed eccitarono alla sommossa i picciotti, i quali, da buoni figli di Sicilia, non amavano i napoletani; il caso si fece grave. Il tenente Luigi Novaria, uno degl'istigatori, andava gridando nel suo gergo pavese: “Ih! che andoumma!” e voleva intendere di andare a farla finita con gl'invisi borbonici. Il comando della brigata dovè cedere e licenziare gli ufficiali messi all'indice che più non ricomparvero.
       Questo fu il primo ed ultimo atto d'indisciplina collettiva della brigata, che io non intendo scusare. Militano però in suo favore tali e tante circostanze attenuanti, che noi possiamo, come l’angelo di Stern, cancellarlo con una lagrima.
       L'imbarazzo serio per i nostri capi venne dopo, quando si trattò di surrogare, e subito, i congedati, non avendo per le mani un personale adatto, e trovandoci tanto lontani dagli altri corpi. Si tenne consiglio, e il capitano Zasio, delle guide della divisione, suggerì di chiamare in vece loro Antonio Frigerio, che aveva servito prima nell'esercito austriaco poi nel nostro., e me, recente ufficiale dei granatieri. La proposta venne accettata, e su noi due cadde la scelta.
       Eravamo appena rientrati a Caltanisetta dalla spedizione di Resuttano, e ascoltavamo con meraviglia la narrazione del pronunciamento avvenuto il giorno innanzi contro i napoletani dello stato maggiore, quando l'amico Zasio ci comunicò la disposizione presa dal comando a nostro riguardo. "Ma io non m'intendo nè di cancellerie nè di uffici", protestava Frigerio. "Ma non so da qual parte si incominci", aggiungevo io. "Accettate sempre", ci diceva Zasio, incoraggiandoci: "tant'è! non seno può fare a meno”. E naturalmente finimmo per accettare una destinazione, che, dopo tutto, solleticava il nostro amor proprio, reso anche più suscettivo dalle congratulazioni veramente cordiali de' nostri compagni d'armi.
       Così rimasi addetto, fino al termine della campagna, allo stato maggiore della seconda brigata della 15a divisione, nota sotto il nome di brigata Eber. Poco dopo Caltanisetta, venni promosso al grado di capitano.

       Credo di poter affermare senza pericolo di essere smentito, che la posizione sociale più bersagliata al mondo sia quella dell'ufficiale di stato maggiore in un corpo di volontari. Su l'ufficiale di stato maggiore di qualunque esercito cade, in genere, una responsabilità gravissima, dovendo preveder tutto e a tutto provvedere, senza avere un momento di riposo. Ma, tra' volontari, ha inoltre il compito speciale di esser il bersaglio dei malumori di tutto il corpo.
       A lui la colpa dei disagi, dell'alloggio infelice, del cattivo cibo, delle pessime strade, quasi anche della perversa stagione. Egli dee riparare le angherie immaginarie, soddisfar le pretese assurde, porre rimedio agl'inconvenienti più inverosimili. Tra' volontari, cui fa sempre un po' difetto il sentimento della disciplina, la propensione naturale alla critica si sfoga in chiare note, non monta se a ragione o a torto, per ogni più lieve cosa, per ogni più futile motivo; e la vittima designata, è sempre lo stato maggiore.
       In omaggio alla verità devo soggiungere, che lo stato maggiore ci fa presto il callo; ma questo non esclude, che di noie e di seccature esso ne abbia fin sopra i capelli.
       A noi della brigata incombeva un lavoro veramente eccezionale. Oltre a dirigere l'andamento normale delle truppe, ci toccava completare l'organizzazione, promovendo gli arrolamenti; preparare e far seguire senza interruzione il corredo, le vesti, le armi necessarie per le nuove reclute, ordinandone la istruzione; arrestare i disertori, che nelle nostre file, per le condizioni dei nostri ruoli, erano pur troppo frequenti. Bisognava istituire magazzini, impiantare ospedali, inviare distaccamenti a sedar turbolenze, mantenere continui rapporti con le autorità e con le tesorerie locali, su le quali il comando aveva poteri larghissimi. E a tante faccende occorreva supplire con mezzi inadeguati, senza personale tecnico, in un paese nuovo, marciando sempre. Pure, partiti da Palermo con tre magri battaglioni, una compagnia sottile di stranieri, due piccoli cannoni, un embrione di intendenza e di ambulanza, in meno di quaranta giorni, attraversando la Sicilia, cioè percorrendo duecento trenta miglia e più, avevamo a Messina: quattro battaglioni completi di fanteria, divisi in due reggimenti; un battaglione di bersaglieri, armato di carabine Enfield; sei pezzi di artiglieria, col loro servizio; un distaccamento del genio, che avevamo contradistinto con uniforme azzurra; un drappello di guide a cavallo; una legione ungherese, vestita, alla foggia d'Ungheria, con le tuniche di panno ad alamari, con i berretti terminati a punta col fiocco, ripiegata sul lato destro; infine, una compagnia estera completa. L'intendenza funzionava oramai, in modo da poter fornire a ogni soldato il rancio, mentre in origine non si distribuiva loro che il denaro corrispondente alla razione. L'ambulanza, da ultimo, era ordinata nel pieno suo assetto, perchè provvista di muli, di barelle, di tutto ciò, o quasi, che le occorre. Uscimmo di Palermo con circa cinquecento uomini; al momento di passare in Calabria ne contavamo intorno a' Tremila.
       Dal lato morale poi devo convenire, che le intime soddisfazioni compensavano largamente le fatiche più gravose e i contrasti più acri e difficili del nostro ufficio. Ci attorniava, in primo luogo, un ambiente molto simpatico. Incominciando dai capi, l'Eber, se non aveva un carattere espansivo, era però un perfetto gentiluomo, coltissimo e correttissimo, e Spangaro più che da superiore ci faceva da padre. Fra i colleghi il Frigerio, anima d'oro, di quei tali, che vederli e non amarli è impossibile, strinse meco amicizia, che soltanto la sua morte gloriosa disciolse. E gli ufficiali delle Guide, che si alternarono al quartier generale, tutti indistintamente lasciarono in noi le più care memorie. Oltre al capitano Emilio Zasio, furono presso noi di passaggio quattro trentini, dei quali non saprei dire chi fosse migliore per cuore, per intelligenza, per coraggio: Egisto Bezzi, di una freddezza inalterabile al fuoco, di una calma senza pari nei maggiori momenti di pericolo, carissimo a Garibaldi, e in ogni moto d'Italia uno de' primi; il biondo Filippo Tranquillini, che sotto il sorriso ironico, nascondeva le doti più gentili dell'animo; il conte Filippo Manci, dolce, delicato, ma di ferro alle fatiche e nei combattimenti, cui il fato serbava una morte tanto tragica; e il conte Francesco Martini, dotato di rara distinzione, degno compagno de' suoi conterranei: tutti quattro, amici sicuri a qualunque prova. Poi due mantovani: Giuseppe Nuvolari, solitario, accigliato, perfino quando pareva sorridesse alle nostre follie, tra' più fidi di Garibaldi, cui seguiva anche a Caprera; e Stefano Gatti, giovinetto pieno di brio e di speranze, aiutante di campo del brigadiere. Quando il nostro gruppo cavalcava dinanzi alla brigata, e il rosso vivace delle camice si confondeva con il bianco de' haik svolazzanti e con il grigio delle attillate uniformi delle guide, esso offriva davvero un quadro pittoresco.
       Alla tappa lo stato maggiore veniva naturalmente alloggiato nelle migliori abitazioni, e così avevamo l'opportunità di essere a contatto coi maggiorenti del luogo, e conoscere le abitudini, spesso curiose, di que' signorotti. De' quali molti, specialmente coloro che avevano viaggiato, potevano rivaleggiare per coltura con qualsiasi gentiluomo d'Europa; altri tradivano, in mezzo allo sfarzo delle ricchezze, una educazione primitiva, accompagnata da modi ed usanze da castellani del medio evo. Un tratto di eccentricità, da me osservato in una borgata fra Caltanisetta e Catania, servirà ad abbozzare il profilo di uno di essi.
       Guardando una tela, che occupava una parete della sala da pranzo, e che rappresentava un personaggio in gran costume di cerimonia, Frigerio mi fece notare una certa rassomiglianza fra la figura e il signore del luogo.
       "E’ lui appunto”, ci spiegò cortesemente un cliente della casa che ci udiva.
       "Ma quel manto di ermellino, e quelle decorazioni, che cosa significano?, gli domandai meravigliato. "Son forse le insegne di un grado o di un ordine cavalleresco?”
       "Oh! no", rispose sollecito. "Quello è l'abito di gala dell'Imperatore di tutte le Russie. Il signor barone lo ammirò in un ritratto di quel monarca, e ne rimase tanto compiaciuto, che lo adottò per sè”.
       "Stupenda trovata", esclamammo in coro; "peccato che manchi là dirimpetto il ritratto della signora baronessa in abito d'imperatrice”.
       "Speriamo che venga", concluse, sinceramente convinto, l'interlocutore.
       Con le autorità locali mantenemmo sempre buoni rapporti. Come suole avvenire, mentre alcune ci si mostravano premurose, altre non si serbavano tali che nelle prime accoglienze. Ma anche i nostri sovente pretendevano troppo ed autorizzavano la reazione. In un ufficio municipale, ove entrai per non so quale occorrenza, trovai il sindaco in mezzo a una dozzina di ufficiali, che gli spiegazzavano sotto il naso i biglietti d'alloggio, gridando e lamentandosi dei posti loro assegnati. Il sindaco, un ometto mingherlino, raggomitolato sul seggio presidenziale, tappate le orecchie con le mani, e chiusi gli occhi, non rispondeva a nessuno, e tanto persistette in questo suo sistema di ostinazione passiva, che i miei commilitoni finirono per andarsene, bestemmiando e imprecando, ma dandogliela vinta.
       La straordinaria ricchezza dei paesi dell'interno m'impressionò talmente, che avevo raccolto dati e notizie con un lontano e vago proposito di tornare laggiù a tentar la fortuna, a guerra finita. "Questa Sicilia è ricca tanto, che pare un paese di fate”, scrivevo a casa il 5 luglio. “Un proprietario mi raccontava, che avendo comperato tremila capi di bestiame, in un anno raddoppiò il capitale; un altro mi assicurava, che il suo fondo gli rendeva il cento per cento. Il grano produce sino a trentadue sementi per una; dove poi ci sono solfatare, si fanno guadagni favolosi. E sì che l'agricoltura è preadamitica!” - Quale mutamento da allora a questi tempi!
       Le nostre marce si avvicendavano, ora comodamente per la via consolare, ora con minor agio e maggiore varietà per le scorciatoie; ora nella notte, ora in diversi periodi della giornata. Ma tale alternativa non riesciva a rompere la monotonia del paesaggio, a calmare l'impazienza, che agitava gli spiriti. Oramai ne avevamo abbastanza delle rocce nude delle montagne, del giallo uniforme delle campagne interminabili, in mezzo alle quali ben di rado l'occhio riposava sul pallido verde di un bosco d'ulivi; ne avevamo abbastanza de' borghi aggruppati su le alture, in mezzo a' giardini d'aranci e vigneti, sempre uguali; ne avevamo abbastanza della scarsezza delle acque, anche di quel vino color mattone, troppo ricco di alcool pei nostri palati. Ma sopratutto ci opprimeva l'assoluta lontananza dal mondo, in momenti di tanta generale commozione; la mancanza di notizie, di comunicazioni facili e rapide; l'apatia politica delle popolazioni, appena velata dalle accoglienze festose, e dalle sincere ma platoniche acclamazioni a Vittorio Emanuele, a Garibaldi, all'Italia una. Anelavamo di mescolarci attivamente alla guerra che si combatteva, di vivere anche noi la nostra parte nelle grandi emozioni del paese. Ci pareva allora, che per raggiungere cotesto ideale bastasse toccar la sponda del mare, e sospiravamo, invocavamo l'arrivo a Catania. Ma, ben inteso, mi affretto a dirlo, appena giunti, Catania non ci bastò più, e volevamo Messina, e dopo Messina le Calabrie, e dopo le Calabrie Napoli! E così via via, come accade sempre.
       Il 15 luglio entrammo in Catania, già vinti dal fascino della vegetazione lussureggiante alle falde dell'Etna. Lo splendore della città, così bene ordinata, così moderna, l'elevato suo grado di civiltà, finirono di conquistarci. Gli abitanti ci accolsero con grande sfarzo; bellissime signore erano ai balconi, le autorità e il fiore della cittadinanza ci venivano incontro in equipaggi elegantissimi, e le ovazioni del popolo ci accompagnavano lungo le vie imbandierate.
       A queste accoglienze, che rendono indimenticabile l'ingresso in Catania, si aggiunge poi l'ameno ricordo di una monelleria del Gatti, il quale, cavalcando dietro al Frigerio, lo indicava alla folla e provocava un subisso di battimani all'indirizzo di lui, che tirava dritto, inconscio e meravigliato dell'effetto che produceva. La marcia trionfale di Frigerio diventò fra noi leggendaria, e perseguitò l'amico durante tutta la campagna.
       E qui finirono le feste. Acquartierate le truppe e gli ufficiali nei conventi e nelle caserme, e lo stato maggiore in un vasto palazzo pubblico, i catanesi si tirarono in disparte, e in fatto di ricevimenti si mantennero riservati; ciò che non c'impedì di divertirci bravamente, e di compensarci largamente delle privazioni sofferte fin lì.
       Il municipio di Catania, provvedendo a quanto ci occorreva, fu superiore ad ogni elogio: chè anzi gli dobbiamo lo aver potuto equipaggiarci quasi completamente, mediante la rapida istituzione di svariati laboratori per ogni genere di materiale militare.
       Trovammo poi un battaglione di volontari al completo, che il colonnello Nicola Fabrizi, sbarcato da Malta, con un nucleo di patrioti, tra i quali Abele Damiani, aveva raccolto in città, ma poi, per l'impazienza di correre incontro a Garibaldi, aveva piantato in sul più bello della sua organizzazione. Cotesto battaglione si profferse di far parte della brigata. Noi volentieri accettammo, dopo però aver dichiarato, che non intendevamo di riconoscere i loro ufficiali e bassi ufficiali, riserbandoci di sceglierli fra quelli, che avevano già combattuto, o che potevano dar prova di cognizioni militari. E di tali elementi non era difetto, sia nelle nostre file, sia fra que' giovani della spedizione di Clemente Corte, che erano riesciti a fuggire da Gaeta, passare a Malta, e di là raggiungerci a Catania. Tra questi ricordo un Ferrari, mio compagno nel 1° granatieri, che ora si trova, credo, in America.
       I catanesi si ribellarono dapprima alla draconiana deliberazione, e ne nacquero malumori, proteste, un viavai di commissioni. Ma dinanzi alla nostra fermezza, il patriottismo trionfò, e fu visto con esempio singolare, che onora Catania e la Sicilia, i sottufficiali strapparsi le insegne e presentarsi a noi come semplici soldati piuttosto che rinunciare a servir il paese. A capo del nuovo battaglione, che diventò il nostro 4°, fu posto Vittore Tasca, e del nobile atto dei catanesi fu tenuto il debito conto, distribuendo il più che possibile nelle antiche nostre compagnie, con il grado di sottufficiali, quei giovani, che avevan dato sì bell'esempio di abnegazione. Fu pure formato allora il battaglione dei bersaglieri, che venne affidato al parmigiano Faustino Tanara, un uomo d'acciaio, tutto fuoco ed energia, mirabilmente adatto per quel comando.
       Non ho da riferire altri particolari sul soggiorno della brigata in Catania, perchè, essendosi sparsa la novella, che i regi spingevano da Messina verso noi una forte colonna, venne a me l'ordine di andare a Taormina, insieme con la compagnia estera, a fine di rilevar l’importanza di quei movimenti, tenendone al corrente lo stato maggiore.
       C'incamminammo dunque per quella meravigliosa riviera il 19 luglio, pieni di ardori belligeri; ma di mano in mano che avanzavamo, persino l'ombra del nemico svaniva, e quando arrivammo a Taormina, la nostra ricognizione era convertita in una stupenda gita di piacere.
       Distribuiti i posti di osservazione, e ordinato il servizio informazioni, c'installammo a tutto piacer nostro nella palazzina di un barone, che era fuggito perché in voce di borbonico, e beatamente ci dedicammo in quell'angolo di paradiso al dolce far niente, lo sguardo perduto in quella linea lontana, ove si baciano gli azzurri del cielo e del mare.
       Dovrei ora aggiungere come il collega di missione, il Wolf, comandante la compagnia estera, accrescesse il fascino di quelle ore, con gli allettamenti dello spirito colto e sagace: familiare del Mazzini, confidente dei patrioti di tutta Europa, sapeva tener viva una conversazione tra le più dilettevoli; già milite in Africa nella legione straniera, in Piemonte nella legione anglo-italiana, oggi, a capo degli svizzeri e dei bavaresi disertori dell'esercito borbonico, e gente punto facile, mostrava un tatto militare, una energia veramente non comune. Ma sulla memoria di quell'uomo, che pareva l'incarnazione più pura della rivoluzione, a cui, durante dieci anni, noi tutti stringemmo fiduciosi la mano, sul campo e nelle nostre case, perchè compagno nostro nelle spedizioni, nei combattimenti, nelle prigioni; su la immagine di quell'uomo, conviene stendere un velo come i veneziani sul ritratto del doge fellone, e passare oltre per sempre.
       Gli ozii di Taormina, che in tutt'altra occasione avremmo goduti con intenso diletto, ci pesavano oramai come una inazione colpevole: un dispaccio di Medici, che ci preveniva del prossimo suo attacco contro i regi, ci aveva messo nel sangue la febbre dell'impazienza, e la notizia della vittoria di Milazzo, e del rapido avanzarsi dei garibaldini su Messina, avevano spinta l'impazienza fino al parossismo. S'immagini quindi con quanta soddisfazione vedemmo arrivare a Giardini la nostra brigata, che Eber e Spangaro, rotti gl'indugi, dopo soli dieci giorni di sosta a Catania, abbandonati gli approvvigionamenti incompiuti, e l'idea di assalire i forti di Siracusa ancora occupati dai borbonici, portavano speditamente a Messina, con la speranza di partecipare a qualche fatto d'armi, e sbarcare pei primi sul continente.
       E appunto per ottenere l'ambita preferenza, - ardente desiderio, che oramai ci rendeva perfino ingiusti verso la Sicilia, da cui non vedevamo il momento d'uscire, non sognando noi più che Calabria, - Eber, affidata a Spangaro la brigata, seguito soltanto da una guida, per vie di montagna si recò da Garibaldi. E ne riportò i migliori affidamenti che ci ridiedero lena e risollevarono gli spiriti; ma che pur troppo al momento dell'esecuzione, per colpa de' casi, non degli uomini, andarono delusi.
       Il 28 luglio entrammo in Messina, ove ci avevano preceduti i vincitori dì Milazzo.
       Riguardo a quel combattimento, e alla capitolazione di Messina che gli tenne dietro, nulla avrei a dire per conto mio, non avendoci presa alcuna parte. Credo utile invece di copiare da una lettera famigliare, indirizzata l'8 agosto a mia madre dal brigadiere Simonetta, il brano seguente, che piglia importanza dall'autorità dello scrittore:
       "A quest'ora sarai già informata dei fatti d'armi, che qui hanno avuto luogo. Il mio viaggio fino a Barcellona fu molto faticoso; ne fui per alcuni giorni incomodato, ma poi mi son rimesso e oggi sto benissimo. Da Barcellona, avendo saputo che i regi marciavano incontro, andammo a prendere posizione a Miri. Quivi avemmo uno scontro la mattina del 17. Mentre i regi tentavano di girare la nostra destra, noi li abbiamo attaccati e ricacciati in Milazzo; fu allora che il Cattaneo di Varese, essendosi spinto oltre gli ordini con alcuni soldati, venne fatto con essi prigioniero. La sera, i regi in forze ancora maggiori di quelle del mattino vennero nuovamente ad assalirci nelle nostre posizioni, ma nuovamente vennero messi in fuga. Il 20, forse senza volere del generale, ci trovammo impegnati in un combattimento, serio e decisivo. Abbiamo vinto, ed è stata una gran fortuna. La vittoria di quel giorno portò con sè la resa della fortezza di Milazzo, poi quella di Messina e della sua cittadella, tanto che da quest'ultima nulla abbiamo più a temere. Una convenzione fu segnata, secondo cui da parte nostra è lasciata libera la navigazione commerciale per lo Stretto; da parte de' regi vengono sgombrati i due forti di Gonzaga e di Castelluccio, insieme con l'obbligo di non tirare dal forte del Porto, che solo rimane in poter loro, neppure un colpo di fucile, nè su noi, nè sulla città”.
       Or la nostra brigata, appena giunta in Messina, ebbe appunto l'incarico di alternare cogli altri reggimenti di volontari il servizio di sorveglianza dinanzi al forte del Porto, su cui sventolava ancora la bandiera bianca.
       I due cordoni di sentinelle, l'avversario e il nostro, stesi sulla spianata che separa il forte dalla città, erano a fronte l'un dell'altro con la massima indifferenza: chè anzi non di rado gli ufficiali borbonici assistevano ai nostri esercizi di maneggio, che unitamente ad Alessandro Carissimi, maggiore delle guide, e ad altri ufficiali del Medici, nostri buoni amici, eseguivamo per passatempo sul terreno neutrale. Le difficoltà sorgevano alle volte non per altro, che per la solita tendenza de' picciotti di attaccar brighe, mentr' erano in fazione, coi soldati napoletani, attirando su di noi, con nostra immensa stizza, i motteggi delle altre brigate più solidamente costituite. Una sera poi, con il mandare a monte, grazie a una di quelle loro scenate, una nostra festa geniale, improvvisata sotto i migliori auspici, i picciotti ci misero addirittura fuori dei gangheri.
       Al finire di un banchetto, dato, nella elegante nostra dimora del palazzo Grano, in onore del Turr, l'amato generale ricomparso fra noi dal continente, l'allegria fece nascere nei giovani petti una voglia matta di ballare. La proposta incontrò il plauso universale; ma non essendovi signore, e del paese non conoscendo noi anima viva, l'attuazione sarebbe sembrata a tutti impossibile, tranne a noi, che a quell'età ed in que' tempi, non dubitavamo di nulla.
       Infatti, tre fra i più intraprendenti, il Tanara, il Gatti ed io, mettemmo senza esitazione scommessa di fare aprire, quella sera stessa, in quelle stesse sale, le danze. Prese le debite informazioni, ci presentammo risolutamente alla prima famiglia signorile, che abitava lì accanto, e dopo alcune parole di preambolo, cortesemente la invitammo al ballo offerto dallo stato maggiore della brigata Eber. Il padre e la madre sorpresi di un invito così inatteso, risposero con frasi evasive, e conchiusero di voler aspettar l'esito delle nostre pratiche presso altri vicini. Ci accorgemmo però facilmente che le figliuole vedevano la cosa assai di buon occhio. Il secondo tentativo ottenne un risultato analogo, ma non ci scoraggiò. Al terzo la mamma ebbe un lampo di genio; ci suggerì d'impetrare l'adesione della famiglia tal de' tali, e nominò una delle più cospicue di Messina, che abitava nella stessa via, come quella che avrebbe proprio fatto poi caso nostro.
       Vi accorremmo difilato, e fummo accolti da una gentildonna, distintissima, la quale, attirata e dalla bizzarria della richiesta e dalla franchezza degli invitanti, che dopo tutto avevano l’aria di giovanotti per bene, rise della trovata, e informatasi dei particolari, assunse, insieme con il marito, l'impegno di provvedere lei a tutto quanto riguardasse gl'inviti. Noi, superbi del risultato, ritornammo, fra le acclamazioni degli amici increduli, che ci avevano già apparecchiati i fischi, per mettere in atto l'altra patte del programma.
       Un'ora dopo, gl'invitati, con le mogli e le figliuole, in semplici acconciature secondo il convenuto incominciavano ad affluire nelle nostre sale, di cui Eber faceva gli onori, e la musica intuonava i primi accordi, ....quando lo scoppiettio della moschetteria, seguito da un colpo di cannone, fece ammutolir tutti. Un ufficiale accorre, e ci avverte che i nostri posti, al Porto, sono alle prese coi borbonici. È assurdo..., ma bisogna andare! Gl'intervenuti pigliano congedo, e noi arriviamo su la spianata proprio in tempo per veder finito il tafferuglio e tornarcene scornati negli appartamenti deserti del palazzo Grano. Quanti moccoli, quella sera, contro quei poveri picciotti!
       Questo fatterello, riferito anche da Massimo Du Camp nella sua Expedition des Deux Siciles, ma con tanti ricami e tanti apprezzamenti da snaturare la semplicità cordiale, dà una idea del brio che regnava nel nostro stato maggiore. In esso infatti si raccoglieva un insieme di persone, che per la varietà delle origini, e la singolarità dei caratteri, costituiva come un piccolo mondo.
       Venivano da noi, per ragioni di ufficio, i comandanti i diversi corpi componenti la brigata, ossia i colonnelli dei reggimenti di fanteria Bassini e Cossovich, lombardo uno, veneto l'altro; i colonnelli ungheresi, Maggerody, della legione ungherese a piedi, e Figgelmesy, di quella a cavallo; il tedesco Arnold, capo della compagnia del genio. Venivano pure i corrispondenti dei giornali esteri, specialmente inglesi, legati con Eber da rapporti di professione: tra questi la signora Jessie Mario, così benemerita del risorgimento italiano, e il conte Carlo Arrivabene, dello stato maggiore di Garibaldi, corrispondente del Daily News, il quale, perchè professore del collegio universitario di Londra, indossava l'uniforme nera de' volontari inglesi.
       Di Carlo Arrivabene si potrebbe fare un volume di aneddoti, da quando, il 1848, arringò a Mantova il reggimento austriaco Haugwitz nella sua stessa caserma, e il 1849, alla Spezia, stese il cartello di sfida che gli ufficiali della divisione lombarda mandarono agli ufficiali francesi della fregata Le Magellan, sino al giorno in cui cadde prigioniero dei borbonici nella battaglia del Volturno, per aver voluto soccorrere un amico. Mi limito a uno soltanto, che si collega all'epoca del nostro arrivo in Napoli. L'Arrivabene contemplava il mare dall'Albergo di Roma, conversando coll'ammiraglio inglese Mundy, quando una balda comitiva di giovani garibaldini irruppe allegramente sul terrazzo. Uno di essi lo fissa attonito; anch'egli guarda meravigliato, e cadono fra le braccia un dell'altro: erano padre e figlio. Il padre, Carlo, era accorso diritto in Sicilia dall'Inghilterra, senza darne avviso o notizia alla famiglia; e Il figlio, Silvio, diciassettenne, già imprigionato l'anno innanzi a Mantova, per aver preso parte a una dimostrazione politica della scolaresca , era sceso nell'Italia meridionale all'insaputa del padre. L'affettuoso incontro colpì vivamente gli astanti; l'ammiraglio inglese ne fu commosso più di tutti.
       Con gli ufficiali poi dello stato maggiore della divisione avevamo intimi rapporti, convivendo e marciando spessissimo insieme. Tra questi mi piace ricordare il Pecorini-Manzoni, che scrisse la storia della 15a divisione Turr; Michele Czudafy, ungherese, condannato a morte dall'Austria nel 1849 e per grazia a diciotto anni di ferri, dei quali ne scontò otto, perchè amnistiato in occasione della nascita del principe imperiale; Francesco Ziliani di Brescia, dei Mille, medico della divisione, creatore della nostra ambulanza.
       De' molti stranieri che capitavano al nostro quartiere perchè amici del Turr e dell'Eber, rammento ancora il conte Teleky, che portava con la grazia altiera del gran signore maggiaro l'uniforme garibaldina, e cavalcava una stupenda cavalla, che aveva però il vizio di sferrare calci pericolosi e di porre sovente, durante le marce, lo scompiglio in mezzo al nostro drappello; il parigino Massimo Du Camp, alto, bruno, innamorato allora della nostra Italia e della camicia rossa che indossava; come l'indossava un turco autentico, Kadir bey, buon diavolo, grande amico di Turr, li quale almeno si sforzava di farsi capire in francese, mentre l'inglese Austin Dohnage, giovanotto allegro e gioviale, arrivato fresco fresco da Londra nell'uniforme di Rifleman per solo gusto di far la guerra come un passatempo, non arrischiava neppure una sillaba in altra lingua che non fosse la sua. Due polacchi inseparabili, con de' nomi assolutamente impossibili a pronunciare, uno lungo, secco, sempre serio, l’altro corto, panciuto, sempre ilare, come nei libri di caricatura, destavano, volta per volta, il nostro buon umore. Garibaldi, che spesso s'invaghiva, come tutti gli uomini di gran cuore, di certi tipi eterocliti, che del resto possedevano forse meriti eccezionali da noi ignorati, li aveva aggregati alla brigata con gradi superiori; ma Eber, non sapendo ove impiegarli, li aveva dispensati dal servizio, ed essi, imperturbabili, non comparivano che al primo di ogni mese per riscuotere la paga.
       E non potrei finalmente passare sotto silenzio, senza venir meno alle regole più elementari della galanteria, la seducente contessa Martini Salasco, di antica prosapia piemontese, la quale, nella illusione, in cui era, di prestare aiuti e distribuire soccorsi, cavalcava fra mezzo le squadre garibaldine in un leggiadro costume, che arieggiava l'uniforme delle guide, e volentieri si soffermava pressò il nostro comando.
       Un caravanserai dell'Oriente, coi suoi ospiti tanto diversi di razza, di fogge, di colori, potrebbe dare soltanto una idea del nostro quartier generale e delle persone ragguardevoli o volgari, piacevoli o grottesche, rinomate od ignote, che sedettero alla nostra mensa durante quei mesi fantastici. Per intenderci in mezzo a quella Babele, parlavamo ordinariamente il tedesco, senza scapito però degli altri idiomi; così che a mio fratello, scrivendo io il 2 settembre di apparecchiarsi a seguirmi alla liberazione di Roma cui ci tenevamo sicuri di avviarci, appena sbrigate le faccende con il reame di Napoli, consigliavo "d'imparar ben bene il tedesco, lingua parlata al mio stato maggiore, oltre l'ungherese, il francese, l'inglese”. Curiosa condizione per italiani che combattevano in un esercito italiano ed in Italia!
       Il contingente straniero della 15a divisione, già così ricco, si accrebbe, con la spedizione Pianciani, che approdò in quei giorni a Messina. Appunto allora ci venne nientemeno che lo storico Guglielmo Rustow. Poichè gli avvolgimenti della diplomazia, ed alte influenze sventarono il disegno originario della spedizione, quello cioè di gettarsi su le coste pontificie, e i suoi capi, il Pianciani e il Bertani, si dimisero, le brigate, di cui essa si componeva, vennero distribuite fra i comandi dell'esercito meridionale. Il colonnello Rustow, che era con il Pianciani, rimasto quindi in disponibilità, fu chiamato dal Turr a disimpegnare le funzioni di capo di stato maggiore della sua divisione. Così egli divenne mio superiore.
       All'aspetto lo si prendeva per un professore, con quella faccia barbuta, e quegli occhiali sul naso impiastricciato di tabacco. Aveva spirito e lingua pronta, grande ammirazione pel bel sesso, grande inclinazione pel buon vino. Nutriva da buon tedesco una singolare antipatia per la razza ungherese; ma, ad eccezione della sua, non stimava gran fatto neppure le altre, dandolo a divedere con il fare ironico ed altezzoso, con il dirne corna non senza sale. Sul nostro grande movimento nazionale del mezzogiorno, e su la condotta de' volontari italiani pronunciava giudizi acuti, ma non scevri alle volte di prevenzione. Alla divisione però fece molto bene.
       Una modificazione, che ci toccò assai più da vicino e riuscì per noi penosissima, venne a noi da quella stessa spedizione Pianciani, quando ci portò via lo Spangaro, andato al comando di una brigata in luogo di Giovanni Nicotera, dimissionario anche lui. Dimenticammo, facendo a Spangaro i nostri addii affettuosi, le impazienze pei molti atti di ufficio che ci obbligava a scrivere, e lo rimpiangemmo sempre sinceramente. Egli invece, reso padrone di sè, guidò arditamente la sua nuova brigata, cui fece fare buonissima figura.
       Al posto di capo dello stato maggiore della brigata venne destinato, in seguito ai buoni uffici dello stesso Spangaro, un intimo compagno suo dell'accademia, dell'esercito, dell'esilio: il tenente colonnello Alessandri; era nei fati nostri di venir comandati dagli amici di coloro che andavano via! L'Alessandri, ottimo ufficiale di stato maggiore, molto si raccomandava per coltura tecnica speciale: ma perciò sordo, serbava costantemente una diffidenza, che non si addiceva affatto al nostro ambiente; mancava poi di quello slancio, che tanto sarebbe stato necessario per compensare la calma del nostro brigadiere. Con la nomina dell'Alessandri ebbero fine i cambiamenti nel personale superiore del nostro ufficio, dannosi sempre alle truppe quando si fanno durante la campagna.

       Sul continente intanto gl'indugi precipitavano. Napoli, si diceva, era in ebollizione: le Calabrie ci stendevano la mano. Garibaldi, impaziente, decise di passare il mare malgrado le raccomandazioni del re di Piemonte e le minacce della diplomazia.
       La notte dell'8 agosto il Musolino doveva impadronirsi di sorpresa del forte Cavallo, sulla costa calabrese, e di là incrociare i fuochi con le batterie del Faro, così da mantener libera una zona di mare fra le due sponde dello stretto. E appunto perchè destinati per i primi, insieme con la brigata Cosenz e Sacchi, alla traversata dello stretto, noi, lietissimi, uscimmo da Messina il mattino del 9.
       Ma, com'è noto, l'impresa del Musolino falli, e con essa rubarono le nostre più care speranze!
       Garibaldi, mutato disegno, pianta d'un tratto i nostri reggimenti in riva al Faro, e si dilegua. Come a Marsala, egli ricompare improvviso l'alba del 20, un'altra volta col Bixio, a Melito; e il 21, come a Palermo, entra improvviso un'altra volta a viva forza, in Reggio di Calabria. Ne era tempo: già da quattro giorni la Basilicata, prima fra le province meridionali del continente, aveva, in Potenza, proclamata con le armi la insurrezione. La Basilicata! chi sapeva nulla, allora, di questo nostro angolo di terra, che serba tuttora l'antico suo nome greco-bisantino?
       Noi, delusi nella maggiore delle nostre aspettative, restammo accampati nell'arida e ghiaiosa fiumana della Guardia, coi battaglioni siciliani del Laporta, in una posizione strategicamente opportuna, perché teneva sempre in sospetto i borbonici, che si volesse di nuovo azzardare il passaggio in quel punto, ma nociva alla compagine delle truppe, perché solleticava i volontari, cui l'inerzia è fatale, a sbandarsi, e cercare refrigerio nella città poco lontana.
       Usammo severità, e per rafforzar la disciplina simulammo un esempio di rigore. Colto un soldato a rubare, lo si fece condannare dal consiglio alla fucilazione, lo si menò con tutto l’apparato scenico, dinanzi alle truppe schierate, e non gli venne annunziata la grazia che all'ultimo istante, quando aveva già gli occhi bendati. Ma non mi pare che la commedia ottenesse un grande Effetto!
       Meglio provvide il ripigliar di nuovo la vita attiva, allorché anche noi finalmente, il 23 e il 24 agosto, traversammo lo stretto, e, appena su la terraferma, impegnammo con le altre brigate quella corsa vertiginosa, in cui si faceva a gara per raggiungere il dittatore, che precedeva tutti, e per aver l'onore d'ingaggiare il fuoco con i regi, che battevano in ritirata.
       "Ammoninni, picciotti!", era il motto di quei giorni, "Andiamo, figliuoli!”: e via a marce forzate, mal seguiti dalla intendenza, e però soffrendo la fame, non curando di seminar mezza la brigata per la strada, riposando, se riposo era mai una breve sosta affannosa, accampati all'aria aperta, non mai sospettando che i pochi arrivati potessero non bastar sempre a vincere. Altro che i placidi e festosi accoglimenti di Sicilia! Le borgate, lungo la via consolare, già percorsa da' borbonici prima, poi dai garibaldini, e già prive degli uomini atti alle armi, reclutati man mano dallo Stocco, avevano ben altro a fare che venirci incontro ed acclamarci. Eppure la gioia di calcare il suolo della penisola ci faceva trovar facili i disagi, ameno il luogo, allegre e festanti le popolazioni.
       La palma era per toccare ai reggimenti del Cosenz, che insieme con il Turr correvano d'innanzi a tutti noi. Già essi, il 30 agosto, si disponevano ad attaccare Soveria Manelli, quando il generale Ghio, vedendo da un lato sopraggiungere i distaccamenti del Sacchi, e dall'altro le alture di fronte coronarsi dei terrazzani dello Stocco, si arrese senza colpo ferire, congedando i suoi, e consegnando a noi armi e cavalli. I soldati, rosi dalla corruzione, tornati a casa, presto si diedero alla macchia, iniziando, quelle masnade di briganti, che poi a lungo scorrazzarono per tutto l'Appennino meridionale dalla Majella alla Sila. Le armi e con esse i bagagli, andarono prontamente a ruba. I cavalli, infine, quelli almeno che si riescì a salvare dalla rapina, servirono al Figgelmesy per equipaggiare, una buona volta, i suoi usseri d'Ungheria.
       Quei legionari, in parte ungheresi, ma in parte italiani e specialmente tedeschi dal cognome ungherizzato (vergogna della gran patria alemanna, che metteva in furore il Rustow), provenivano, com'essi pretendevano, dai reggimenti di usseri austriaci. Con queste lustre pel capo, gli stivaloni dai risonanti sproni ai piedi, le immense sciabole al fianco, dover marciare nella polvere, o nel fango come i più modesti fantaccini, perché non era mai stato possibile raccozzar loro i quadrupedi necessari! via, non avevano tutti i torti di sentirsi umiliati. Quando, grazie alla resa di Soveria Manelli, essi furono in grado d'inforcar gli arcioni de' cavalli borbonici, bisognava vederli! pareva volessero sfidare il mondo. E prestarono, veramente, nel resto della campagna, servigi preziosi.
       Lo sbandamento delle truppe del Ghìo, avendo allontanata ogni probabilità di conflitto nelle Calabrie, ci permise di ricomporci e di raccogliere i compagni rimasti addietro, fermandoci un paio di giorni a Catanzaro, ove trovammo ospitalità larga e generosa, e de' cui abitanti portammo opinione di gente salda e seria. Non so se fosse effetto d'immaginazione, ma persino il paesaggio e il genere di coltivazione dei campi ci richiamavano alla memoria le nostre prealpi, rendendoci grata la vista di quei luoghi. Pose il colmo alla nostra gioia l'incontro con la prima brigata della 15a divisione, la brigata Bixio, la nostra gemella, formata dell'altra metà dei Mille, e per la comune origine a noi stretta da vincoli intimissimi. Rivedendola per la prima volta dopo Palermo, e dopo i suoi fasti di Reggio, ci scambiammo un mondo di feste. Per un momento sperammo anche di procedere quind'innanzi riuniti, ma il comune desiderio non potè avverarsi.

       Il riposo di Catanzaro giungeva però troppo tardi per me, estenuato dalle fatiche durate nelle prime marce sul continente. Passando lo Stretto si eran dovuti lasciare i cavalli sotto la guida del Frigerio a Torre del Faro, in attesa di altro mezzo di trasporto. Il pontone aveva ritardato: l'imbarco era stato difficile; la corrente violentissima, sopravvenuta improvvisa mentre si aspettava il rimorchiatore, rompendo le gomene e strappando le àncore, per un pelo non aveva mandato tutto a picco. In Calabria erano mancati i foraggi, solamente l'energia del Frigerio aveva potuto farci riavere finalmente i nostri cavalli pel 28 al Piano dei Sorrisi, desolata e solitaria contrada dell'Apennino, il cui nome ci pareva una vera derisione. Intanto, io avevo dovuto in que' giorni prestar servizio a piedi, ordinare i corpi nelle marce, stabilire gli accampamenti, provvedere ad ogni cosa in mezzo ad una ressa indescrivibile, fra proteste e recriminazioni che mai risuonarono più alte. Il veleno della malaria mi si era infiltrato nel sangue durante le notti passate al sereno, e fui vinto. Colto da febbre perniciosa, al primo arrivo in Cosenza la mattina del 7 settembre, il giorno appunto in cui Garibaldi entrava in Napoli, mi si dovè di peso levar di sella per mettermi in letto, affidato alle cure dei buoni Cosentini.
       I miei commilitoni, il giorno dopo, rivolto un saluto reverente alle tombe dei fratelli Bandiera fucilati in Cosenza nel 1844, proseguirono alla volta di Paola, donde, sui vapori a loro destinati, sarebbero senza intoppi pervenuti a Napoli, se la sorte non avesse loro gettato innanzi il generale Bixio, con quel suo carattere indiavolato. Il Bixio aveva già, su la marina di Paola, commesso un atto di prepotenza, mandando il suo maggiore, Menotti Garibaldi, a impossessarsi de' piroscafi assegnati alle truppe del Medici, e senz'altro imbarcando su essi la sua brigata. Siffatta esorbitanza aveva provocato da parte del Medici una vera esplosione di risentimento, e ne era seguito, fra' due comandanti, un diverbio vivacissimo.
       Composta, non so poi come, la lite col Medici, Bixio fece allora intimare agli ufficiali del Governolo, che aveva già a bordo la mia brigata, di prender su anche le sue compagnie. Il comandante D'Aste gli rimandò Il guardiamarina Puliga, quello stesso che presta ancora tanto onoratamente servigio come capitano di vascello; e questi, presentatosi al Bixio, gli spiegò come sul Governolo non ci fosse più posto.
       "Lo dice lei che non c’è più post!” Rispose il Bixio adirato. "Giovanotto! lei ha molto da imparare”.
       E saltando già nella imbarcazione e aprendosi la strada a viva forza nel fitto delle lance, che facevano ressa intorno al piroscafo, cariche degli ultimi soldati della compagnia estera, balzò tanto precipitosamente su la scaletta, che buttò a mare un bavarese. Giunto poi su la tolda, si diede a gridare di far largo ai suoi; e aggiungendo l'azione alle parole, abbrancata una carabina per la canna, la ruotava furiosamente, abbattendo senza remissione quanti toccava. Com'è naturale, a quella manovra la calca, dando indietro, formò il vuoto intorno al Bixio, che rivolgendosi al Puliga attonito: "Ecco come si fa; impari, chè ne ha bisogno!” gli disse. Ma non aveva finito di pronunciare la dura apostrofe, che que' tedeschi, rimasti dapprima sbalorditi, si scossero, montarono sulle furie, afferrarono il Bixio per le braccia e per le gambe, e già lo dondolavano per scaraventarlo oltrebordo, quando a tempo intervennero l'Eber, il Frigerio, e il Wolf. Il bavarese caduto in acqua, e subito ripescato, fu poi dal Bixio, nel seguito della campagna, ricercato e trattato con tanta amorevolezza che finì per diventare un suo famigliare. Singolare natura d'uomo!
       La mia brigata proseguì senz'altri incidenti; giunse l'11 a Napoli, e due giorni dopo al campo presso Capua, ove prese parte attiva ai combattimenti del 19 settembre a Sant'Angelo, e del 21 a Cajazzo.
       E io intanto giacevo inchiodato sul mio letto in un vasto palazzo deserto, su la piazza principale, imprecando alla sorte. Il mio ospite signor Cosentini era con la famiglia in villeggiatura, ma non mancava di recarsi ogni mattina in città per visitarmi e procacciarmi quanto m'era necessario. I medici del paese mi curarono abilmente, confessandomi poi, che per tre giorni avevano disperato della mia vita. Non so dire con quanto affetto fui assistito dalla mia ordinanza, un picciotto meschinello, l'unico un po' meno rozzo, che io riescii a trovare, e che presi con me a Palermo.
       A Milano lo avrebbero definito "una macchietta “. Aveva gli occhi a sghembo., una folta zazzera ricciuta, e dei modi così ridicoli, imparati nel mestiere di barbitonsore, che formavano la delizia de' subalterni dello stato maggiore. Quando salutava militarmente, sgranando gli occhi e portando la mano colle dita aperte a lato della testa chinata su l'omero, io dovevo sempre subire i complimenti ironici dei miei commilitoni. Per il bel sesso aveva una tendenza irresistibile. Appena si arrivava in un paesuccio, egli si appiccicava alle gonnelle di una femmina, che chiamava "comare", nelle cui buone grazie s'insinuava con mille vezzi e moine. Mi faceva arrabbiare, ma si mostrava poi tanto affezionato, che presi anch'io a volergli bene. Anzi i miei amici pretendevano, che fossi con lui troppo indulgente; ciò che forse era anche vero.
       Subito che cessò il delirio della febbre, all'insaputa di tutti, ordinai al mio Spiridione di procurare due mule (tutti i cavalli e i carri della brigata avevano proseguito per la strada consolare); salutai l'ospite e i medici solo all'ultimo istante, per timore frapponessero ostacolo alla partenza, e nonostante le loro proteste, sul fare della notte, mi avviai verso San Fili: donde, trascorse le ore calde, ripartii la sera per Paola, nella cui locandaccia passai una settimana di noia mortale, insieme con parecchi compagni di sventura, aspettando il vapore che mi doveva portare a Napoli.
       Mi fermai nella baraonda di Napoli solo il tempo necessario per ossequiare il colonnello Santa Rosa, mandato dal Governo di Torino, con un distaccamento dell'esercito, a sorvegliare l'andamento delle cose e prestar soccorso, occorrendo, a Garibaldi; e finalmente, agli ultimi di settembre, raggiunsi il mio corpo a Caserta, e m'installai anch'io nella reggia, in uno di quegli ammezzati a sinistra dell'ingresso, nell'appartamento dell'arciduchessa Sofia, il quale fu residenza del nostro stato maggiore fino al licenziamento dell'esercito meridionale.
       Come facilmente si può immaginare, non ero di buon animo. Mi coceva di aver mancato il 19 e il 21 a que' fatti d'arme, che compensano delle grandi noie della vigilia, e rendono il frutto delle lunghe fatiche: tanto più perchè si vociferava prossimo l'arrivo dell'esercito con il Cialdini, probabile il nostro ritiro in seconda linea, fors'anco il nostro discioglimento. Per buona sorte, prima che si fossero avverati così brutti pronostici, mi fu dato assistere e pigliar parte alla battaglia del Volturno, con cui ebbe fine la campagna del 1860, l'anno memorabile, che dopo quello di Roma, al dir del Carducci, è il più grande della storia italiana.

       A noi toccava il turno della riserva. Dopo il combattimento del 21 settembre la brigata era passata a Caserta, ove ogni giorno, prima dell’alba, si schierava su la spianata per essere pronta, in caso di attacco, ad accorrere sui punti più minacciati. Oramai l'attesa si prolungava tanto, che già s'intiepidivano le speranze di avere ancora a combattere una giornata campale, quando al mattino del 1° ottobre, il persistere del cannoneggiamento verso Capua ci avverti si trattasse di qualcosa più che delle solite scaramucce, e ci pose su l'avviso. Presto altri sintomi confermarono la importanza dell'azione: il propagarsi del rimbombo a un gran tratto dell'orizzonte; l'apparire di Sirtori, capo dello stato maggiore generale, sempre rigido, tacito, ascetico; la presenza di Turr, con il suo seguito numeroso, che si aggirava in mezzo alle file, volgendo a tutti una parola di fiducia. Incominciarono a incrociarsi i messaggi e le staffette, e a distaccarsi in fretta i battaglioni, secondo le richieste dei comandanti impegnati al fuoco, non senza impazienza da parte di Turr, che voleva serbar compatta la divisione per dare con essa, a tempo debito, il colpo decisivo. Le notizie dal campo di battaglia arrivavano una dopo l'altra, ora liete ora tristi, spesso contradittorie; la prima non era ancora propalata, che già si aspettava con ansia una seconda. Tacevamo irrequieti; appena si arrischiava un commento sommesso.
       Finalmente, dopo il mezzodì, un dispaccio di Garibaldi chiamò a Santa Maria, come Turr aveva suggerito, tutta la riserva. Turr e Sirtori, con la brigata Milano, ci precedettero in un treno della ferrovia. La brigata Eber, al grido di "Viva Garibaldi!” accesa dal racconto dei pericolosi corsi dal dittatore a Sant'Angelo, mosse al passo di carica dietro al Rustow. Si faceva tardi; Turr spiccava messaggi su messaggi per affrettar la marcia: e noi avremmo voluto aver l'ali ai piedi. Poco prima di Santa Maria spronai il cavallo, per andare ad avvertirlo del nostro arrivo. Un bel momento!
       I volontari, che avevano combattuto fino allora, rientravano stanchi in città, riportando i feriti. Incontrai mio cugino, Giulio Valerio, imberbe giovinetto, che ritornava affranto, ma sano e salvo, dopo lunghe ore di fuoco: mi congratulai in fretta con lui; "e ora a me", gli dissi allegramente, proseguendo di trotto verso l'arco di Porta Capuana.
       Le palle borboniche penetravano fin dentro Santa Maria, schiacciandosi contro i muri delle case. Due pezzi di artiglieria postati al di fuori, dietro una barricata, tenevano, oramai soli, spazzata la via del nemico, che minacciava irrompere. L’ufficiale garibaldino, che li comandava, un De Vecchi di Gavirate, salutandomi mi disse: "Siete proprio arrivati in tempo, chè la faccenda incominciava a diventar seria; per fortuna abbiamo avuto questi bravi giovani, che, come vedi, fanno miracoli”. E mi additò una diecina di artiglieri piemontesi, i quali, venuti da Napoli, avevano a noi offerta l'opera loro, e maneggiavano i pezzi con abilità pari all'ardore da cui erano animati.
        Appena usciti in rasa campagna, Eber ed Alessandri, con il reggimento Cossovich e la compagnia estera, volsero a man diritta su lo stradale fra Santa Maria e Sant'Angelo. Il colonnello Bassini (e io al fianco), con il suo reggimento e i bersaglieri di Tanara, ottocento uomini circa, guidati da Turr in persona, volgemmo a sinistra, spiegandoci rapidamente in battaglia verso l'argine della ferrovia. Si riaprì subito il fuoco, avanzando man mano fra i pioppi a quinconce, inghirlandati dai festoni delle viti; e cacciando d'innanzi a noi la linea de' tiratori nemici, si giunse in breve al chiostro dei cappuccini, che s'erge solitario nella campagna.
       A un tratto, dal lato del cimitero opposto a noi, si leva un rumore sordo, che cresce via via in pochi istanti: e in mezzo a una nuvola di polvere, ecco in vista due squadroni, che ci si precipitano su la nostra sinistra con le lancie in resta e le sciabole protese lungo le teste dei cavalli. I picciotti non si turbarono; nei pochi minuti, vorrei dire ne' pochi attimi, che ci rimasero per metterci in grado di sostenere quell'urto, si aggrupparono da vecchi soldati intorno ai loro ufficiali; e quando il turbine li avviluppò, così bene essi si servirono delle baionette, e così a proposito spararono, che i regi, disordinati e confusi, volsero indietro a fuga precipitosa, seminando il terreno di cavalli rovesciati, di dragoni e di lanceri feriti.
       Davanti a me giaceva al suolo un capitano, preso colla gamba sotto il corpo del suo stallone, che era lì inciampato in un gruppo dei suoi. Afferrate le briglie, aiutai il cavallo a rialzarsi, e liberai il capitano; ma essendomi rivolto ai miei picciotti per trattenerli dall'infierire sui caduti, che mi chiedevano protezione e soccorso, lasciai andar la mano, e lo stallone mi scappò subito via. Peccato! era un bel morello, di razza pugliese, che volentieri avrei condotto meco, trofeo di guerra. Il capitano, prigioniero in Napoli, più volte mi mandò in seguito il sincero saluto della sua riconoscenza.
       In quella circostanza mi constò il sangue freddo del Bezzi, che ci aveva allora allora recato un ordine di Turr. Fermo in sella, appoggiato al muro del chiostro, lo vidi aspettar la valanga nemica, solo, senza scomporsi, senza batter le ciglia. Nessuno di quei cavalieri uscì dai ranghi per investirlo, nessuno osò attaccarlo; ed egli, passato il turbine, riprese la via come se nulla fosse stato.
       Ritiratisi sotto i forti di Capua, i borbonici più non si mossero, e noi pernottammo sul campo, paghi del nostro successo, ma ignari di quanto era avvenuto intorno a noi. E in quella sospensione d'animo dovevamo poi restare per non breve ora; chè se fummo presto rassicurati su l'esito generale della giornata, ci volle del tempo prima di raccapezzarci su tutto l'andamento della battaglia, e sapere minutamente della difesa di Maddaloni, della morte di Bronzetti, della condotta eroica del nostro Spangaro, e dei tanti altri episodi de' quali l'ordine del giorno di Garibaldi ci aveva dato un cenno sommario. Del combattimento del 2 ottobre avvenuto a Caserta fra le truppe borboniche del general Perrone e i garibaldini coadiuvati dai bersaglieri piemontesi, non udimmo addirittura a parlare che più tardi, quando fummo a un tempo informati, con grande nostra sorpresa, del pericolo corso dai nostri bagagli, che erano nella reggia, di diventar preda e bottino dei nemici.
       E qui mi giova una volta per tutte ricordare che se adopero le parole piemontesi per indicare le truppe del re Vittorio Emanuele, e regi o anche napoletani per quelle del Borbone, lo faccio perchè allora si usavano correntemente fra noi, e ne ricordi di quell'epoca, trascritti quasi testualmente dalle mie lettere, le lascio senza scrupolo di sorta.
       Destinati nuovamente a rimanere in prima linea, installammo l'ufficio a Santa Maria in casa Teti, mentre i picciotti davan prova agli avamposti di saldezza e di disciplina, sopportando al sereno, senza cappotti e senza tende, le fredde e piovose notti dell'ottobre, e mostrando la maggiore correttezza nel disimpegno delle operazioni militari in faccia al nemico, perfino nel ricevere, con le formalità di prammatica, i parlamentari, che spesso ci si presentavano per lo scambio dei prigionieri o per l’invio dei dispacci.
       Al solito, perchè ai primi del mese, ricomparvero a Santa Maria i due amici polacchi, i quali, questa volta s'intrattennero lungamente a raccontarci le loro prodezze durante la battaglia, dicendoci di aver percorso in una carrozza a due cavalli le linee dei combattenti, e riscaldandosi e volendo riscaldare anche noi: "de notre voiture nous avons tout vu:.... le combat était superbe....”; e via di questo passo; e intanto, intascavano il gruzzolo di monete d'oro della paga. Il Frigerio ed io per molti e molti anni non potevamo rammentarli nell'atteggiamento di quel giorno, senza riderne di gran cuore.
       Il 14, surrogati da altri reggimenti, rientrammo a Caserta, e nell'appartamento della reggia riprendemmo le nostre antiche abitudini, tranquille e metodiche. L’ufficio richiedeva molto lavoro; ma si profittava di ogni ritaglio di tempo per galoppare nel parco, per visitar gli amici, per fare una corsa a Napoli. Una volta, informati che si doveva provare una nuova batteria, ci spingemmo il Gatti ed io, fino a Sant'Angelo. Mentre però giudicavamo dell'effetto del tiro sui forti di Capua, il nemico incominciò a rispondere con tanta energia, che noi ci vedemmo a mal partito. Eravamo in divisa e quindi non potevamo ritirarci; ci dava noia, d'altra parte, di pigliarci gratuitamente una palla. Restammo lassù, fermi al posto, fin tanto che il fuoco scemò di forza.
       A Napoli ci recavamo di rado e per poco. Prima di tutto ci mancava il tempo; poi, la violenta agitazione politica, l'impeto delle passioni a favore o contro l'annessione immediata, le mene dei partiti, rappresentati dal Pallavicino, dal Depretis, dal Lafarina per un verso, dal Mazzini, dal Bertani, dal Crispi per l'altro, non andavano troppo a genio di noi uomini d'arme. Quelle eterne dimostrazioni in tutti i seni, sempre accompagnate dal "viva l'Italia una!", che si gridava a squarciagola con l'indice della man diritta levato in alto, c’infastidivano solennemente. E sopratutto mal potevamo sopportare in pace quella vera falange di pseudo garibaldini, nelle fogge più strane del mondo, dalla facondia petulante, i quali ingombravano da mattina a sera tutti i luoghi di ritrovo. Si raccontava finanche di un tale, che non credendo abbastanza viva e smagliante l'uniforme garibaldina, aveva scambiata la camicia rossa con la divisa del reggimento Savoia Cavalleria, recentemente arrivato in Napoli, e passeggiava per via Toledo, superbo dell'elmo e delle spalline, affatto noncurante dello stupore degli ufficiali, che non sapevano capacitarsi di questo nuovo camerata ad essi ignoto.
       Quando venivamo alla capitale per obbligo di servizio, riparavamo alla Foresteria, quartier generale di Turr, comandante la piazza, sicuri di un'accoglienza larga, ed amichevole. E subito ci rifugiavamo di nuovo nella quiete di Caserta ove pure non faceva difetto la gente torbida e spavalda, immancabile in tanto numero di volontari, ma in proporzioni di gran lunga minori, e facilmente tenuta in rispetto.
       Fortunatamente non s'interruppero mai le occupazioni militari; così scongiurammo il più grande nemico dei volontari, che è l'ozio. Il 16 ottobre Garibaldi passò in rivista la divisione, ridestando in noi le speranze di nuove imprese con l'ordine di apparecchiarci alla partenza. Il 19 impiantammo a San Leucio un servizio di guardia, per turno di battaglione. Finalmente il 25, guidati dal Rustow, che surrogava il Turr impegnato a Napoli, ci portammo a Sant'Angelo, insieme con altre brigate e con la legione inglese, per seguire il dittatore nella dimostrazione, che egli divisava condurre su la sponda destra del Volturno.
       Lieti di tornare in campo sotto il comando di Garibaldi, avevamo il mattino, per tempo, varcato il fiume presso Formicola, a monte di Capua, sopra un ponte di tavole, che mal si reggeva alla prova per la inesperienza del nostro genio, quando il triste caso, che toccò al Bixio, venne a colpirci come un cattivo augurio. Marciavamo per una viottola incassata e declive, allorchè il generale volendo raggiungere i suoi che ci precedevano, ci volò d'innanzi a trotto così serrato, che ci fece dire aver egli voglia di fiaccarsi il collo. E infatti, pochi minuti dopo, il cavallo gli sdrucciolava di quarto, spezzandogli l'osso della gamba. Allora si vide quanto gli fossero devoti i suoi ufficiali. Non sapevano addirittura darsi pace: e commossi gli si affollavano intorno, mentre, adagiato in un praticello, il suo medico, maggior Domenico Gamba, lo fasciava, ed egli muto vinceva le sofferenze, e freddo si rassegnava alla sorte con una calma, che meravigliava in un uomo così impaziente e così iracondo. Me gli avvicinai anch'io, e fui anch'io colpito dal contrasto di quell'ora. Fu riportato via dall'ambulanza, il colonnello Dezza lo surrogò nel comando della brigata.
       La colonna si fermò a bivaccare a Zuni; lo stato maggiore di Eber riparò nella masseria Traversa. Ma la notte non fu buona, perchè le cattive condizioni del ponte avevano ritardato l'arrivo de' furgoni dell'intendenza, e quindi mancarono le provvigioni, e la vicinanza della legione inglese non permise a nessuno di riposare un solo istante.
       Quei legionari, equipaggiati e inviati a Napoli dai molti ammiratori che Garibaldi aveva nel Regno Unito, sgraziatamente erano stati reclutati tra la feccia di Londra. Rubavano a man salva, maltrattavano gli abitanti, si ubriacavano come bruti, altercavano giorno e notte, suscitando infinite recriminazioni; e spesso, a colmo di guai, scambiavano noi per i nemici, e ci sparavano addosso. Quella legione, offerta con tanto cuore all'Italia, dalla nazione che più sinceramente l'amava, divenne per Garibaldi il più grave imbarazzo durante la campagna.
       Il classico incontro del 26 ottobre fra Garibaldi e Vittorio Emanuele accadde a poca distanza da noi; ma noi non vi assistemmo. In compenso il giorno dopo c'imbattemmo, presso Sant'Agata, nei reggimenti di Cialdini. Non dirò che vi sia stata grande effusione reciproca, quale si poteva attendere da soldati dello stesso paese, che si erano bravamente battuti per la stessa causa; ma neppure vi fu affettazione di freddezza. Io scambiai con gli antichi commilitoni, che scorsi tra le file dei nuovi arrivati (rammento Riccardo Gavazzi di Milano, soldato di Palestro, e mio compagno alla scuola di Novara), sinceri auguri ed affettuose congratulazioni.
       Accarezzando l'idea di batterci sotto gli occhi dei fratelli d'arme dell'esercito regolare, eseguimmo il 28 una evoluzione verso Capua per indurre i borbonici ad attaccarci; ma invano: e il 29 tornammo a Caserta.

       La campagna delle Due Sicilie era finita, per noi; la nostra missione compiuta. Spangaro ed altri sostennero ancora sotto Capua qualche lieve combattimento, ma la direzione dell’assedio passò nelle mani del generale Della Rocca, cui la piazza si arrese il 2 dicembre. La nostra brigata eseguiva l'ultimo suo atto militare, mandando a Napoli un distaccamento, per il servizio d'onore, durante la presentazione delle bandiere alla legione ungherese e la distribuzione delle medaglie dei Mille accordate dal municipio di Palermo. Geniali cerimonie, di cui mi è rimasto vivo nella memoria, pel suo carattere di affettuosa spontaneità, questo bizzarro episodio.
       Nel palazzo della Foresteria, Garibaldi, affascinante di entusiasmo e di bellezza, era in mezzo a un circolo di dame, di ufficiali, di dignitari, che lo festeggiavano, quando una leggiadra fanciulla, vinta da non so quale sentimento di simpatia o di ammirazione, fattasi avanti, gli buttò le braccia al collo, e lo baciò sul volto.
       Egli accettò l'omaggio con palese commozione, e i presenti trovaron l'atto così naturale, che non se ne meravigliarono. Mi spiace solo di aver dimenticato il nome della protagonista.
       L'avere le nostre compagnie aquartierate ai Granili, mentre noi alloggiavamo alla riviera di Ghiaia nel palazzo del conte De La Tour, rendeva la trasmissione degli ordini, per l'enorme distanza, assai malagevole, e la loro esecuzione, anche a causa delle condizioni politiche di que' giorni, molto difficile. Fummo quindi ben contenti di rientrare con il distaccamento a Caserta il mattino del 5 novembre, lieti di partecipare alla rivista, che re Vittorio Emanuele doveva passare quel giorno stesso all'esercito meridionale.
       Il Re, invece, non venne, e fu male. La sua presenza avrebbe prodotto un effetto eccellente, mentre la mancanza ne produsse uno pessimo. Quanti malintesi si sarebbero evitati, se fra Vittorio Emanuele e Garibaldi non si fosse intromessa tanta gente vana e mediocre!
       Il Re, accompagnato da Garibaldi, entrava in Napoli il 7; Garibaldi partiva il 9 per Caprera, e lo scioglimento dei corpi dei volontari si accelerava sempre più. Eber, affidato il comando della brigata al colonnello Bassini, se ne andava con la stessa freddezza con cui ci aveva guidati, senza dimostrazioni nè da parte sua nè da parte nostra. Anni dopo sapemmo, che tornato in patria quando l'Ungheria e l'Austria si furono rappacificate, egli era stato eletto membro di quel Parlamento; e non fu senza rimpianto alla memoria di lui che udimmo più tardi della sua morte dolorosamente tragica.
       Gli ufficiali ci abbandonavano alla spicciolata, di mano in mano che ricevevano le dimissioni, o erano destinati ai depositi dell'esercito. Soltanto noi dello stato maggiore restavamo in ufficio sino ai primi del gennaio per redigere i congedi, e sistemare l'amministrazione.
       Non uscivamo quasi più dà Caserta. Il soggiorno di Napoli diventava uggioso più che mai, in causa del maledetto dualismo fra l'esercito meridionale e il regolare, che si era aggiunto a tanti altri contrasti disgustosi. L'esaltazione partigiana aveva rotto ogni misura. Se da un lato i garibaldini, specialmente quelli che non avevan fatto nulla, inveivano contro li governo del re, che importava leggi e regolamenti moderatori, dall’altro si ostentava senza pudore l'ingratitudine e l'oblio. Credendo di fare atto di sottomissione al nuovo ordine di cose, si udivano coloro, che poco prima si prostravano a Garibaldi, rinnegarlo e denigrarlo, quasi egli non avesse operato che a suo profitto e a danno della patria....
       Io venivo a Napoli solo per abbracciare i parenti e gli amici, arrivati dall'alta Italia; per intrattenermi con Benedetto Cairoli, cui Bertani aveva bensì conservata la gamba, ma Dio sa come, a prezzo di quali e quante sofferenze; e infine per stringere la mano ai commilitoni del mio vecchio reggimento, quel di San Martino, con i quali avevo mantenuto corrispondenza, se non attiva, non interrotta. Sempre che ci si presentava l'occasione, ci ricercavamo da buoni camerati; ma guai se si toccava il tasto della politica! ognuno allora scattava, appassionandoci di Garibaldi, de' suoi ministri, dell'esercito meridionale, dell'annessione immediata, del programma nazionale non compiuto; e nella disputa ci Si accalorava terribilmente. Il conte Rinaldo Taverna, mio antico superiore nei granatieri, mi ricordava non è molto una passeggiata che si fece insieme a Chiaia, ne' viali della Villa, durante la quale la discussione si animò e durò a lungo, lasciandoci però amici come prima.
       Il cumulo dei volontari disoccupati, impazienti di andar via, dava luogo anche in Caserta a incidenti incresciosi. La legione inglese, cui, perchè sue, non s'eran volute togliere le armi, continuava imperterrita le sue imprese, finchè, dopo una baruffa indiavolata con i nostri già disarmati, essa venne relegata a Salerno. Nacquero ancora frequenti risse, non senza vittime d'ambo le parti, fra borghesi muniti di pugnali e garibaldini provvisti di coltelli e di nodosi bastoni. E questi fatti, ingigantiti dalla fama nel breve cammino che separa Caserta da Napoli, diventarono per gli uni proteste feroci di reazione, per gli altri prove non dubbie della tracotanza garibaldina. In realtà la politica non c'entrava per nulla.
       Senza cotesti fastidi, noi avremmo goduto fin troppo il riposo di quei giorni, nei dorati appartamenti della reggia, con un parco stupendo a nostra disposizione, e a noi intorno una compagnia genialissima. Il giorno, sbrigate le faccende dell'ufficio, ci scambiavamo visite con i commilitoni di Medici, di Bixio, acquartierati ne' paesi vicini. La sera ci raccoglievamo in crocchio giocondo, a dissertar di ogni sorta di argomenti. Vincenzo Broglio, il giornalista milanese, spacciava avventure degne del barone di Munchhausen; Giacomo Poma, il poeta, le traduceva in versi eroicomici: e ognuno di noi inforcava la propria cavallina, a briglia sciolta per i campi della fantasia, così ricchi di castelli in aria.
       Io mi recavo più sovente ad Aversa presso il Simonetta, brigadiere del Medici; e di lui mi è caro evocare qui, sia pure di volo, la simpatica figura, richiamando per poco i fatti principali della vita, che egli dedicò tutta alla patria.
        Il Simonetta incominciò ad agitarsi contro l'Austria, nel 1832, quand'era studente a Pavia, e venne perciò imprigionato il 1834, e trattenuto per sette mesi (3 giugno a 20 dicembre) nelle carceri di Santa Margherita di Milano. Nonostante l’ammonimento, egli non tralasciò di cospirare; e per la seconda volta, ai primi albori delle nuove speranze, l'Austria tentò arrestarlo nel 1847, volendolo confinare a Linz insieme con Ignazio Prinetti, il marchese Rosales e Manfredo Camperio. Ma egli. calatosi dalla finestra di sua casa, con l'aiuto del domestico fidato, mentre il commissario Bolza e gli sbirri bussavano alla porta, fuggì per miracolo all'agguato, e riparò in Piemonte. Raccolta in fretta, durante le cinque giornate, una schiera di armati, accorse a Milano. Poi fece nei carabinieri milanesi, a fianco dell'esercito piemontese, la campagna fin sotto Peschiera. Rimasto quindi a Torino dopo la battaglia di Novara, rappresentò al Parlamento, nella II, III e IV legislatura, il collegio di Intra, sedendo accanto al Depretis, al Plezza, al Lyons, al Mellana. Dal 1859 innanzi il suo nome appartiene alla storia, e io non starò qui a ripetere quanto essa ha già scritto di lui.
       Simonetta era il tipo del cittadino soldato. Poco ei curava la forma, ma molto chiedeva alla sostanza. Le sue guide, che lo adoravano, raccontano ancora come un giorno, il 1859, non trovando pronto sul labbro il comando, gridasse: “Insomma vegnimm adree” (venitemi dietro), e li conducesse dritto al nemico, sempre audacemente innanzi a tutti.
       Il suo coraggio passava in proverbio. I suoi ufficiali, dopo il primo ottobre, lo pretendevano fatato, tanto pareva loro strano, che fosse uscito incolume dai pericoli, cui si espose. Il suo talismano erano le immagini dei figlioletti, che egli, prima di buttarsi nella mischia, baciava furtivamente, quale invocazione suprema.
       Simonetta aveva per aiutante un nipote, Carlo Pedrali, che degnamente seguiva le orme di lui. Fuggito dalla casa paterna per arruolarsi nella brigata Regina, a sedici anni aveva combattuto valorosamente a Palestro. In Sicilia si era guadagnato al fuoco il grado di ufficiale. Rimasto poi nell'esercito nazionale, egli aveva saputo conquistarsi le simpatie dei superiori, e avrebbe largamente mantenute le promesse date alla patria da giovinetto, se la morte non lo avesse rapito nel fiore degli anni.

       Appunto con Pedrali, con suo zio Camperio, con Rebuschini, che aveva fatto la campagna sotto Bixio, ed ora spesso soggiornava meco a Caserta, con Rosales e Campioni, progettammo nel dicembre una gita a Gaeta, per veder l'assedio, e salutare i parenti o gli amici. Allorchè una buona berlina di posta ci ebbe rapidamente portati a Mola di Gaeta, ognuno si mise alla ricerca dei suoi cari, ed io accompagnai il Rebuschini presso il fratello Emilio, ufficiale nel battaglione dei bersaglieri, confinato in fondo al sobborgo, a poche centinaia di metri dalla fortezza.
       Per arrivare laggiù al coperto dei tiri del nemico, ci convenne camminare attraverso le brecce aperte nei muri delle abitazioni, in mezzo ai rottami dei tetti, dei soffitti e dei pavimenti, ai frantumi di mobili d'ogni sorta, perfino ai cadaveri insepolti. Raggiunto il posto, trovammo i bersaglieri padroni assoluti del luogo, che se la spassavano fra le rovine come fossero a casa, portando via semplicemente il letto o la mensa quando una bomba veniva a disturbarli.
       Il maggiore del battaglione e gli ufficiali accolsero festosamente le due camice rosse, e c'imbandirono in un salotto dei meno avariati una lauta colazione; poi, con zelo e coscienza, ci fecero gli onori dei loro avamposti, guidandoci lungo tutta la linea delle sentinelle, stese in faccia ai bastioni, e riparate nei fossati o dietro le fascine, fermandosi ogni poco a raccontare un aneddoto, senza farci grazia del menomo particolare; e sempre all'aperto, sotto gli occhi dei soldati borbonici, che oziavano sugli spalti, tanto vicini da riconoscerne le fattezze, e che ci contemplavano indifferentemente. Uno di essi era anzi in una posizione così sconcia, che bisognò trattenere un bersagliere dall'inviargli con la carabina una lezione di buona creanza.
       Pare che per un tacito accordo, dopo un cannoneggiamento prolungato, o in certe ore del giorno, si osservasse una specie di tregua; non sapendo io spiegare diversamente perchè i cannonieri di Gaeta non si sieno allora dati il gusto di mandare a gambe per aria, con un colpo di mitraglia, una mezza dozzina di ufficiali dei bersaglieri, e le due camice rosse. Rebuschini ed io dovevamo naturalmente tener bordone alla rodomontata dei nostri anfitrioni, e ridere e scherzare con loro; ma non ci spiacque che la passeggiata avesse pure un fine.
       Nel pomeriggio ci recammo al campo d'assedio a rivedere Giulio Vigoni, tenente di artiglieria, Carlo Dall'Acqua ed altri amici, raccogliendo ovunque dimostrazioni di affetto e di simpatia.
       Tornando di notte a Caserta, fummo sorpresi, nel bosco che è in vicinanza di Sessa, da violenta burrasca. Un fulmine ci cadde allato e fece stramazzare i due primi dei sei cavalli della berlina, cagionando con l'improvviso arresto, nella più completa oscurità, e sotto la pioggia torrenziale, una confusione comicissima. Qualcuno, pigliando il fragore dello scoppio per una scarica di tromboni, cercava di sbarazzarsi dei mantelli inzuppati e di scovare le armi deposte in fondo alla carrozza, gridando "ai briganti!”; altri tentava di accendere le lanterne, e di aiutare, bestemmiando, i postiglioni, che si affannavano intorno agli animali caduti. Quando Dio volle, ritornata la calma, e staccati i due primi cavalli, si raggiunse Sessa, ove si trovò un ristoro desideratissimo.
       Il 7 gennaio del 1861,. avute le dimissioni, partii libero da Napoli, non senza rimpiangere i miei buoni picciotti di Sicilia.


Capitolo Quinto: Aspromonte (1862)

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