Luigi Barzini
Odissea. L'avventurosa fuga di un nostro aviatore dal campo nemico.


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     Trovava tutto facile ora. Si sentiva avvampare in un indicibile ebbrezza. Non aveva mai gustato la sua libertà e la sua forza come in quella tetra solitudine. Camminava gagliardamente fra i primi tronchi d'albero, ancora radi. Si inerpicava in mezzo ai rovi, si apriva dei passaggi fra i rami bassi, girava l'ostacolo dei pini atterrati dalle bufere, dei macigni, degli arbusti.
     Ma la selva infoltiva. Si asserragliava, lo costringeva ad andirivieni infiniti, si faceva sempre più fosca, più aspra, lo chiudeva da ogni parte. Egli non vedeva più il cielo, non vedeva più le stelle, tutto era buio, impenetrabile, misterioso intorno a lui.
     L'orrore di sentirsi perduto penetrava il fuggiasco, lentamente. La foresta si riempiva a poco a poco di tutti gli spaventi. Simulava forme umane in agguato, sporgeva figure spettrali, assumeva aspetti viventi ed immobili, ogni ceppo pareva qualcuno in attesa. Il giovane si fermò, sommerso dall'ansia.
     Non osava più muoversi, non osava sdraiarsi. Aveva paura del sonno; gli pareva di dover vegliare contro una ostilità vicina, inimmaginabile, palpitante. Rimase in piedi, addossato ad un tronco, fermo come quando il passo delle sentinelle lo sfiorava. Aveva la sensazione di non essere solo. Gli pareva che degli occhi lo fissassero. "Mi guardano!" - pensava. "Chi?" non lo sapeva. Una specie di delirio fermentava la sua anima agitata. Ascoltava con angoscia mille rumori leggeri e inattesi, il brivido delle piante, il respiro profondo della foresta. Sussultava, si volgeva di scatto a dei fruscii inesplicabili, a dei sommessi stormire di fronde, a degli scricchiolii cauti, a dei sibili brevi. Un freddo intenso lo invadeva. Egli lo sentiva salire dai piedi come un soffio gelato della terra. Alla fine un pallore violastro filtrò fra i rami: l'alba.