Il colonnello Cadolini era stato prescelto, sino dal principio della campagna, alla difesa dei passi della Valcamonica, e vi aveva già spedito il suo primo battaglione, comandato dal maggiore Vincenzo Caldesi, un antico e intemerato patriota, ma poco atto a guidare un corpo di truppa fra montagne a lui ignote. Mentre poi da Bergamo il Cadolini si preparava a risalire per quelle valli con gli altri tre battaglioni, era stato anch'egli sorpreso dall'ordine improvviso di recarsi a Lonato. Ma passato il pericolo di un attacco a Brescia, egli doveva subito far ritorno alla destinazione primitiva; e i suoi tre battaglioni, infatti, nella giornata del 29, andavano a Gorlago in ferrovia, proseguendo a piedi per Lovere.
II convoglio per il 2° bersaglieri, posto di recente sotto gli ordini del Cadolini, fu pronto per la sera del 29, e ci trasportò per la mattina del 30 pure a Gorlago, donde raggiungemmo i rossi a Lovere, dopo una breve sosta a Trescorre. Ripartimmo alle quattro pom. del 1° luglio, incalzati dalle esortazioni del colonnello, che temeva un assalto a Edolo dalle valli convergenti, e che quindi provvide perfino ad apparecchiarci a Breno tutti i carri che gli fu possibile raccogliere, su' quali, un' ora dopo la mezzanotte, si ammucchiarono i bersaglieri per essere deposti, all'alba del 2, sulla piazza di Edolo, “sballottati come tanti maiali condotti al macello”, per servirmi di una frase verista colta a volo durante il viaggio.
Mentre eravamo a Edolo, ripetuti messaggi avvisarono il Cadolini, che gli austriaci, di presidio a Ponte di Legno, ai piedi del Tonale, minacciavano di assalire il distaccamento de' nostri, composto del 1° battaglione del 4° reggimento, delle guardie nazionali, di due pezzi da montagna e di pochi doganieri, che sbarrava la vallata a Vezza. Cadolini ordina al nostro comandante di portarvi il battaglione di bersaglieri, e di mettersi a disposizione del maggiore del 4°, più vecchio in grado di lui. Partiamo di notte, sotto una dirottissima pioggia, che ci accompagna fino a Incudine, ove arriviamo il mattino del 3.
Castellini cercò subito del Caldesi, ma non trovò né lui né altri che gli indicasse i posti da occupare. Allora, non volendo lasciare le compagnie sotto la pioggia, e ritenendo che l'obiettivo suo fosse di concorrere alla difesa di Vezza, si decise a collocare provvisoriamente i bersaglieri in modo di poter sostenere la compagnia dei rossi di guardia nel villaggio. Ma per un sentimento di scrupolosa delicatezza dispose i suoi uomini alquanto indietro, mentre sarebbe stato più opportuno installarli solidamente nei punti da difendersi, perché non voleva aver l'aria di togliere ai rossi il vanto di scambiare con il nemico i primi colpi. Aspettava poi sempre gli ordini da chi glieli avrebbe dovuti dare. Finalmente, calata la sera, andò di nuovo in cerca del maggiore del 4° per riferirgli quanto aveva creduto bene di fare, e ricevere le istruzioni. Io accompagnavo il Castellini.
Trovammo in fine il maggiore in una stamberga, fiocamente illuminata da una candela di sego, accasciato, in pessime condizioni di salute. Udita la relazione circostanziata, egli ci congedò senza aggiungere né un'osservazione né una parola. Castellini, uscendo, non sapeva veramente che cosa pensare; si ritirò pertanto a pigliare un po' di riposo, interpretando il silenzio del suo anziano come un'approvazione delle sue disposizioni, e una riconferma del proposito di difendere Vezza.
La mia compagnia, la seconda, occupava il primo cascinale sulla strada maestra, fuori dei trinceramenti costruiti il 1859 dalle truppe italiane a monte di Incudine, e aveva la consegna di mantenersi in continua comunicazione, durante la notte, con la compagnia rossa, che era in Vezza, la seconda del 4°, comandata dal tenente Malacrida. Niente di notevole mi fu segnalato sin poco prima dell'alba, quando una mia pattuglia mi presentò il Malacrida, che veniva per avvertirmi di aver ricevuto l'ordine di sgombrare Vezza, ordine, che i suoi uomini stavano già eseguendo.
Balzo costernato a tale annunzio, che sconcerta tutti i nostri piani, e conduco di corsa il tenente dal Castellini, che dormiva in un bugigattolo di Incudine. Poco dopo arriva anche il Cantoni. Si scambiano spiegazioni, e presto ci si convince, che l'ordine di sgombrare Vezza, pervenuto al comandante la compagnia rossa, non può essere originato che da un equivoco. Vedo ancora la scena: Castellini, supino sul giaciglio, noi intorno a discutere. Chi sa, forse siamo ancora in tempo! Malacrida accorra a rioccupare Vezza; io lo assecondi, nel caso le avanguardie nemiche fossero già penetrate nel villaggio; le altre compagnie appoggino il movimento della seconda, avanzando parallelamente ad essa dalle posizioni ove si ritrovano. E così fu fatto.
Ordinati rapidamente i miei bersaglieri, m'incammino. Appena passato Davena, udiamo davanti a noi le prime fucilate. Pur troppo siamo arrivati tardi; bisogna ripigliare con le armi le posizioni abbandonate. Comando a Travelli di stendere in catena il primo plotone (sergente Gilardi) a sinistra della strada maestra, che rimonta la vallata, avendo il secondo (sergente Cantoni Bernardo) per sostegno. Io guido il terzo (sergente Barozzi da Vignola) a cavaliere della strada, ed ho a sostegno il quarto (sergente Rinaldi). C'inoltriamo di conserva; le palle incominciano a fischiare. M'imbatto nel sottotenente della 2a rossa, Achille Prada, un caro giovinetto, che studiava ancora all'università, e che io conoscevo, il quale si ritirava con la sua mezza compagnia in seguito all'ordine ricevuto. Gli dico dell'equivoco fatale, e del come invece convenga riprendere Vezza. Giubilando, ei si mette al mio fianco, e le sue camice rosse si mescolano alle mie casacche grige.
Prada ed io camminavamo in mezzo alla strada: le nostre due uniformi di color diverso offrivano un bersaglio distinto ai tiri dei cacciatori nemici. Appoggiato alla sua spalla, io mostravo a lui, con l'indice teso, una fila austriaca, che saliva per una viottola della montagna, quando egli, stringendosi il ventre, esclama : “sono morto!”; ed io ho appena il tempo di allungare il braccio, per impedirgli di stramazzare a terra di peso. I suoi soldati lo riportano indietro, sopra una coperta di lana; egli mi stende per l'ultima volta la mano, che già si contrae fra gli spasimi dell'agonia. Due ore dopo Prada spirava.
Poco più in là il giovine Zecchini, trentino, è freddato sul colpo da una palla in fronte. Il caporale Antonio Mattei di Treviso, eletto più tardi deputato, ha trapassato un piede. Un urto violento ad una spalla manda me a rotolare nel fossato.
“E' morto il capitano”, odo ripetere.
“No, per Dio, non è morto, avanti”, grido rialzandomi, indolenzito per il gran colpo ricevuto da una palla di rimbalzo; e i miei bersaglieri acclamano, e continuano a marciare in mezzo alle messi ondeggianti dei campi.
Le altre compagnie, spiegate in battaglia sulla china della montagna alla nostra sinistra, avanzavano anch'esse, guidate da tutti gli ufficiali, impavidi al posto loro. Tra questi riconobbi il Frigerio, ritto dinanzi ai suoi, e gl'inviai col cuore un saluto, quasi presago di non più rivederlo.
L'azione diventava sempre più calda e difficile per noi. Gli austriaci, dietro le cinte dei giardini e dentro le case, ci fulminavano spaventosamente. Pure l'ordine era di ripigliar Vezza; bisognava eseguirlo. Arrivati a poca distanza dal villaggio, ove sorge una cappelletta, ripariamo sotto un muricciuolo ad aspettare il primo e il secondo plotone, trattenuti dalle difficoltà del terreno. Sopraggiungono, insieme ad altri pochi bersaglieri guidati dai tenenti Morandi e Banfi : la mia tromba suona la carica, e ci slanciamo alla baionetta; la grandine di piombo degli stuzzen, l'uragano di mitraglia di due cannoni, fanno strage di noi: a pochi passi dalle case siamo ridotti a un drappello insignificante, e non abbiamo più cartucce....
È caduto l'ingegnere Antonio Maldifassi, caporale; a Roberto Conti una palla ha forato le due guance. Giuseppe Bosisio, un ragazzetto biondo di sedici anni, mentre gli volgevo una parola d'incoraggiamento : “Ahi, capitano, sono ferito” grida. Ferito il trombettiere Valloncini; Camboni, Corbellani, Marelli, David, Candiani, Spiller, Corti tutti della 2a, feriti in meno che non si dica. Il caporale Defendente Modini, caduto alle prime mura di Vezza, distribuisce le sue cartucce ai commilitoni, poi si adagia aspettando stoicamente la sua sorte. Barberis ha tre palle nel mantello; Monguzzi una nella giberna, che gli fa scoppiare le cartucce senza offenderlo. Non ricordo i caduti in quel posto delle altre compagnie; fra essi, certo, Ulisse Golfarelli di Forlì, caporale della 3a.
Quel pugno d'uomini sopravvissuto, esaurite le munizioni, non può reggere, e ripara di nuovo dietro il provvido muricciuolo, trasportando i feriti in una stalla accanto alla cappelletto; ne piglio anzi anch'io uno in collo, Luigi Corti, mentre le palle sibilano furiose e la mitraglia scava lunghi solchi nelle zolle tutt' intorno. Oramai è vano persistere in una impresa disperata; ostinarsi più oltre, senza cartucce, contro migliaia di nemici, solidamente al sicuro e provvisti di cannone, è follia. Bisogna ubbidire all'ingiunzione di retrocedere, che le trombe ripetono insistentemente, non per ordine di Castellini, come io credo, ma dell'Oliva, capitano della 1a compagnia, che ha assunto il comando del battaglione in cambio del maggiore morto anch'egli. Volgiamo indietro, e ripigliamo il cammino già battuto, ma senza affrettarci, eseguendo pacatamente, come se fossimo in piazza d'armi, il fuoco in ritirata, calcolando le cartucce, che ancora ci rimangono, conservando in linea le quadriglie sulla guida a destra, ove son io, mentre all'estrema sinistra è guida il sergente Ferdinando Rinaldi, avvocato di Treviso. Mi spiace di non poter rammentare molti di coloro, che componevano quelle quadriglie: accanto a me si ritrovavano il sergente Francesco Gilardi, ingegnere, già ferito a San Martino e decorato della medaglia al valore a soli sedici anni, non promosso ufficiale dopo il corso di Novara per difetto di età, reduce della campagna del 60, un mazziniano fervente, dall'animo mite di una fanciulla; gl'ingegneri Molinelli e Cuttica, esempi di coraggio e di saldezza; il trombettiere Martinetti, che a malgrado di una contusione di mitraglia toccata alla cappelletta, combatteva sempre e da bravo.
Intanto che noi ci attardavamo nel fondo della vallata contro i nemici chiusi nelle case di Vezza, gli austriaci avevano spinto una colonna lungo la sponda sinistra dell'Oglio, che, nonostante le ingiunzioni del Cadolini, nessun distaccamento del 4° aveva mai occupata. Noi ci avevamo guardato il giorno innanzi nel prendere le nostre disposizioni affrettate, ma avevamo creduto, fidando nella portata delle nostre carabine, di poter battere quel versante dalla sponda destra, senza mandarvi un plotone, il quale, per la mancanza di ponti, sarebbe rimasto isolato. Ma poi il disordine originato dall'abbandono dei villaggi, ci aveva fatto dimenticare di provvedere a quelle posizioni, e così queste erano venute senza contrasto in mano degli avversari, che di là recavano non poca molestia alla mia ala destra.
Altre colonne austriache ascendevano man mano il versante occidentale, e si avanzavano sull'ala sinistra, incalzando vivamente le nostre compagnie, che la proteggevano, le quali, arrivate anch'esse a toccar Vezza senza poterla superare, erano dalla mossa de' nemici costrette a ritirarsi più prontamente di me. Quelle colonne stavano quindi per prenderci in mezzo, quando fortunatamente i miei bersaglieri se n'avvidero, e si disposero a mandar loro lassù una volata di palle. Ma io li trattenni, perché mi sembrava impossibile, che ai nostri fossero già subentrati i nemici; e in mezzo agli alberi e agli accidenti del suolo, la somiglianza singolarissima delle divise dei cacciatori tirolesi con le nostre permetteva il dubbio. Per assicurarmene, ordinai al trombettiere di suonare il “cessate il foc”; ma la risposta allo squillo fu una scarica, che dissipò ogni illusione, e fece scoppiare i bersaglieri in una risata rispettosamente canzonatoria del mio ottimismo.
Continuando nella ritirata, per oltrepassare il torrente, credo si chiami Davenina, che scorre fra Vezza e Incudine normalmente al corso dell'Oglio, in cui si getta, raccolsi le quadriglie sulla strada maestra, a fine di portarle al ponte, unico varco facile; e poiché la strada, in quel luogo, s'incassa sotto una falda scoscesa, che ci riparava dal fuoco nemico, concedetti loro qualche istante di respiro. Nel frattempo, un grosso manipolo di cacciatori, da noi non avvertito, occupò un poggio che dominava il ponte; e quando la nostra prima quadriglia, rimettendosi in moto, si affacciò allo sbocco della gola, che ci proteggeva, quel manipolo, spianati gli stuzzen, ci intimò di arrenderci.
Sorpresi alla vista inaspettata, i nostri si ritrassero istintivamente sotto la rupe provvidenziale. Ma fu un lampo. “Arrenderci?”, chiesi loro; “o per chi ci pigliano?” E mi piantai, con il mantello foderato di rosso rovesciato su la spalla, in mezzo al ponte, comandando di attraversarlo uno ad uno, curvi sotto il parapetto, per evitare possibilmente i proiettili. “Capitano, si cavi di lì; vuoi farsi ammazzare?” mi si diceva. “Io faccio il mio dovere, voi fate il vostro; passate!” E ubbidirono tutti, fino all'ultimo, raggiungendo di là dal ponte l'altra parete di rocce, che ci rimetteva al sicuro. Due bersaglieri, l'ingegnere Luigi Martinelli e un altro, rimasero feriti nel collo; io non ebbi neppure sfiorato l'uniforme, sebbene stessi fermo, mentre i miei mi sfilavano d'innanzi man mano che io facevo lor segno con la punta della sciabola, sotto le palle, che, venendo dall'alto, mi rimbalzavano intorno come gragnuola, sollevando una nuvola di polvere. Dopo l'ultimo bersagliere, mi ritirai anch'io, accompagnato sempre dal grido di resa dei cacciatori austriaci. Senza essere più oltre né inseguito né molestato, mi riunii quindi con i miei uomini al rimanente del battaglione, del quale mi duole non poter qui riportare, partitamente, le ardite vicende di quella fortunosa giornata.
Certo, un cenno speciale meriterebbero anche gli artiglieri dei nostri due pezzi, comandati dal sergente Ferrari, quelli tra i rossi, che ebbero parte all'azione, e i doganieri guidati da un tenente, di cui mi spiace avere scordato il nome, modello di attività e di abnegazione. Ma io non potrei che ripetere ciò che fu già detto da altri, ignorando i particolari di quanto essi operarono lontano dai miei occhi.
Ridottosi ad Edolo, ove per tema della invasione nemica gli abitanti avevano sbarrate le porte delle case, il battaglione dispose a monte del villaggio guardie e sentinelle, e a Tu si preparò a difendersi, se attaccato, od anche eventualmente a riprendere la offensiva. Ma il colonnello Cadolini, dal quale il capitano Oliva si era recato per chiedere istruzioni, spiccò per un messo l'ordine di proseguire a Cedegolo, che raggiungemmo a mezzogiorno, portando con noi la salma del maggiore Castellini.
Avendo io saputo, mentre ero in Edolo, che il suo cadavere giaceva chiuso nel campanile, che sorge isolato in piazza, e desiderando sottrarlo alla eventualità di cadere nelle mani del nemico, mandai pel sagrestano; e fattami aprire la porticina, entrai con pochi amici, e lo trovai infatti composto sul cataletto in mezzo alla nuda cella della vecchia torre. Attorniatolo in silenzio, sollevammo il cappottone sardo di droghetto bruno, che lo copriva, e contemplammo a lungo, compresi di religiosa riverenza, il fiero e amato comandante. La ferita nel viso, che ne rendeva più energica la espressione, la severa uniforme, sulla quale si scorgeva, in mezzo al petto, una piccola macchia di sangue aggrumato, i grossi calzari di lana scura, che gli salivano fin sulle ginocchia, lo facevano sembrare una grande figura di cavaliere antico. Con devoto raccoglimento lo adagiammo sopra un carretto, requisito a forza dal Gilardi e dal Cuttica, e scortato dai suoi fidi bersaglieri, lo conducemmo a Cedegolo, ove bisognò, Dio sa con quale strazio, chiuderlo in una cassa troppo corta per quel suo gran corpo. Il Mantegazza accompagnò la salma alla desolata famiglia, in Milano.
Il colonnello Cadolini, e accanto a lui il capitano Oliva, ci aspettavano all'entrata di Cedegolo. Nell'accogliermi, il Cadolini mi disse: “Se mi fossi trovato lassù io, nutro fiducia, che le cose sarebbero andate diversamente”. E me lo ripeté poi più volte, con espressione di profondo rammarico, come lo ripete nel suo libro, ove spiega il motivo della sua assenza.
E il Cadolini ha ragione. Se egli in persona avesse comandato, e fatto eseguire gli ordini impartiti da lui il 2, molto facilmente noi avremmo avuto lassù un fatto d'armi a nostro vantaggio (1).
(1) Il Cadolini a proposito di quegli ordini da lui emanati, mi scrisse la lettera seguente:
Roma, 27 maggio 1891.
Carissimo Adamoli,
“Facendo seguito a quanto ti dissi a voce, amo spiegarti le ragioni per le quali, due giorni prima del fatto d'armi combattuto a Vezza il 4 luglio 1866, credetti opportuno di ordinare che, all'avvicinarsi del nemico, si
abbandonasse quel paesello per difendere altrimenti la
Posizione.
"Tutti i trattati di tattica dettano insegnamenti intorno al modo di difendere o di assalire, quando sia necessario un villaggio; e dimostrano in qual guisa i villaggi possano essere utilizzati come punti intermedi di
una linea estesa di combattimento. Ma niuno, ch'io sappia, consigliò mai di preferire l'occupazione e la difesa di un piccolo villaggio isolato, all'azione in campo aperto protetta da ostacoli naturali od artificiali.
"La difesa delle case, obbligando a dividere le forze,
rende disagevole l'unità del comando, l'armonia dell'azione, la distribuzione delle munizioni, il soccorso ai feriti, ecc. Una fazione simile, quando non sia efficacemente aiutata da opere esterne, il più delle volte espone i difensori al pericolo di essere circondati; e ad ogni modo rende difficile la radunata delle forze per assalire la linea nemica, e passare dalla difensiva all'offensiva.
"Fra i ricordi delle campagne garibaldine non trovo
alcun esempio di difese fatte in simili condizioni. È ben
vero che nel 1849, alle porte di Roma, si difese il Vascello; ma questo era circondato da muri, muniti di apposite feritoie, ai quali facevano seguito i trinceramenti
che congiungendolo con altri fabbricati, formavano una linea continua. Lo difendemmo per ventotto giorni come una piccola fortezza, protetto per altro dalle artiglierie dei bastioni.
"Il villaggio di Vezza, giacente al fondo della valle,
e dominato com'è da ogni parte, non si prestava a formare il perno della difesa, nè poteva essere obbiettivo del nemico. Per utilizzare Vezza s'avrebbe dovuto fare trinceramenti dinanzi e sui fianchi di essa, come si fece a Varese ; ma la posizione sarebbe stata mal scelta perchè la Valle, essendo in quel posto molto larga, avrebbe costretto a disperdere le forze. Dal momento poi che un piccolo campo trincerato erasi tracciato e si stava compiendo in buona posizione al di qua di Vezza, sarebbe stato un vero paradosso la sola supposizione che si dovesse difendere quel piccolo villaggio posto fuori delle nostre trincere. Conveniva anzi lasciarlo occupare dal nemico ed avanzando con le ali tentare di accerchiarlo come facemmo a San Fermo.
“Si fu per queste ragioni che, giunto sul luogo il 2
luglio, ordinai che la compagnia di avamposto occupante
Vezza, all'avvicinarsi del nemico, dovesse - come tutti gli avamposti - ripiegare sul corpo principale; che, a complemento dei lavori già eseguiti, s'iniziasse la costruzione di nuovi parapetti in forma tale che non potessero essere bersagliati a rovescio dalle alture; ed ordinai finalmente che si procedesse immantinenti alla costruzione di un ponte sull'Oglio, per occupare le posizioni dominanti sulle due rive, per poter offendere i nemici sui fianchi.
"Ecco quanto operai in quel giorno obbedendo pure
all'esperienza di quattro campagne, la quale mi ammoniva a non mai imprigionare i combattenti fra le case, ed a fare invece assegnamento sull'agilità arditamente aggressiva dei volontari in campo aperto, cotanto efficace contro gli eserciti stanziali.
“Ti stringo di cuore la mano,
l'antico compagno d'armi
G. CADOLINI”
Ma pur troppo il ponte sull'Oglio non fu gettato, le
trincere non furono erette, le disposizioni per le truppe
in caso di attacco non vennero prese e tanto meno vennero comunicate al Castellini.
Ogni volta che si rammenta Vezza d’Oglio, non si manca infatti di deplorar l'assenza del colonnello Cadolini. Ma sovente si aggiungon poi parole di censura al maggiore Castellini, di cui pure si encomia l'innegabile coraggio. Or
ciò è ingiusto; chè la condotta di lui fu correttissima, e solo per la sua risolutezza non ci toccò di peggio quel giorno.
Dopo un insuccesso la natura umana inclina a scaricare sul prossimo la responsabilità e il biasimo, che più facilmente, com'è naturale, vanno a cadere su coloro, che non hanno agio di rispondere e di scolparsi. Sul Castellini morto, al quale l'indomato valore salvaguardava in gran parte la riputazione, il dente della censura poteva esercitarsi, e non mancò di trarne profitto, senza scrupolo e senza rimorso.
Si disse innanzi tutto, che il Castellini fu la causa dei guai della giornata perché insofferente
dell’autorità di un ufficiale anziano, ma dello stesso grado, persistette, di sua testa, a voler riprendere Vezza.
Ciò non è esatto. Il Castellini, militare provetto, non era uomo da adombrarsi dinanzi alle norme della gerarchia, nè da trasgredire volontariamente la disciplina. E se si oppose alla esecuzione dell'ordine di sgombrare Vezza, ciò
fece nella piena buona fede, che i subalterni avessero capito male. E in verità, l'insieme delle circostanze lo doveva indurre in quella opinione, come facilmente si può provare.
Nel colloquio, che ebbe luogo fra Castellini e Caldesi, tra le 8 e le 9 di sera del 3 luglio, al quale fui io testimone, il Castellini fece al suo anziano un preciso e minuto rapporto dei provvedimenti adottati da lui per accorrere in tempo a sostenere, in caso di attacco, i difensori dei villaggi; e il maggiore del 4°, che, ripeto, per la depressione fisica, in cui era, parlava perfino
stentatamente, lo ascoltò senza fare obiezione di sorta, nè lasciò trapelare in nessuna guisa che il Cadolini gli avesse ordinato di far ripiegare la compagnia da Vezza al primo attacco, e concentrare la difesa alle trincee di Incudine.
Quando anzi il Castellini osservò, con la debita deferenza, che i rossi da lui veduti a Vezza erano letteralmente ammassati nelle case, di vero impaccio gli uni agli altri, e consigliò distribuirli più convenientemente, profittando dei giardini murati, fuori del villaggio, il maggiore del 4° mostrò di valutare il suggerimento.
Il Castellni ed io escimmo pertanto dal Caldesi pienamente convinti, che le posizioni da tenersi fossero Vezza e Grano. Con tale mira egli riconfermò le istruzioni, già impartite alle sue compagnie durante la giornata.
E si noti che il Castellini non aveva ragione di preferire questo a un altro piano, essendo egli giunto la mattina stessa sotto una forte pioggia, che gl'impedì di studiare le difficoltà del terreno, con la ingiunzione di mettersi a disposizione del maggiore anziano, il quale, dimorando da più giorni in quei luoghi, si supponeva dovesse conoscerli. Sarebbe quindi stato per lui indifferente, quando gli fosse stato ordinato, il concentrare la difesa alle trincee, consistenti del resto in poche zolle smosse dai rossi attorno al parapetto, detto ancora di Cialdini, eretto nel 59 dalle nostre truppe.
Il maggiore del 4° mandò a Vezza l'ordine di ripiegarsi al Malacrida, comandante la 2a compagnia dei rossi, non si sa perché, solamente nella notte del 3 al 4, senza avvertirne il Castellini. E ben s'intende come, allorché il Malacrida, avanti l'alba del 4 venne accompagnato da me al Castellini, e gli dichiarò di aver ricevuto l'ordine di ritirarsi da Vezza e Grano, il Castellini non potesse capacitarsi, che si fosse deliberato un movimento così importante senza prevenirlo. Rammentando allora il discorso tenuto alcune ore prima con il Caldesi, dubitò subito che il Malacrida avesse frainteso; e rivoltegli molte domande, dalle confuse risposte arguì che il maggiore dei rossi aveva mandate le istruzioni perché i soldati fossero collocati fuori del paese meglio che nelle case, come consigliava lo stesso Castellini, e che tali istruzioni, trasmesse a voce, erano state falsamente scambiate per una ingiunzione di sgombrare i villaggi. Spiegando quindi al Malacrida il concetto del messaggio, come a lui parve evidente, e persuadendolo a tornare al suo posto, il Castellini credeva fermamente di rettificare un errore, di agire secondo la
volontà del suo anziano. Ed io, presente all'abboccamento con il Caldesi ed alle spiegazioni con il Malacrida, ero dell'identico parere del Castellini.
Dimostrata pertanto erronea la supposizione, che il Castellini si fosse fitto in capo di avversare le disposizioni del maggiore del 4°, si elimina l'altro appunto, di aver egli, per pura ostinazione, persistito a riconquistare il paese, anzi che stabilirsi in una forte posizione a valle. Diventa chiaro che egli continuò a marciare verso Vezza in ossequio alla consegna, com'era suo obbligo, non avendo ricevuto alcun avviso in contrario. Anzi, il Castellini doveva aspettarsi a buon diritto di vedere gli altri battaglioni seguire il suo movimento.
Quanto agli ordini di ritirarsi, reiterati, si dice, al Castellini, dopo che egli ebbe impegnate le sue compagnie, se mai gli giunsero, ei non poteva eseguirli li per lì, mutando d'un tratto tutte le sue disposizioni, senza scompigliare i volontari appena lanciati al fuoco con impulso vigoroso. Probabilmente vi avrebbe ottemperato, con
la ponderazione e la misura richiesta dalla situazione di fronte al nemico, se non fosse stato ucciso.
Nel fatto poi, e indipendentemente da qualsiasi congettura, la marcia in avanti del 2° battaglione, se anche fu difettosa in qualche parte, e sebbene non entrasse nella previsione dei capi, fu quella che riparò, per quanto era possibile, gli errori originali nella disposizione delle truppe e gli errori susseguenti nei movimenti di molte di esse. Poichè nessuno aveva pensato a organizzare la difesa alle trincee di Incudine, ordinata dal Cadolini; e quando il nemico vi fosse arrivato al seguito degli avamposti di Mezza, che si ripiegavano, avrebbe trovato i nostri impreparati affatto a riceverlo. Il Casteliini accorrendo in soccorso di Vezza, persuaso di eseguire il piano prestabilito, arrestò fortunatamente il nemico imbaldanzito; impedì, che que' nostri in ritirata venissero sopraffatti, e diede a essi il tempo di riordinarsi e, se ne avessero avuto
voglia, di fortificarsi saldamente; nè con ciò si precluse la facoltà di prendere più tardi posizione con le sue compagnie, come realmente queste la presero poi che egli fu spento, ma non prima di aver provato, che anche noi sapevamo caricare, e di aver tolta la voglia agli austriaci di seguirci.
Finalmente, dall'essere il Castellini rimasto ucciso, si trasse argomento ad accusarlo di temerità quasi morbosa.
Ora, se andiamo a, cercar la origine di così fatta insinuazione, ci è facile rintracciarla nei racconti iperbolici di pochi inesperti, arruolatisi non più che per seguir l'andazzo generale, i quali, scambiando la guerra per un giuoco, appena udirono fischiar le palle, e videro che ci
si ammazzava sul serio, scapparon giù per la Valcamonica, e a loro scusa, lungo il cammino, andarono ripetendo che il comandante aveva condotto il battaglione al macello. La invenzione, facendo comodo a molti, mise radici, come suole avvenire, e diventò storia provata: col tempo, nessuno più la discusse, ed anche i prodi, trovatala diffusa, l'accettarono; e così mano mano si arrivò ad affermare, che il Castellini, disperando del successo, esaltato dalle amarezze del disinganno, si era esposto volontariamente ai
colpi, in cerca della morte.
Troppo rimpicciolisce questa ipotesi, la figura di quell'uomo, conosciuto specialmente per la saldezza della tempra e per il suo coraggio libero e consapevole, perché la si debba neppure ammettere. Nè poi la fazione di Vezza fu di
tale importanza, nè in essa mai il battaglione fu ridotto a così mal partito, da giustificare una risoluzione violenta, anche in un ufficiale meno calmo e meno sicuro di lui. Si ebbero da parte nostra diciannove morti e sessantasei feriti; molto meno da parte degli austriaci: o se i capi si dovessero fare ammazzare apposta per simili fatti, che cosa dovrebbe mai accadere là, ove scompaiono i reggimenti interi? E si noti che ei morì mentre avanzava, per cui non per anco doveva angustiarlo il dolore di una sconfitta.
La verità è più semplice. Il Castellini fece a Vezza, come sempre, il suo dovere di comandante, rimanendo in mezzo alle compagnie senza spavalderia e senza paura, ordinando, provvedendo, pagando, se occorresse, di persona: e cadde, come cadono i forti nelle battaglie.
La tela bianca del berretto, che egli solo usava, il cappottone oscuro, i galloni d'oro alle maniche, l'alta persona, attirarono sopra di lui l'occhio del nemico. Ferito al naso, non se ne diede neppure per inteso; passò il braccio sotto quello dell'aiutante maggiore Mantegazza, e continuò ad impartire freddamente il comando. "Ouii, ghe n’è un'altra", si accontentò di soggiungere, quando la seconda palla lo colpì sopra il gomito; e non se ne curò più che tanto. Staccatosi poi dal Mantegazza, per esaminare una posizione, stramazzò fulminato in pieno petto, frammezzo ai due intrepidi trombettieri piemontesi, che non si scostarono da lui un solo istante.
Pochi, durante l'azione, conobbero la sua morte: ufficiali e bersaglieri continuarono a combattere, gareggiando di audacia e di sangue freddo, grazie allo spirito di abnegazione, che il valoroso comandante aveva loro saputo infondere nell'animo. L’ultimo assalto del villaggio, che si condanna come insensato, venne dato dal battaglione, ormai ridotto troppo sottile, quando il Castellini era già morto.
Quell'assalto disperato, che fece maraviglia anche ai nemici, non ha bisogno di giustificazione, chè tutti, militari o non, intendono, che allora si trattò di una di quelle inspirazioni che salvano da un mal passo. E io benedirò sempre al Castellini, il quale seppe imprimere ai bersaglieri quello slancio, che li portò a caricare senza contarsi, senza ragionarvi su, per un profondo sentimento del dovere, in obbedienza agli ordini ricevuti.
L'audacia, che solleva i cuori, in certi casi è
Necessaria; inesorabilmente necessaria fu in quell'ora, in cui si trattava di salvare il buon nome e il decoro de' soldati di Valcamonica. Basti a ciò la impressione prodotta sul comandante austriaco, il maggiore Albertini, il quale "vuolsi abbia detto che con seimila di quei combattenti
(è il Cadolini che lo afferma) avrebbe saputo andare da solo fino a Milano”. Certo, egli non rinnovò l'attacco.
Mentre dunque si deve al Castellini se i combattenti del 4 luglio si resero degni di encomio, sia da parte nostra che da patte degli avversari; mentre si deve a lui se Vezza non fu un disastro: la leggenda gli ha tolto ogni merito,
fuorché quello della intrepidezza, e ha fatto ricadere su lui solo la responsabilità delle vittime, accusandolo d'immaginaria insubordinazione. Ma non è giusto, non è onesto che un uomo come il Castellini abbia offuscato da mal fondati giudizi il nome, che onora la patria; e io insisterò
sempre perché una generosa resipiscenza del paese rivendichi intera e libera dalle non eque prevenzioni la bella fama di lui. E con questo sincero augurio dell'animo, io pongo qui fine alla mia digressione, cui m'han trascinato, quasi
all'insaputa, immutati convincimenti, che mi spiace non aver mai potuto prima render di pubblica ragione.
Invece, per voluto contrasto, la morte del capitano Frigerio fu generalmente compianta, come quella di una vittima. A noi commilitoni apparve tragica, e c'impressionò perché egli, sino dal principio della campagna, aveva dato a credere di presentirla. Mentre avanzava alla testa della
compagnia, sul sentiero a mezza costa del monte, fu colpito presso il femore da una palla, probabilmente sparata da uno di quei nemici che scendevano da Grano. I suoi bersaglieri tentarono di trascinarlo indietro; ma egli aveva forata un'arteria, e le scosse del tragitto, fra le balze scoscese,
lo facevano spasimare atrocemente, accelerando la emorragia. Volle rimanere lì, in pace: si fece coprire del suo mantello, salutò i pochi che gli stavano intorno, e comandò loro di ritirarsi.
Un barlume di speranza di trovar l'amico ancora vivo, mi spinse pertanto, la mattina del 5, non appena seppi che il nemico aveva sgomberata la valle, a galoppare sino a Vezza. Vi raccolsi invece la certezza della sua morte. Gli
austriaci avevano seppellita la sua salma, rinvenuta sul sentiero, ove egli fu adagiato il giorno stesso del combattimento, nel cimitero di Vezza, rendendole gli onori militari. Toccò a me il doloroso incarico di scrivere alla madre, che forse sperava tuttora, la conferma della sua
perdita lagrimata. Povero Antonio! Degno compagno del Castellini, morì lui pure da prode.
A Vezza vidi in cambio una dozzina di bersaglieri che credevamo perduti, e che gli austriaci avevan ricoverati nella chiesa e medicati con molta umanità di modi; essi furon poi curati, con affettuose premure, dalla signora Ventura, parente del deputato Gregorini, alla quale io pago in questa pagina, a nome dei commilitoni, un tributo di riconoscenza. Il sindaco, Martino Pasolini, un uomo di cuore, mi ragguagliò dei particolari della inumazione del capitano Frigerio; mi diede i nomi di due morti, riconosciuti dai compagni feriti: di altri dieci, sepolti dagli austriaci, non aveva potuto constatare la identità.
Voleva condurmi al cimitero, ma declinai l'invito, perché, confesso, mi pungeva Il sospetto di venir sorpreso da una pattuglia nemica. Mentre il giorno innanzi una completa indifferenza per il pericolo mi aveva perfettamente tenuto sereno lo spirito in mezzo al tumulto della lotta, quel mattino lì, in piena calma della natura, io mi sentivo addosso l'inquietudine. Quella galoppata da solo, su la strada deserta, di cui ogni svolta evocava un episodio violento, aveva preparato l'animo a un non so quale senso
di turbamento, che m'indusse a rimontare a cavallo dopo mezz'ora di sosta, e a tornarmene sollecitamente fra i nostri.
I bersaglieri mi si fecero intorno, premurosi di udir novelle di coloro che avevo trovati a Vezza, e chiedere di altri dei quali non si aveva più traccia. Tra questi ultimi rammento Oreste Berti, di Brescia, dei miei, della 2a, che fu veduto correre in cerca della compagnia là ove più intense scoppiavano le fucilate; indi sparve, senza che mai più si sia saputo nulla di lui. Forse giace fra quei dieci, di cui mi parlò il sindaco. Al contrario, un altro smarrito, Vigilio Inama, tre giorni dopo il combattimento sdrucciolava
giù dai monti in mezzo a noi, camuffato da alpigiano, dapprima irreconoscibile, poi festeggiato con allegre risate. Raccontò di essersi fermato a soccorrere un intimo suo amico, lo Zini, e quindi, tagliato fuori dalle nostre file, di essersi rifugiato in un casolare, ove un contadino lo aveva vestito dei suoi panni, e trattolo a vagare per le baite della montagna, lo aveva ricondotto finalmente a Edolo. Oggi e gli è professore all'Accademia scientifico-letteraria di Milano.
Alessandro Zini, di Trento, studente di legge, caduto vicino a Vezza con una palla in petto, aveva chiesto ai compagni, che si ritiravano, un po' d'acqua, aveva loro raccomandato di salutar la madre e la sorella, e quindi era stato lì abbandonato e creduto morto. Invece si riebbe, si
sciolse la cintura, grave dell'oro che portava seco, e si trascinò in una via di Vezza, tuttora occupata dai nemici, deserta di abitatori, che erano sbarrati nelle case. Ma una vecchia, la levatrice del villaggio, lo vide, scese già, lo
raccolse, gli diede il suo letto, gli curò la piaga, gli riebbe persino la cintura col denaro, e lo rimandò a tempo debito, già rimpianto e, come avviene, già dimenticato, alla sua compagnia, cui rappresentò, in mezzo alle liete accoglienze, la parte del morto redivivo. Morì il 1890 a Brescia, ove si era acquistata la stima e l'affetto dei nuovi concittadini.
Un ultimo aneddoto, e finisco. Scendendo col mesto convoglio, che menava a Cedegolo la salma del Castellini, con quale tristezza è facile immaginare! si sopraggiunse un altro carrettino tirato da un ciuco, che trasportava un nostro ferito. Salutatolo d'una parola di conforto, gli
ero già passato dinanzi, quando uno scoppio di risa mi scosse e, in quel momento, mi offese. Mi volsi accigliato, e Cuttica, di solito così serio, mi disse scusandosi: "ma, capitano, non se ne poteva a meno”; e mi narrò il caso.
Era Emilio Roda, milanese, prestante ed animoso giovane, al quale, mentre correva all'assalto, presso un muricciuolo di Vezza una palla aveva trafitte orizzontalmente le cosce, sotto la inguinaia, inferendogli tre ferite. Il Roda, con molta presenza di spirito, appoggiandosi alla carabina, s'ingegnò da solo a porsi in salvo; ed ora, steso su la carriuola, fumava la sigaretta,
e scherzava sul fortunoso accidente, rallegrandosi di aver salvi, per miracolo, gli organi più delicati, e ricamandovi su i più ameni commenti.
Un bravo ufficiale, che veniva dopo di me, e che spesso sollevava il nostro buon umore con l'enfasi del suo eloquio, e pel suo persistere a chiamar "cherubina” la nostra arma, volendo esprimere al Roda il suo pietoso interessamento: “giovanotto", aveva esclamato con il solito suo tono, "fatevi coraggio; un giorno mostrerete con orgoglio le gloriose cicatrici ai vostri figliuoli!” Sfido io a non ridere! L'evocazione dell’augurio prematuro si affacciava alla fantasia con una evidenza così compromettente per la dignità e la serietà paterna, e la immagine era così strana e così burlevole a un tempo, che non solo giustificava pienamente la ilarità dei compagni e dello stesso Loda, ma provocava perfino la mia.
Nella stessa notte del 4 luglio il battaglione ripigliò posizione ad Edolo, e la notte del 5 a Incudine, ove rimase la giornata del 6 a scegliere, sotto la direzione del Cadolini, i punti, che doveva rioccupare con gli avamposti. Quindi dal 6 al 13 la 1a e la 3a compagnia alternarono, ogni ventiquattr'ore, con la 2a e la 4a, il servizio a Incudine, e il riposo in Edolo.
Durante quei turni, due gioie intime vennero a compensarmi di molti affanni. La prima, un appagamento del cuore, me la diede la visita di mio padre, il quale però, non appena si fu assicurato che stavo bene, medicandomi di sua mano la lieve scalfittura, ed ebbe confortati i feriti, e rimpianti i perduti, ripartì per Valle Giudicaria, stimando la nostra azione, lontana da Garibaldi, di poco conto. Nè a torto, chè infatti non facemmo più nulla, mentre egli, dall'altra parte della montagna, vide i nostri compiere fatti davvero importanti.
La seconda, una soddisfazione del cuore e insieme dell'amor proprio, me la diedero i bersaglieri. Avendo l'amministrazione centrale ordinato di nominar capo del deposito di Bergamo un ufficiale con il grado di capitano, l'Oliva, per adempiere alla formalità imposta, scelse me,
senza togliermi, ben inteso, dal comando attivo della 2a compagnia. Ma quando la sera, dopo la ritirata, si lesse della mia destinazione nell'ordine del giorno, la compagnia scoppiò unanime in un grido di protesta. I miei bersaglieri, credendo che io partisi per Bergamo, mi si fecero intorno,
giurando che non avrebbero più impugnato la carabina, nè sarebbero più scesi in campo contro il nemico, se io non li guidavo, accompagnando la dichiarazione con le più calde dimostrazioni di fiducia che io abbia mai ricevute. Ne rimasi tanto più commosso quanto meno me lo aspettavo, sapendo di godere reputazione di duro, e, più ancora, sapendo di meritarla. È proprio vero, che l'esecuzione coscienziosa del dovere non falla mai, e conquista, alla lunga, meglio assai delle facili compiacenze.
Il giorno 14 il battaglione rimase riunito a Edolo; ma l’indomani si portò a Incudine, in seguito a un falso allarme provocato da certi movimenti delle truppe dell'Albertini, che uscite da Ponte di Legno, calavano nuovamente lungo la valle. Il 16, poi, si abbandonarono tutte le posizioni, per concentrarsi col 4° reggimento a
Cedegolo, e di là, indirizzati gli impedimenti e i cavalli alla volta di Brescia, ripartire la sera stessa per Valle di Saviore. Un dispaccio, spedito di furia dallo stato maggiore di Garibaldi in data di Storo, aveva imposto a Cadolini di
sgomberare Valcamonica con il suo reggimento e i bersaglieri, di valicar la montagna che ci separava da Valle di Fumo, e di scendere per quella sino a Valle di Roncon per riunirci agli altri reggimenti garibaldini.
Non appena si uscì di Cedegolo, l'oscurità crescente e le difficoltà della via alpestre obbligarono la colonna a fermarsi e bivaccare; solo al mattino seguente si raggiunse Val di Saviore, ove si aspettavano i viveri, i quali non sarebbero giunti, essendo l'intendenza scomparsa, se il nostro furiere della 1a compagnia, l'ingegnere Federico Toni, un giovane e valoroso veterano, che diventò poi una delle colonne del tiro a seguo di Milano, non avesse salvata la situazione.
Noi l'avevamo mandato a Breno per la provvista del battaglione, e a lui il comandante della piazza, non trovando più alcun ufficiale di intendenza, consegnò anche il pane occorrente per il 4° reggimento, già requisito e caricato sui muli. Così anche i rossi, all'arrivo del Toni, ebbero di che mangiare; e la colonna. sempre i rossi in testa e i bersaglieri in coda, potè riprendere il cammino, che fra detriti e morene la condusse alle rive del lago d'Arno, a 1792 metri sul livello del mare, ove passò la notte.
Nelle ore mattutine del 18 si superò il colle del Passo di Campo, a 2388 metri di altitudine, fra il monte Campeglio (m. 2809) e altre giogaie, coperte di neve e di ghiacciai, irte di rocce nude e desolate; di là si scese nel bacino del lago di Campo, a 1957 metri. Ivi il colonnello Cadolini fe' sosta, in attesa dei viveri e delle guide dello stato maggiore, che ci dovevano dirigere frammezzo quel labirinto di valli, possibili insidie di nemici.
Il Cadolini piantò il quartiere in una piccola malga a Campo di sopra, nel pascolo a settentrione del lago e del suo scaricatore, in mezzo a] suo reggimento. Noi occupammo un rialzo più a mezzodì, in un bosco di abeti e di lanci,
fra i massi e le zolle coperte di rododendri, di aconiti, di genziane, di ogni sorta di fiori alpini.
Mancando i viveri anche in questo giorno, si sgozzarono due vacche comperate dagli alpigiani, poca cosa per tanti uomini. I volontari rossi si rifecero però sui formaggi immagazzinati nella malga, che infilavano su certe lunghe
forchette, introdotte fra gli assiti del casolare, alle spalle del colonnello; e in meno che non si dica, i formaggi, che si volevano serbare per ultima risorsa, sparirono; a stento si salvarono gli assi, che riparavano l'alpe dall'intemperie.
Noi bersaglieri, poi, mentre dividevamo con i rossi le sofferenze della fame, con maggiore inquietudine di loro guardavamo al futuro; chè essendo noi i più lontani dal sentiero per cui gli approvvigionamenti dovevano arrivare, presentivamo che per poco fossero stati scarsi, il reggimento, con i suoi tremila uomini, non ci avrebbe neppur lasciate le briciole. Da previdenti, per ciò, mandammo a conto nostro il tenente Cantoni, con alcuni bersaglieri, giù per le valli, in cerca di provviste; non fosse altro per tener viva, mediante cotesto stratagemma, la fiducia dei soldati, i quali, per quel giorno, non si nutrirono che di speranze.
Intanto, come avviene in montagna, il tempo mutava repentinamente. La sera del 19 luglio una tempesta di neve e di grandine si scaricava sul campo, spegneva i fuochi, abbatteva i ripari, che avevamo tentato di erigere con sassi e rami di pino, inzuppandoci e intirizzendoci tutti. Se per
poco si pigliava sonno, un gelido rivoletto, che ci scorreva dal collo alle estremità, veniva a destarci di soprassalto. Una notte diabolica.
Nè a dir vero furon molto dissimili le notti successive, benchè l'ingegno nostro si fosse subito
industriato a migliorare le costruzioni, di cui una, opera dei sergenti Salvioni e Toni, era vantata come la più comoda che si potesse immaginare.
I giorni scorrevano uggiosi. In quel tempo non era peranco diffusa l'abitudine e la passione dell'alpinismo, e s'incontrava molta gente colta, non solo inesperta, ma paurosa della montagna. S'immagini che i bersaglieri stupivano alla narrazione di una salita, fatta nel 1853
quando Badruth era una locanduccia sul Piz Langard in Engadina, ove ora si va a diporto. La maggior parte non aveva neppure imparato ad apprezzare la bellezza grandiosa delle Alpi, e imprecava alla purezza dell'aria, il miglior
farmaco moderno ad ogni malanno, perchè metteva in corpo un appetito, che non si riesciva a saziare. Gli stessi giovani, che formavano il battaglione, oggi troverebbero cosa naturalissima ascendere al mattino il Campeglio e alla sera
il Monte del Castello, divertendosi non poco, mentre allora, avvezzi soltanto alla pianura, impacciati fra le foreste e le rocce, trovavano in ogni ricognizione una fonte perenne di brontolii.
Famosa fra tutte rimase la ricognizione condotta dal Tolazzi, che avendo seguito un sentiero da capre giù per certi scogli alti e scoscesi, portò l'intera compagnia su l’orlo di un precipizio, ove non sapeva andare avanti e tanto meno risalire. La relazione di quell'impresa e di altre analoghe, di cui il risultato invariabile si era di non scoprire mai nè un nemico, nè un amico, e nemmanco un indigeno, forniva poi il tema a commenti, intramezzati da certi moccoli, che a noi ufficiali conveniva proprio fingere di non udire.
A calmare per poco il generale malumore giovò il ritorno del Cantoni, alla testa di una carovana di montanine, cariche di molte provviste, fra cui del tabacco, tesoro inestimabile, che procurò una ovazione al nostro tenente, il quale sorrideva modesto, insaccato in un costume
di sua invenzione, fatto da una coperta di lana a grandi scacchi, da lui rinvenuta fra quelle baite.
Avevamo per fortuna vari passatempi. Una banda di sedici camosci (ci riescì contarli) si aggirava fra le cime circostanti, e teneva in emozione gli animi dei numerosi cacciatori, che militavano nelle file garibaldine. I bersaglieri, con le carabine di precisione, fecero fiasco; uno dei rossi, invece, di sentinella agli avamposti, col suo fucilaccio da guardia nazionale, ne ammazzò uno, che donò al suo colonnello
Quando brillava un raggio di sole, i più gagliardi si gettavano nelle gelide acque del lago, in cui moriva il ghiacciaio, che credo si chiami Vedretta di Saviore. Tra gli arditi vi era Antonio Minich, di Padova, studente di legge, colto e intelligente, tra' più valorosi di Vezza, carissimo a noi tutti, al quale, mentre appunto si bagnava insieme con un amico, capitò una sorpresa poco gradita.
Un fischio, poi il "pac” di una palla, che si schiaccia contro un masso, gli fanno dapprima tender l'orecchio; poi un altro e un altro, in fine una grandine. Le inviava colà una compagnia del 4° che su la sponda opposta scaricava, per poi ripulirli, i fucili nell'acqua, non mai più immaginando, che i proiettili rimbalzassero tanto lontano, e credendo la riva di fronte deserta. Avendo gridato invano, Minich scampò miracolosamente, rifugiandosi fra i crepacci del ghiacciaio. Ma, a campagna finita, il poveretto rimase vittima di un accidente anche più strano.
Mentre il battaglione in marcia faceva un “alt” nell'ora più calda del giorno, su la polverosa strada fra Salò e Desenzano, Minich aveva con altri cercato un po' d'ombra nei campi laterali. Allorché si riprese il cammino, egli scavalcò la siepe, che lo divideva dalla strada, e nel tirare a sè attraverso i rovi la carabina lasciata incautamente carica, se la esplose in petto, spirando l'indomani fra spasimi atroci, quando la madre accorreva bramosa di abbracciarlo sano e salvo dopo i pericoli delle battaglie.
Di quanto si operava dai nostri, noi eravamo all'oscuro. Giunse però anche lassù il dispaccio della battaglia di Lissa; quel dispaccio cabalistico, dal quale non si capiva se avessimo vinto o perduto, e che aprì il campo a discussioni interminabili, come avvenne, del resto, anche fra' mortali non appollaiati a duemila metri, se male non interpreto le lettere di due gentili signore, che da Milano scrivevano, una in data 22 luglio: "abbiamo le notizie della flotta vittoriosa, le quali a quest'ora saranno giunte fino a voi”; l'altra, di mia zia Simonetta, del 23: "il fatto glorioso della nostra flotta non abbiamo potuto goderlo in tutta la sua pienezza, perché il bollettino, redatto col solito sistema inesplicabile, non ci dava, come alcune lettere posteriori, la verità dell'assoluta vittoria”. Proprio così!
Nell'inverno successivo, a Washington, conobbi
personalmente l'ammiraglio Tegethoff, e capii allora, forse meglio che nei libri, la battaglia di Lissa.
"Perdonami la bestemmia” scrivevo a mio padre il 12 febbraio del 1867, la sera stessa del primo incontro: "dopo Garibaldi, pochi uomini di guerra hanno destata in me tanta simpatia quanto l'ammiraglio Tegethoff. Ne ha anche molto la figura, la dolcezza dello sguardo e dei modi. È anche lui uno di quegli uomini predestinati a inspirare vera e sincera devozione. Ha molto spirito, e di buona lega. È ammiratore dell'America, delle sue libertà, della sua democrazia, e su questo punto ci siamo trovati perfettamente d'accordo, ciò che finora non mi era mai accaduto con gli europei di fresco sbarcati qui. In mezzo alle adulazioni, cui è fatto segno, come avviene a tutti i favoriti della vittoria, si serba modesto, senza affettazione; ma se ne indovina facilmente l'altissimo cuore, la natura eletta, l'intrepidità innata. Gli toccai di Lissa; ed egli, concisamente, dopo avere attribuito tutto il merito del successo alla fortuna
(chances de la guerre), mi descrisse la impressione straziante, che provò al vedere il Re d'Italia sprofondare fra' vortici delle onde, mentre i marinari figgevano spasmodicamente le unghie negli assiti del ponte, che loro mancava sotto, e si aggrappavano disperatamente alle ultime cime degli alberi, che si andavano sommergendo. Parlammo anche un po' della politica dei nostri paesi; egli dice, che abbiamo tutti bisogno di pace. Spero incontrano ancora negli Stati Uniti”.
Ma lassù, al lago di Campo, nè le vivaci discussioni su Lissa, nè le partite di nuoto e di caccia, sopivano l'ansia, che di giorno in giorno cresceva, condita di fame, di freddo, di noie di ogni fatta, di cui non ultima il tormento delle zanzare, che non so perchè prediligevano le punte dei nostri nasi. Per giunta, io non avevo un solo ufficiale alla compagnia, essendo il Travelli rimasto malato a Capo di Ponte, e le altre compagnie non avendomene da cedere. Mi coadiuvavano bravamente, oltre i quattro sottufficiali, che ho nominati, il furiere Paolo Posio, di Mantova, e il sergente Emilio Carnelli, di Laveno; e la lezione toccata a Vezza, raffermando negli animi i principii di disciplina, e consolidando la tempra del volontario, aveva facilitato il compito di guidarli; ma la mancanza di un subalterno, che potesse assumere a vicenda il comando, rendeva opprimente il peso della mia responsabilità.
Cadolini dettava ordini del giorno paterni; Oliva, drappeggiato nell'ampio mantello, accentuava, col gesto oratorio, fervide arringhe; Micali schiudeva la vena inesauribile delle arguzie, che tanto contribuivano a mantenere il buon umore. Ma il morale dei volontari, che non capivano nulla della nostra inazione su per un ghiacciaio, cominciava a impensierirci sul serio.
Il fatto è che lo stato maggiore di Garibaldi, credendo di aver mandato ordini precisi con l'itinerario minuto della via da seguire, ci aspettava nella Giudicaria, e non vedendoci arrivare, ignorava ove diavolo noi fossimo. E Cadolini, non riescendo a interpretare il dispaccio dello
stato maggiore, malgrado passasse a studiarne ogni sillaba i giorni e le notti, combattuto dall'incertezza, aspettava venissero a rilevarlo.
Noi bestemmiavamo lassù come ariani. I commilitoni laggiù parlavano della nostra sparizione come di un maleficio di stregoneria, formando le congetture più peregrine di questo mondo. I messaggeri facevano la fine del corvo; e non essendoci possibilità d'intesa fra lo stato maggiore e il Cadolini, quell'imbroglio inesplicabile
minacciava di protrarsi indefinitamente.
La do in cento a indovinare chi per il primo ci portò un po' dl luce.
Il mattino del 25 luglio, quando tutta una settimana di soggiorno al lago aveva spinta la impazienza fino al parossismo, gli avamposti di Campo di sotto segnalano un borghese, che sale da Valle di Daone, là onde noi, ignari della vittoria de' nostri a Bezzecca, temevamo una sorpresa da parte degli austriaci. Accorriamo a incontrarlo. Chi sarà mai? Era mio padre!
Mio padre, seguendo lo stato maggiore di Garibaldi, aveva saputo del dispaccio spedito al Cadolini, e ci aspettava fiducioso. Ma scorrendo inutilmente i giorni, cominciò anche lui ad essere inquieto, e forse più degli altri, chè non il patriottismo soltanto ma un sentimento più
intimo lo faceva palpitare. Chiedeva notizie di noi a Guastalla, a Cairoli, a quanti incontrava; e tutti naturalmente rispondevano di saperne meno di lui. Garibaldi, quando vedeva mio padre aggirarsi nel campo, e mettere l'occhio al cannocchiale, che non abbandonava mai, diceva:
ecco Adamoli, che cerca suo figlio sulle montagne”.
Una volta, fermatosi a salutare mio padre, egli soggiunse: "aspettate sempre vostro figlio? Egli deve essere là, in cima a quella valle”; e accennava a Val Daone.
Mio padre, senza dir verbo a chicchessia, si empì le tasche di pane e di cioccolata, pose ad armacollo la borraccia, e armato di una piccola rivoltella, il mattino, all'alba, si avviò soletto per la strada che fiancheggia il fiume Chiese.
Camminò l'intera giornata. Sospettò un istante di venire attaccato da una pattuglia austriaca, e si preparò alla difesa, appoggiato a un masso; ma fu un falso allarme. Dormì in una baita, donde l'indomani un giovanotto lo guidò per un buon tratto, indicandogli poi il sentiero. E capitò finalmente al campo, ove fu accolto trionfalmente, festeggiato più della colomba dell'arca. Tutti se lo disputavano, tutti volevano udirlo a raccontare i casi del mondo dei viventi, e ripetere le imprese de' commilitoni. Figurarsi quale commozione dovette essere la mia!
Di cotesto incidente m'intrattenne Garibaldi molti anni dopo, in una circostanza per me singolarmente memorabile. Il 26 luglio del 1879 Benedetto Cairoli, presidente del consiglio dei ministri, m'invitò ad accompagnarlo all'Ariccia per una visita amichevole a Garibaldi, che colà
villeggiava. Il generale, sereno sul letticciuolo, dove la gotta lo teneva inchiodato, lietissimo di vederci, ci mostrò il piccolo Manlio, un vispo demonietto, che gli somigliava tutto, e del quale si compiaceva con ineffabile tenerezza, ci presentò la sua cara figliuoletta, e ci fece sedere alla sua mensa. Durante quelle ore la politica fu appena sfiorata, e la conversazione di quelle due anime elette si aggirò tutta, confidentemente intorno alle memorie del passato. Garibaldi parlò prima a lungo di donna Adelaide Cairoli, poi di mio padre: e allora appunto mi descrisse
l'ansia di lui, quando mi aspettava a Storo, ripetendo, col suo sorriso, la storiella del cannocchiale.
Quel pellegrinaggio all'Ariccia rimane per me una delle più care rimembranze di quei due grandi uomini. I giornali pubblicarono solennemente, che Cairoli avesse pattuito con Garibaldi la sua intromissione per acquetare i radicali, e stretto non so quale altro accordo; eppure io, che non mi staccai un momento dagli interlocutori, e non perdei sillaba dei loro discorsi, di tutto ciò non avevo udito nulla.
Tiriamo via!
Finalmente un messaggero dello stato maggiore, quella stessa mattina, insieme con la notizia poco gradita della conclusione dell'armistizio, consegnò a Cadolini il sospirato dispaccio, che spiegava com'ei dovesse scendere per la valle di Daone; e del lieto annunzio ci fecero accorti, assai prima che arrivasse a noi, le calorose dimostrazioni di gioia del campo dei rossi, che noi dominavamo dall'alto, e che in un baleno si allestirono per la partenza. Poco dopo, il reggimento, a malgrado dell'ora inoltrata, sfilava dinanzi a noi, affrettandosi giù per la valle; seguivano i bersaglieri, quando già il crepuscolo
Imbruniva.
La discesa per quel sentiero alpino, di notte, fu disastrosa; ma si andava via di lago di Campo, e non ci si badava. Due plotoni della mia compagnia, che avevano spinta quel giorno una ricognizione fino alle Seghe del Glisenti, e ne erano ritornati stanchi morti, ci servirono di guida. La maggior parte però dei nostri non potè proseguire fra le tenebre; e accesi i fuochi, attese nei boschi, su la china del colle, l'apparire dell'aurora.
A Creto trovammo, bene o male, di che sfamarci, dopo così lungo digiuno; ma soprattutto di che dissetarci. Il battaglione in massa, capitani e gregari, si diede il lusso, e non a torto, di una sbornia, gaia, tenera, espansiva, in cui furono affogati tutti i dispiaceri di lago di Campo; una sbornia, però, che uno scellerato di contadino ci fece digerire male, aprendo le chiuse del suo prato, da noi invaso nonostante le sue proteste, e quindi inondandoci mentre russavamo beatamente. Un vero tiro birbone, che all'autore, se l'agguantavamo, sarebbe costato caro.
Del nostro misterioso soggiorno su per i ghiacciai, e della leggenda di Vezza, ci ruppero talmente le tasche gli amici e compagni dei reggimenti, ai quali ci riunimmo, che alla lunga li evitavamo per non esserne più oltre annoiati. Ma quando Garibaldi ci passò in rassegna a Condino, e il battaglione, da me comandato, sfilò spigliatamente, preceduto dalla brillante fanfara, sotto il balcone, su cui era il generale, tutti dovettero ammirarne la bella tenuta e l'aspetto marziale. Garibaldi ci fece i complimenti più lusinghieri, e da ogni parte piovvero a noi le congratulazioni.
Pochi giorni dopo, i trentini del battaglione, circa una quarantina, insieme col tenente Fontanari e col Cantoni, sempre vago di avventure, venivano segretamente posti a disposizione di Egisto Bezzi, il quale coadiuvato dagli ufficiali suoi conterranei, il Manci, il Martini, e il Filippini, dovevano penetrare, con armi e munizioni, in val di Ledro, e promuovervi la sollevazione. Ma la fazione non ebbe seguito, e i bersaglieri ritornarono all'ovile.
Aggiratici qualche tempo su le sponde del lago di Garda, finimmo per accantonarci a Rezzato: e dopo non poche settimane neghittose, il battaglione dei bersaglieri milanesi venne sciolto.
|