Un nostro aeroplano, partito alla mattina del 21 agosto per una lunga ricognizione, non ritornò. Fu aspettato con ansia per tutto il giorno; alla sera il suo hangar vuoto si chiuse come la cassa di un morto. L'aeroplano era perduto.
Per qualche giorno un senso di tristezza e di lutto gravò sul piccolo campo d'aviazione, perché gli uomini che montavano l'apparecchio scomparso erano molto amati. Esso aveva a bordo il Capitano osservatore Mattioli, fratello del Ministro della Real Casa, un volatore arditissimo, un capo squadriglia coscenzioso che reputava suo dovere partecipare alle spedizioni più arrischiate, e che la guerra era andata a cercare in un ufficio di prefettura per fare di lui un navigatore dello spazio. Egli aveva per pilota l'aspirante Adamoli, un giovane audace di venti anni.
Non si poteva immaginare che cosa fosse successo di loro. In guerra dei soldati cadono, la fine degli uomini sulla terra e sul mare si vede, si constata, è un fatto, ma gli aviatori svaniscono. La loro catastrofe ha sempre qualche cosa di favoloso; si immergo no nel cielo e non scendono più. Chi li aspetta scruta le nubi. Quando essi non tornano, si direbbe che siano rimasti lassù, perduti negli abissi dell'aria, assorbiti come eroi mitologici dalle profondità sconfinate dell'universo.
Gruppi silenziosi ed angosciati di meccanici aspettarono fino alla notte sul prato di atterramento guardando il cielo, palpitando ad ogni rombo. Accesero poi dei fuochi di richiamo, ma senza speranza. L'aeroplano non tornò più.
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