La crisi economica veniva ad aggravare la situazione. L'Italia non doveva far fronte soltanto a certe conseguenze della sua politica monetaria ma subiva principalmente il contraccolpo della politica universale della chiusura delle frontiere. Il volume delle nostre esportazioni al abbassò senza che il governo potesse sostenerlo.
Infatti l'Italia non è in grado di offrire all'estero che delle merci correnti che la maggior parte dei paesi è in grado di produrre o sul proprio suolo o su quello delle loro colonie. Così tutti gli sforzi del regime dovettero orientarsi verso una restrizione delle importazioni; ma il limite di questa contrazione fu presto raggiunta perché, come dichiarava il "Duce" alla Camera il 26 maggio 1934, "tutte le nazioni moderne, in virtù allo sviluppo prodigioso delle scienze, possono tendere ad una certa autarchia. Ma noi - Italiani - fino a prova contraria, noi abbiamo bisogno di alcune merci indispensabili. Il carbone, il petrolio, il ferro, la lana, il cotone sono i cinque elementi che pesano maggiormente nella nostra bilancia a titolo d'importazione. Noi potremo ridurli non eliminarli".
E per ridurli il governo ha provocato la messa in valore di nuovi terreni nei quali si praticano la coltura del cotone e l'allevamento. Ha favorito la produzione ed il consumo dell'energia idraulica utilizzando la caduta delle acque alpine, elettrificando le linee ferroviarie, concedendo degli esoneri fiscali e dei premi ai produttori di carbone bianco. Il bilancio dello Stato ne fu oberato ma si registrarono delle sostanziali economie di carbone alleggerendo così il deficit dalla bilancia commerciala.
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