Illustre Commendatore,
Le ragioni che mi indussero a rimanere al mio posto di Podestà
del comune di Teramo, anche dopo la data dell'otto settembre
1943, sono ormai note. Non ambizioni personali, certo. Non ne
sono malato. Volevo dare soltanto alla mia città, affrontandone
tutti i rischi, una prova della mia fede, dei miei sentimenti,
del mio vivo amore, in un momento più difficile, più tragico,
più pericoloso della sua storia. Ero confortato, d'altra parte,
in questa grave mia fatica, in questa mia alta missione, dagli
incoraggiamenti, dagli elogi, dalle manifestazioni di ammirazione
e di gratitudine dei miei illustri concittadini. Pareva che fossi
per essi, quando paravo con la mia vita la rabbia, le terribili
minacce teutoniche, l'uomo della provvidenza.
Allora nessun rilievo, nessuna critica, nessun rimprovero sul mio
atteggiamento politico. Anzi, pel fine, al quale miravo, tutto
quel che per necessità facevo era logico, giusto, naturalissimo.
Partito però l'ultimo tedesco, scomparso ogni altro pericolo, le
cose mutavano. Molti sentivano il dovere di indagare, di
investigare sul mio comportamento di allora. Gratta, gratta, lo
dice anche il proverbio, qualche cosa può sempre venir fuori.
Qualunque cosa io avessi potuto fare, avrebbe dovuto sempre
trovare ragione e giustificazione nei grandi risultati ottenuti:
la salvezza della città di Teramo, dei suoi beni, dei suoi molti
cittadini. Gli Inglesi e i Polacchi, della mia condotta
regolarissima, me ne hanno dato ampiamente atto. Ma i miei
illustri concittadini, pochi in verità, vi debbono fare sopra le
loro considerazioni, le loro riserve, le loro insinuazioni. Non
ne so trovare la ragione. Non ho fatto male a nessuno; ho cercato
di fare il bene a tutti.
Si dice, ad esempio, di un discorso tenuto ai Combattenti, nel
dicembre del decorso anno, nel quale avrei sparlato di S.M. il Re
e di Badoglio. Menzogna. In quella assemblea, d'obbligo, non feci
che leggere la relazione inviata al Direttorio nazionale
sull'attività svolta nell'anno dalla Federazione da me retta;
relazione che si conserva in copia negli atti d'ufficio.
Smentiscono la diceria i trecento Combattenti presenti
all'Assemblea. Quanto fu scritto nel giornale "Tempo
Nuovo", e questo si sarebbe potuto capire, non era che un
giudizio dello stesso scrittore. Lo stesso disse pure che io
lessi. Lo scritto non si distrugge, non vola, e chi volesse
prenderne visione non dovrebbe che richiederlo alla Federazione
Combattenti, di cui in questo momento è Commissario il rag.
Giacinto De Solis.
Si dice ancora che io ero l'occhio destro del Prefetto Ippoliti.
L'occhio destro proprio no. Io ero Podestà, disimpegnavo quindi
un ufficio amministrativo, non politico, e non ho fatto mai
politica. Sfido chiunque a provare il contrario. Io ero
completamente estraneo alle riunioni, alle spedizioni, ai pranzi,
alle diverse attività fasciste. Frequentava la Prefettura, come
possono testimoniare i funzionari che vi sono ancora, unicamente
per ragioni del mio ufficio.
Il Prefetto Ippoliti, è vero, ha sempre elogiato la mia
rettitudine, la mia disinteressata, appassionata attività. Ma
questo l'avevano fatto anche gli altri Prefetti, dal Varano al
Bianchi, dal Tincani al Bracali, forse in misura superiore.
Conservo molti di questi elogi anche in iscritto.
Si dice che lo stesso Prefetto, in una adunata a Teatro,
pubblicamente affermava che io compivo miracoli. Vero. Ma questi
umanissimi miracoli erano compiuti a favore delle migliaia di
sfollati che capitavano a Teramo, nel pieno inverno, colmi di
miseria e di dolori. Si vadano ad interrogare e questi sfollati,
e gli internati, e gli ebrei, sulla mia opera. I Signori, che
oggi mi criticano, troverebbero santa la mia condotta!
Si sentenzia che dal giorno che tenni il discorso ai Combattenti
io virtualmente finivo di essere il Podestà di Teramo.
Smentisco. Io per i buoni, e giornalmente me lo dimostravano,
prima tra questi il popolo ed i comunisti, i primi a prendere le
mie difese, fui, sono e sarò sempre il Podestà di questa nostra
bella città, se non di fatto, moralmente: il Podestà dalle
molte opere, dalle molte attività.
Io ripeto, non ho mai chiesto, né voglio niente.
Non so se sul mio conto diranno qualche altra cosa. E dire quando
la mia vita era attaccata ad un filo, mi giungevano le più
larghe dimostrazioni e molte promesse di futuri tangibili
riconoscimenti. Ma non voglio niente! Dopo il dovere compiuto, io
sono rientrato, senza rumori e senza ambizioni, nel silenzio e
nella pace della mia famiglia, raccolto in una soffitta.
M'addolora soltanto la denigrazione, alla quale l'uomo facilmente
si lascia andare, per fini non sempre spiegabili.
Affido a Voi, illustre Commendatore, che in ogni tempo mi avete
mostrata la Vostra ambita benevolenza, la mia difesa, se è
necessario. Sono a Vostra disposizione per qualunque altro
chiarimento.
Con i migliori ossequi. Devotissimo
(t. Col. Umberto Adamoli)
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