Umberto Adamoli
I BANDITI DEL MARTESE
(Romanzo storico)


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     Anche sulle altre bande, sempre irrequiete, con si poteva fare assegnamento. Quella di Titta Colranieri, la più numerosa, anch'essa, abbandonando Cellino, s'era ritirata nella robusta roccia di Poggio Umbricchio. Le bande del Lucidi e del Montecchi, per non chiare ragioni, s'erano rifiutate di trasferirsi a Teramo. Se ne presentiva la defezione. Le altre, quelle degli impiccati, ricostituite, si rendevano ogni giorno più pericolose. Giungevano frequenti notizie di aggressioni, saccheggi, uccisioni.
     In una nuova riunione, presieduta dal preside Torrejon, si esaminarono a Teramo le nuove non facili condizioni. Dai banditi, ai quali, con l'indulto, erano state fatte tante concessioni, non vi era più nulla da sperare. I loro istinti, come quelli dei lupi, li riconduceva, forse contro la loro volontà, alla vita delle caverne. Era ormai ora di finirla con essi, con la malfida poco onorevole alleanza. Non più per distruggerli azioni isolate, ma d'accordo col confinante Stato pontificio, azioni coordinate e forti. Napoli ne era ormai stanca e dava tutti i mezzi per poter concludere in breve tempo la lotta. Intanto sarebbe stata costituita una milizia volontaria di cittadini per poter proteggere le loro case, le loro donne, i loro beni.




     A Campli e a Mosciano, per il modo come vi si viveva, pareva che niente altro vi si dovesse desiderare. Pareva, ma non era. La defezione delle altre bande indultate ridestava negli altri agitazione, turbamento. La nostalgia delle avventure e della montagna prendeva un po' tutti. Il Lucidi e il Montecchi sentivano, inoltre, attorno a sé freddezza, diffidenza. Avvenivano nelle loro famiglie discussioni talvolta penose.


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Umberto