PERSONAGGI
CLARA - figlia di Giancarlo Fazi
NEMESIO MONTECCHI - fidanzato
GIANCARLO FAZI - padre
PAOLA - zia
FABIO - amico di Giancarlo
LAZZARO - serparo
BALBINA, PATRICIA, EUFRASIA - veneziane
MATTEO - già della banda Montecchi
BIBIANA - amica di Paola
MENDICANTE
TONIO - contadino
UOMINI MASCHERATI - due
RITA - giovane contadina
Coro delle vendemmiatrici - Coro dei pellegrini -
Canti di campagna - Nel Pretuzio e a Venezia.
ANNI 1713-1715
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Nel giardino della villa di Giancarlo Fari, fuori della città.
Lo stesso Giancarlo, uomo sulla sessantina, seduto all'ombra di
conifere, parla con un amico, quasi coetaneo, giunto da Teramo:
Fabio.
E un giorno limpido del mese di maggio. S'ode il canto d'una
villanella che, nella campagna, pascola le pecore e il
gorgheggio, nella siepe di biancospino, d'un usignuolo. Sul
tavolo, non grande, presso il quale seggono, vi sono bicchieri
colmi ai vino e una bottiglia.
Su questo quadro si alza il sipario.
Di tanto in tanto il canto della villanella s'interrompe. Anche
l'usignuolo sospende il canto.
FABIO
(prendendo il bicchiere che Giancarlo gli offre)
Ecco la vita che si dovrebbe vivere per benedire la vita. O come
qui si respira bene. La campagna! Sogno sempre dì anime gentili,
di mistici, di poeti, ricca sempre di colori, di melodie, di
canti.
(Alzando il bicchiere)
Viva la campagna!
GIANCARLO
Benedetta la campagna
FABIO
(dopo che, sorseggiando, ha bevuto)
Squisito questo vino.
GIANCARLO
Trebbiano di Silvi.
FABIO
Osanna allora anche a Silvi che offre, con il suo bel mare e le
sue colline verdi, anche questo dorato nèttare, degno degli dei,
che inebria, esalta, fa dimenticare le pene, placa gli affanni.
Fortunato te che con questo delizioso latte dei vecchi, godi
questo sereno cantuccio senza gli inganni, le passioni, le
tristizie della città.
GIANCARLO
E no, amico. Sono troppo vicino alla città per non risentirne le
miserie. Intesi, intesi l'altro giorno lo scampanio festoso per
l'arrivo dei nuovi padroni.
FABIO
Scampanio festoso! E i rinnegati applaudivano gli austriaci come
prima avevano applaudito gli spagnuoli, come domani
applaudirebbero, in altri mutamenti, i nuovi aguzzini.
GIANCARLO
Quanta decadenza!
FABIO
Non tutte le campane, però, suonarono. Un degno sacerdote impedì
che, nella stupida gazzarra, si suonassero le campane della sua
chiesa.
FABIO
Degno sacerdote. Ma le altre persone? Almeno una volta vi erano i
banditi a far tremare tutta la nostrana e forestiera canaglia.
FABIO
E a tenere accesa la fiamma dell'italianità e della speranza.
Rammento. Rammento quando le bande capitanate da Santuccio di
Froscia, da Titta Colranieri e da Giulio Montecchi incutevano
rispetto e paura agli spagnuoli dominatori e ai loro servi:
quelle nostre bande che andarono poi a coprirsi di gloria in
difesa di Venezia, minacciata, in Dalmazia, dai turchi.
GIANCARLO
Vive fiammate tra tanta oscurità. E tutto oggi è aggravato
dalle malattie, dai terremoti, dalla carestia. Un vero castigo di
Dio. Povera gente viene qui a ritirare la crusca, per cibarsene
FABIO
Ma non tutti si cibano di crusca.
GIANCARLO
Quelli che ci governano e i loro satelliti non mangiano certo
crusca, nè i falsi paladini, i sinistri demagoghi, veri
sfruttatori del popolo.
FABIO
Vera peste.
GIANCARLO
(indicando con la mano verso destra)
Eccolo là un campione dei nostri tempi.
(Un uomo, poveramente vestito, avanza nel giardino.)
FABIO
Uno dei tanti pezzenti.
GIANCARLO
(guardando meglio)
Non sembra.
FABIO
E chi può essere...
GIANCARLO
Un serparo.
FABIO
Già, un serparo.
GIANCARLO
Altra felice genia che con i lupi mannari, i maghi, le
fattucchiere e gli zingari concorrono a dare strana rinomanza
alla nostra terra.
(Intanto l'uomo, misero nel fisico e nel vestito, appare da un
lato della scena, con una cassetta a tracolla.)
SCENA SECONDA
SERPARO
(che si avvicina lentamente, timido)
Che san Domenico vi protegga!
GIANCARLO
Che volete che ci protegga il vostro san Domenico con tanti serpi
che sono intorno!
SERPARO
(che non ha capito l'ironia)
I miei serpi, come certo sapete, con la loro morsicatura, vi
potrebbero rendere, appunto, l'immunità.
FABIO
Povero uomo!
SERPARO
Ne dubitate? Affari d'oro ho fatto questa mattina a Cavuccio. Nel
decorso anno, dopo il mio passaggio, un uomo era stato morsicato
da una vipera. La vipera moriva, non il mio uomo.
« A me, a me » quando mi hanno visto si gridava da ogni parte.
« A me, a me ». Stanchi ne siamo usciti io i miei serpi. E san
Domenico di Cocullo sia benedetto.
(Si scopre nel nominare il santo.)
Su non temete. Datemi il braccio. E' un attimo.
GIANCARLO
Schiacciar la testa, come maledizione divina, si deve al serpe,
che è stato, con la donna, causa di tutti i nostri mali.
SERPARO
Ma vi dico che è un attimo...
(Mentre parla apre la cassetta. Un serpe fa capolino.)
GIANCARLO
Andate, andate a portare altrove le vostre chiacchiere, il vostro
inganno.
SERPARO
Ho capito. Non vi è fede in questa casa per i miei serpi e per
il mio santo. A ogni modo che san Domenico vi protegga.
(Rinchiude la cassetta, saluta e se ne va con evidente
stanchezza.)
FABIO
A quanti strani mestieri Si ricorre, su questa povera terra, per
vivere. Perché tanta miseria?
GIANCARLO
Di chi la colpa?
FABIO
"Della società" dicono gli uni; "del
destino" dicono gli altri.
GIANCARLO
Per me la colpa è dell'uomo stesso, che non sa o non vuole
risolvere da sè, con l'onesta operosità, i propri problemi.
FABIO
Non di tutti gli uomini, s'intende.
GIANCARLO
Certo. Vi sono gli oziosi, i parassiti, gli imbevuti d'odio, i
ladri che cercano di vivere sul lavoro altrui; ma vi sono pure
altri che sanno conquistarsi, nella società, con l'onesta
attività, posti onorevoli.
FABIO
Come è il caso di Germinio, che tu conosci.
GIANCARLO
Esempio luminoso nell'ordine delle nobili aspirazioni e della
forza della volontà.
FABIO
Volle e ottenne.
GIANCARLO
Eppure gli sciagurati guardano alla sua fortuna con bieco cupido
occhio.
FABIO
Il bene e il male, sempre in conflitto. è quanto l'uomo s'ebbe a
meritare, nelle per la sua grande disubbidienza.
GIANCARLO
Piano, piano. Qui l'uomo c'entra sino a un certo punto. La colpa
è della donna che si fece, col pomo, ingannare dal serpente
maledetto.
FABIO
E l'uomo, gonzo, si fece ingannare da colei che doveva essere, in
un eterno godimento, nel meraviglioso giardino, la tenera sua
compagna.
GIANCARLO
D'altra parte, senza quella disubbidienza noi oggi non saremmo
qui.
FABIO
Tanto di guadagnato. Le bestie, inoltre, avrebbero vissuto, senza
l'uomo, in tranquilla. sicurezza.
Che ce ne viene poi a vivere?
GIANCARLO
L'eterno lamento. Ma quando si è su questa terra nessuno se ne
vorrebbe andare. E per rimanervi a lungo, anche se poveri, anche
se sventurati, si ricorre ai medici, alle medicine, alle
preghiere, ai santi.
FABIO
E vero anche questo, nell'eterna contraddizione.
GIANCARLO
Quindi, giacchè ci siamo, prendiamo la vita così come è, con
le sue gioie, con i suoi dolori.
FABIO
(guardando da una parte)
O ecco la tua bella figliuola che ci viene a distogliere da
questi confusi melanconici discorsi.
GIANCARLO
Non viene qui. Scende ogni sera a quest'ora per cogliere fiori
per la mamma.
FABIO
Brava figliuola.
GIANCARLO
E la mamma rediviva. Ma non riesce a vincere l'affanno per il
fatto che la mamma periva nel dare ad essa la vita. Ne piange
come una sua colpa. Non se ne festeggia la nascita.
FABIO
Se ne festeggerà tra poco le promesse della vita. Ho inteso
parlare d'un suo prossimo fidanzamento col ricco giovane
Montanari.
GIANCARLO
Ne sarei lieto... Ma...
FABIO
Non acconsente?
GIANCARLO
Pare che altro giovane, figlio d'uno della montagna, abbia accesa
la fatale fiamma nel suo cuore.
FABIO
E tu?
GIANCARLO
Seguo lo svolgersi degli eventi in attesa che il tempo la conduca
su quella via che dia a me la pace, a lei la felicità.
FABIO
Con la ricchezza?
GIANCARLO
Soprattutto. È inutile su certi argomenti fare poesia, o
pascersi di illusioni.
FABIO
Senza dubbio, se si dovesse vivere di solo pane.
GIANCARLO
La solita vuota retorica, con la solita capanna.
FABIO
Oro adunque?
GIANGARLO
Sì, oro.
FABIO
Quanto inganno! I palazzi sontuosi, le mura massicce, il lusso mi
possono indurre a considerare con rispetto la ricchezza, ma trovo
la poesia soltanto nella capanna avvolta di verde, di fiori, di
santo silenzio.
GIANCARLO
Non ti comprendo.
FABIO
Ascolta, allora. L'altro giorno stavo, in placido riposo, nei
pressi di Rocciano. Sotto, nella valle, mormorava il Tordino.
Lontano s'ergevano i monti con le cime bianche di neve. Due
tortore tubavano, felici, su un albero. L'usignuolo, in un
cespuglio, allietava la compagna, che era nel nido, con il suo
canto d'amore. Un giovane lavorava, tranquillo, nella vigna in
vegetazione. Sul mezzogiorno usciva di casa, svelta e linda, con
una canestra ricolma, la giovane sposa. I due consumarono il
pasto all'ombra del biblico ulivo, nella musicalità dei campi,
con un senso di mistico raccoglimento.
GIANCARLO
Ebbene?
FABIO
Misera cosa m 'apparivano, in confronto, i saloni dalle false
luci, le donne dalle false tinte, gli svenevoli cicisbei dal
falso sentire.
GIANCARLO
Che vuoi con ciò dire?
FABIO
Che quei due giovani villici, come la tortora sull'albero, come
l'usignuolo nel cespuglio, godevano davvero la vita.
GIANCARLO
In attesa del pianto, al quale nessuno sfugge, con l'aggravante
della miseria per chi è nella miseria. Ma quel giovane della
montagna fra giorni partirà, come dicono, per la Dalmazia o per
Venezia e lontano dagli occhi...
FABIO
Se il fuoco è di paglia... A ogni modo vi è un fato, e gli
antichi ben lo sapevano, contro il quale è inutile lottare.
GIANCARLO
Il fato?
FABIO
Sì, il fato. Ne riparleremo, ne riparleremo. Ora debbo andare,
essendo in città aspettato. Ma tornerò presto, anche per
tuffare in questo verde e in questo... come si chiama?
GIANCARLO
Trebbiano...
FABIO
Dalla purezza dell'ambra, rapito agli dei.
GIANCARLO
Allora un altro bicchiere. (Mesce. Bevono.)
FABIO
Io proprio non capisco come si debba vivere in angustia, quando
con tante cose belle e buone che offre il mondo, e con questo
trebbiano, si potrebbe vivere sempre in letizia.
(Si muove per andarsene.)
GIANCARLO
Ti accompagno. Ho qualche faccenda da sbrigare in città.
FABIO
E a visitare qualche amico buontempone.
(Intanto chiacchierando escono dalla parte di destra. Il sole va
verso il tramonto. Una fantesca si presenta a togliere vino e
bicchieri. S'ode ancora il canto dell'usignuolo, il gracidar di
ranocchi, l'abbaiar lontano d'un cane. Dopo un giovane, sui venti
quattro anni, Nemesio, avanza silenzioso, cauto, guardingo. Si
ferma. Emette un lieve fischio. Poco dopo appare la giovane
Clara, figlia di Giancarlo.)
SCENA TERZA
NEMESIO
(che le va incontro)
Clara!
CLARA
Nemesio!
NEMESIO
Quanto ho desiderato di rivederti, di godere quest'attimo che il
tempo benigno concede a noi, in questo giardino in fiore, nella
più mistica delle ore.
CLARA
Ora di preghiera, di poesia, di bellezza.
NEMESIO
Di dolcezza.
CLARA
Ma ho paura.
NEMESIO
Di che?
CLARA
Non so. Non sono tranquilla. Mentre tutto canta intorno a noi odo
di lontano rumor di tempesta, che molto mi turba.
NEMESIO
Ma se tutto qui è sereno.
CLARA
Nonostante...
NEMESIO
Abbi, abbi in me fiducia.
CLARA
Ed ho fiducia. Ma tu fra giorni parti.
NEMESIO
Per adempiere la promessa fatta a mia madre, sul letto di morte:
promessa di portare il suo ultimo bacio a mio padre, che dorme il
sonno eterno sui monti della Dalmazia, ove cadde combattendo per
un santo ideale.
CLARA
Nobile l'atto, ma lungo è il viaggio, insidiosa la lontananza.
NEMESIO
L'insidia è qui, in tuo padre e...
CLARA
No, no. Niente altro mi dirà mio padre, ne sono sicura e io
giungerò a te limpida come acqua di sorgente, pura come fiore in
boccia.
NEMESIO
Con la benedizione del cielo.
(A questo punto la zia Paola, che vive con lei, chiama.)
PAOLA
Clara...
CLARA
Vengo, vengo zia. (A Nemesio) Debbo andare. È tardi.
NEMESIO
È l'ora dell'Avemaria e delle sicure promesse.
CLARA
L'ora soave del canto delle anime.
NEMESIO
E niente altro mi dici, Clara?
CLARA
Torna presto.
Io o sarò tua o di nessuno. Una volta si vive nell'amore, come
una volta si vive nella vita.
NEMESIO
Mi basta. E allora?
PAOLA
(chiama ancora)
Clara...
CLARA
Vengo, vengo zia.
NEMESIO
E allora?
CLARA
Sia felice il tuo viaggio.
NEMESIO
Senza un bacio?
CLARA
Un bacio...
NEMESIO
Roseo suggello a ogni patto d'amore.
CLARA
Sì, ma dopo l'altare.
NEMESIO
Anche prima, nella religiosità dei sentimenti.
CLARA
Sentimenti che debbono rimanere chiusi, con il bacio, nell'attesa
deliziosa, nella santità del cuore.
NEMESIO
Gli spiriti luminosi avvolgano, cara fanciulla, la tua casa, la
tua vita candida, le tue speranze.
(Mentre Nemesio le bacia con rispetto la mano e la sera canta.}
CALA LA TELA
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
A Venezia, in un piccolo salotto, modestamente addobbato, Nemesio
e Balbina, seduti l'un di fronte all'altro, sono in
conversazione.
BALBINA
(come se continuasse in un discorso)
Mio padre, appunto, era della vostra terra. Rimase a Venezia dopo
la guerra contro i turchi, alla quale la sua banda prese parte in
modo glorioso.
Raccontava tante cose della sua terra natia: racconti talvolta
tinti d'odio, di rivolta, di sangue, tal'altra luminosi di
generosità, di gentilezza, di poesia. E parlava di castelli, di
spechi, di tesori nascosti in un certo bosco Martese.
NEMESIO
Molte leggende corrono su questa romantica terra e su questo
bosco, rifugio di spiriti inquieti, teatro di lotte sanguinose.
Funesto fu ai cartaginesi quando tentarono di passarvi, nè
benigno è stato agli spagnuoli, nella loro lotta contro i
pretuziani.
BALBINA
Popolo guerriero il vostro.
NEMESIO
Popolo che è fiero della sua origine, che ha ancora vivo nel
sangue l'orgoglio della grandezza latina, che combatte per la
libertà, ama la giustizia, non disdegna la gloria.
BALBINA
E in bellezza?
NEMESIO
L'Italia, prediletta figlia del cielo, è tutta bella. Bella è
la vostra laguna, con tanti meravigliosi palazzi, con tanti
insigni monumenti.
BALBINA
E da voi non ve ne sono?
NEMESIO
Da noi non vi sono che montagne, grandi però più di tutte le
vostre isole; valli, ampie più di tutti i vostri canali; strade,
larghe più delle vostre calli.
BALBINA
Soltanto?
NEMESIO
E la campagna con i prati, i fiori, gli alberi è tutto un
giardino, un parco esteso. Un inno sale perenne al cielo da
quelle valli, fresche d'acqua; da quei boschi, freschi d'ombre.
BALBINA
Delizioso.
NEMESIO
Bella la vostra città, baciata da ogni parte dalle onde del
mare. Belle pure le nostre piccole case, avvolte di verde; le
nostre piccole chiese, avvolte di silenzio, non turbate da pompe
che contrastino con la semplicità evangelica.
BALBINA
Penso però che i veneziani non saprebbero vivere lontano dalla
loro laguna.
NEMESIO
Né i pretuziani lontano dalle loro montagne.
BALBINA
E in verità, lontano da esse, consumato dalla nostalgia, giovane
ne moriva mio padre.
NEMESIO
Lo credo. Quantunque in me arrida il pensiero del ritorno, pure
in fondo al mio spirito punge forte la mestizia. Vedo da qui la
mia terra in una luce tenerissima.
BALBINA
Anche le donne, senza dubbio.
NEMESIO
Anche le donne, eterna musica dell'anima'.
BALBINA
Come sono queste vostre donne?
NEMESIO
Come i fiori, nati spontanei nella libertà dei campi.
BALBINA
E come vestono?
NEMESIO
Senza artificio e vestono con panno da esse stesse tessuto nel
telaio domestico.
BALBINA
Come vivono? Scusate la curiosità, che è donna.
NEMESIO
Vivono nella santità del lavoro. Si alzano con l'alba e cantano,
come gli uccelli, raccolti sugli alberi. La domenica, vestite a
nuovo, vanno a messa, dove vanno pure i giovani, in devota
festosità.
BALBINA
Ma anche noi andiamo a messa.
NEMESIO
Ma, per quanto ho visto, non con la stessa devozione.
Generalmente le nostre donne, sulle quali non deve cadere mai
l'ombra d'un sospetto, non escono sole.
(In questo momento entra altra ragazza, Patricia, amica di
Balbina, già conosciuta da Nemesio, dal quale è salutata.)
SCENA SECONDA
BALBINA
(con un senso di compatimento)
Ascolta, ascolta, Patricia. Nel Pretuzio, terra del nostro
Nemesio, le donne non escono sole.
PATRICIA
Ma il Pretuzio è in Italia?
NEMESIO
Nel cuore d'Italia, con il suo maestoso Gran Sasso.
PATRICIA
E allora?
NEMESIO
Tali sono gli usi, ai quali la donna di laggiù, se vuole
conservare integra la sua reputazione, deve ubbidire.
PATRICIA
Usi barbari. Noi non sopporteremmo queste limitazioni, o una
qualsiasi graziosa... guardia ai nostri movimenti.
NEMESIO
Me ne sono reso ben conto. Ognuno vive come può, nelle proprie
tradizioni, nella propria educazione.
Noi nomini, d'altra parte, non soffriremmo, nelle nostre donne,
tanta libertà.
PATRICIA
E perché? Credete voi che la virtù si tuteli con le porte di
ferro? Vana illusione. La donna trova sempre il modo di frangere
la torre che la racchiude per ubbidire ai propri istinti buoni o
cattivi che siano.
BALBINA
Ma lasciamo andare questi discorsi che nulla mutano nell'ordine
delle vicende umane. Diteci piuttosto come sono, nel complesso,
queste vostre Vestali.
NEMESIO
Sono generalmente brune, nella purezza della loro origine, dalle
forme armoniose e sono guerriere.
BALBINA
Guerriere? Ma se la loro vita, per quanto ho capito, è monacale.
NEMESIO
Ma quando si tratta di difendere dalle offese il proprio onore,
la propria casa, come la leonessa il proprio covo, allora è ben
altra cosa. Allora abbiamo le gesta gloriose di Cellino, di
Poggio Umbricchio, di Civitella, che elevarono le nostre donne
alla luce della leggenda.
A Poggio Umbricchio vi era mia madre e con essa anch'io bambino.
PATRICIA
Allora anche voi siete eroe.
NEMESIO
Ero troppo piccolo per intervenire nella lotta. Non piansi, però,
non tremai sotto la pioggia dei proiettili che gli spagnuoli, nel
loro mal governo, facevano cadere su di noi.
BALBINA
Se non eroe, quasi eroe. Bravo, bravo.
PATRICIA
Ma amano queste vostre vestali leonesse?
NEMESIO
Se amano? Tutto quanto è sotto l'influsso della luna, pallida
amica delle anime che palpitano, arde d'amore: gli uocelli, gli
insetti, i fiori, gli uomini. Ritengo però che la bruna del
Martese sia, negli affetti e nelle promesse, più salda, più
fervida della bionda, nata nella morbidezza della laguna di san
Marco. E in fatto d'amore non scherza.
BALBINA
Come non scherza...
NEMESIO
A sua conclusione o l'altare o... (pausa)
PATRICIA
O...
NEMESIO
O la tomba. Non vi è via di scampo. Una sola volta le pretuziane
amano.
BALBINA
Uh... E gli uomini?
NEMESIO
Come le donne.
PATRICIA
Amori pericolosi, dunque. Noi, invece, nella gioia della
giovinezza, giungiamo alla mèta, dopo d'aver volato, come
farfalle, di fiore in fiore e d'aver partecipato con il cuore in
fiamma, alle feste, ai canti della laguna.
NEMESIO
Contenti voi, contenti tutti. Per noi 1a giovinezza, in un
composto vivere, deve serbare, checché voi possiate dire, il suo
candore, come i fiori conservano il loro profumo.
Ma parliamo di cose più allegre. Ieri sera assistetti alla festa
della Serenata, sul Canal Grande. Vi era, con i lampioncini dai
mille colori e con canti, davvero del fantastico.
BALBINA
Da voi non vi sono serenate?
NEMESIO
Ve ne sono, ma le nostre serenate sono costituite dai canti,
dalle armonie che salgono, nella notte di stelle, dal mistero dei
campi.
PATRICIA
Tutto diverso, adunque.
NEMESIO
Quasi.
BALBINA
Anche nel parlare?
NEMESIO
Anche, ma a vostro vantaggio. Il nostro parlare è duro come le
rocce delle nostre montagne; il vostro è morbido come la spuma
della vostra laguna. Meglio esprime, con la sua mussicalità, la
tenerezza del cuore. Canto di sirene.
PATRICIA
Pericoloso per voi.
NEMESIO
Questo no. Sono ben munito di talismani.
BALBINA
Toglieteci un'altra curiosità. Spesso dai vecchi pretuziani
abbiamo inteso parlare di banditi. Chi sono?
NEMESIO
Chi erano, volete dire. È ormai tramontato, come tramontano
tutte le cose, il loro regno.
PATRICIA
E chi erano?
NEMESIO
Uomini d'armi erano, che non sopportavano la schiavitù, che
odiavano lo straniero, che amavano la patria e a suo nome
morivano, come ebbe a morire, sui monti della Dalmazia santa, mio
padre.
PATRICIA
Sicchè voi siete figlio di bandito.
NEMESIO
Di capo bandito, di Giulio Montecchi, dell'eroe del monte san
Salvatore. Ed ora mi pare che basti con questi discorsi.
PATRICIA
No, no. Parlateci ancora di questa vostra terra misteriosa.
NEMESIO
Non vorrei che la immaginaste come la terra visitata, qualche
secolo fa, dal vostro Marco Polo. Ha proprie caratteristiche,
questo sì. Le cime delle montagne penetrano nelle nubi, mentre
nelle pendici scendono, mormorando, ruscelli dalle limpide acque.
D'estate le valli si riempiono di belati di gregge numerosa
pascolante con placida lentezza. I poggi, sui quali posano
bianchi paeselli, appaiono come castelli, avvolti di silenzio e
di leggende. E cantano nelle valli. i fiumi, nelle stoppie le
cicale, nell'aria l'allodola, nella siepe l'usignuolo, nella
campagna la fresca villanella.
PATRICIA
Paese di delizie.
BALBINA
Che mi sveglia vaghi desideri.
PATRICIA
Non c'è qualche bandito per noi?
NEMESIO
Piano, piano. Vi ho parlato di ciò che splende nella bella
stagione. Non vi ho parlato delle nevi, che d'inverno ammantano i
monti, i colli, il piano. Non vi ho parlato degli ululati dei
lupi affamati, che gettano io spavento dove passano. Non vi ho
parlato delle folgori che sconquassano, nella furia degli
uragani, i boschi, le campagne, le case, e del freddo che arresta
la vegetazione, gela i fiumi, intorpidisce i sensi.
BALBINA
E se vi fossero altre ragioni a rendere piacevoli i monti, i
boschi, gli uragani? Talvolta odo in me strane voci, richiami
come se mi giungessero da lontano, come se uscissero non so da
quali arcane contrade e mi viene in uggia la laguna e penso, con
nostalgia, al paese di mio padre. E penso...
NEMESIO
(interrompendola)
... che a chi è nata e cresciuta in questa laguna, colma di
magia, non sarebbe possibile viverne lontano, e vivere come
vivono, nella loro austera semplicità, le donne pretuziane. Non
è vero Patricia?
PATRICIA
Senza dubbio. Noi non siamo nate per vivere vita monacale.
D'altra parte non si riesce mai a comprendere ciò che si
nasconde nel cuore della donna, nella sua volubilità e nella sua
fermezza, nel suo odio e nel suo amore.
(A questo punto entra la madre di Balbina, Eufrasia, con un uomo
bruno, Matteo, di circa sessant'anni.)
SCENA TERZA
EUFRASIA
(rivolta a Matteo)
Ecco il giovane Montecchi, di cui vi ho parlato, della vostra
terra.
MATTEO
(che va commosso verso di lui, con le braccia aperte)
Figlio di Giulio? O come gli somiglia! Vieni, vieni, figliuolo.
(Lo abbraccia e teneramente lo bacia.)
NEMESIO
(che ricambia confuso e commosso l'abbraccio)
Conoscevate mio padre?
MATTEO
Ero della sua banda e fui con lui in tutti i combattimenti e nel
Pretuzio e in Dalmazia.
NEMESIO
Grande ventura d'aver incontrato un compagno d'armi di mio padre.
MATTEO
Quanti nobili sentimenti infiammavano il suo animo. Amava con
uguale amore famiglia e patria. Ogni mattino e ogni sera,
sull'aurora e sul tramonto, dalla vetta più alta del monte sul
quale eravamo, rivolgeva il suo sguardo e il suo cuore di là
dell'Adriatico, verso la casa e la dolce terra natia.
NEMESIO
Nobile padre! Come cadde?
MATTEO
Da eroe. Si combatteva da più giorni, senza sosta, sul monte San
Salvatore, affidato alla nostra difesa. Eravamo ormai, per le
perdite e per la stanchezza, agli estremi. I turchi, stanchi
anch'essi, a un certo momento, si lanciarono su di noi in gran
numero, con la violenza dell'uragano, che infuriava su quel
monte.
Si cadeva, ci si rialzava, non si arretrava, non si cedeva, si
combatteva. E il combattimento diveniva mischia, lotta
individuale. I maomettani, con le scimitarre in aria bagnate di
sangue, diventavano, per la nostra resistenza, sempre più
feroci. Parve, a un certo punto, che si stesse per cedere.
(Pausa)
NEMESIO
(con ansia)
E poi?
MATTEO
Ma non cedemmo. Su l'ora del tramonto, placato il cielo,
lanciammo sulla strage, il grido della vittoria. Giulio Montecchi
che, combattendo da leone, aveva trasfuso in noi il suo ardore
eroico, giaceva tra i numerosi nemici, trascinati con se nel
regno della morte.
NEMESIO
Gloria a quegli eroi, dal puro sangue italiano. Poi?
MATTEO
Venezia, dopo d'aver degnamente onorato i caduti, in segno d'alta
gratitudine, dette a noi generosa ospitalità.
NEMESIO
E dimenticaste la terra natia.
MATTEO
No, no. Il mio spirito, come quello degli altri qui rimasti, vive
sempre tra le nostre care montagne.
NEMESIO
E non pensate di tornarvi?
PATRICIA
Manco per sogno. Ormai Matteo è nostro.
MATTEO
E già: sono vostro. Lascerò, quindi, le mie ossa, ma con il
pianto nel cuore, in questa laguna, che mi tiene avvinto con la
forza dei suo fascino. Venezia è maga. Se non vuoi essere anche
tu impigliato nella rete delle sue sirene, due delle quali sono
qui presenti, affretta la partenza.
(Tutti ridono.)
EUFRASIA
Ha volontà di scherzare il nostro Matteo, il quale, nonostante
tutto, non disdegna di godersi in gondola, al chiar di luna, le
bellezze, il canto della laguna.
NEMESIO
Per sfuggire a questo pericolo, dopo domani ripartirò.
MATTEO
Bravo. Ed ora, dopo un così inaspettato incontro, vado. Domani
verrò nel tuo alloggio con altri pretuziani che qui vivono, per
affidare a te la nostra voce, il nostro cuore per la terra
lontana, che certo non più rivedremo.
Allora a domani.
(Se ne va e con lui, dopo i saluti d'uso, se ne va pure
Patricia.)
BALBINA
Sicchè dopo domani partite.
NEMESIO
Sì, parto.
BALBINA
E non ci rivedremo più?
NEMESIO
L'avvenire è nelle mani di Dio. E poi, perchè rivederci?
BALBINA
Voi avete svegliato in me una certa angustia.
EUFRASIA
Ma che dici, Balbina.
BALBINA
Perdonatemi. Talvolta si fantastica per impulso di giovinezza.
NEMESIO
Della spensierata giovinezza. Ma ognuno deve seguire su questa
povera terra la sua strada. Ci siamo incontrati, Balbina, come
due viandanti che debbono percorrere, per fatalità, cammino
opposto. Possono per un momento riposare all'ombra di uno stesso
albero e scambiare affettuose parole. Dopo? Dopo ognuno va verso
il proprio destino.
EUFRAS!A
Così è la vita, Balbina. Essa segue, nelle alterne vicende, il
suo corso.
NEMESIO
Ed ora, sia pure con qualche cosa di mesto nell'anima, vi lascio.
BALBINA
E non tornate più qui?
NEMESIO
Non ne avrò più il tempo. Ricordatevi qualche volta che mio
padre dorme il suo ultimo sonno nell'italianissima Dalmazia, che
è nel nostro cuore, viva come fiamma d'amore.
(S'avviano verso l'uscita. Sulla porta Nemesio stringe
affettuosamente la mano a Eufrasia. Poi, come mosso da viva
tenerezza, abbraccia, come una sorella, Balbina, la quale rompe
in lagrime.}
CALA LA TELA
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Di nuovo nel giardino della villa di Giancario, dove si trovano,
nell'alzare il sipario, la zia Paola e Bibiana, sua amica di
giovinezza.
PAOLA
(come cosa nuova, anche se sempre ripetuta, mestamente)
Anche noi, col volar degli anni, siamo divenute vecchierelle. Ben
cinquanta primavere, qui ce lo possiamo dire chè nessuno ci
sente, pesano ormai sulle nostre spalle.
BIBIANA
Cinquanta già?
PAOLA
Si, cara, cinquanta.
BIBIANA
O Dio come passano gli anni. Ma io non li conto più. Non
festeggio più il giorno della nascita.
PAOLA
Ma se non siamo noi, sono le care amiche a ricordarli, con tutta
la loro graziosa lepidezza.
BIBIANA
Ma anche cinquanta non sono poi tanti, quando di primavere,
magari senza più fiori, se ne possono vivere cento.
PAOLA
Una volta, al tempo di Noè, quando gli uomini, dopo il castigo
di Dio, usciti dall'arca, vivevano vita sana e bevevano vino
genuino.
BIBIANA
O cinquanta o cento non si tratta, poi, che di anticipare o
ritardare il gran viaggio, per lasciare il posto agli altri.
PAOLA
Che entrano col pianto, come un monito, nei regno del travaglio.
BIBIANA
E ne escono col pianto.
PAOLA
Trascinando nella tomba i sogni, le speranze, le delusioni, le
poche gioie, i molti dolori.
BIBIANA
Ma non ci pensiamo. Ci sarebbe da uscir matti a considerare la
vita nelle sue strane vicende. Dimmi piuttosto che c'è di nuovo
sul conto della tua bella nipote Clara.
PAOLA
Cosa vuoi che ci sia di nuovo! Certi caratteri sono di granito:
si spezzano, non si piegano e Clara non si piega. È proprio un
peccato, chè il giovane Montanari, con le sue ricchezze, le
poteva rendere davvero lieta la vita. Invece no. Invece vuole
sposare, contro la volontà del padre, un tale Nemesio, figlio di
bandito, che ne ha conquistato l'ingenuo cuore.
BIBIANA
Ne ho inteso parlare, ne ho inteso parlare.
PAOLA
La donna quando s'incapriccia è un guaio davvero.
Non vi sono santi a farla rinsavire. Il pentimento giunge sempre
troppo tardi.
BIBIANA
Non so che dire, cara Paola. La quistione è molto seria. Non
sempre però la ricchezza procura quella felicità che è nel
sogno della giovinezza. Non ti ricordi il caso della Dorotea? Era
davvero, con i suoi venti anni, un canto d'amore. Per ubbidire,
appunto, ai genitori, in fatto di matrimonio, fu ricca, non
felice. Dopo la prima fiammata, ombre fredde scendevano ad
avvolgerla di tristezza. Fuori di casa e in cento vizi l'indegno
sposo consumava il suo tempo e il suo danaro. Non ebbe la nostra
povera amica neppure il conforto dei figli e a quarant'anni,
quando la vita è ancora bella, andava a cercare pace tra i
cipressi, nel silenzio eterno.
PAOLA
Fatto pietoso, ma non riservato soltanto ai ricchi. Anche nelle
case dei poveri non manca il pianto della discordia.
BIBIANA
È vero anche questo. E ora dove è questo Nemesio?
PAOLA
Si dice che sia andato in Dalmazia, per visitarvi la tomba del
padre, là sepolto, quindi si recherebbe a Venezia.
BIBIANA
A Venezia? Povero giovane.
PAOLA
Perchè?
BIBIANA
Venezia, come si racconta è come il regno delle fate, dagli
incantevoli giardini, dalle offerte maliose: chi vi capita non ne
esce più.
PAOLA
Ma se Clara è forte, non meno forte è nei propositi il giovane
Nemesio.
BIBIANA
(guardando verso destra e alzandosi)
Viene Clara.
CLARA
(quando giunge, rivolta a Bibiana)
Ve ne andate?
BIBIANA
È tardi. Debbo poi andare per trovarmi in tempo nella chiesa dei
Cappuccini, per il mese di maggio. (Guardando il cielo) Anche
questo tempo non mi piace. Il temporale è in aria. Ma tornerò,
tornerò presto, Clara, per godere la tua graziosa compagnia.
PAOLA
(che pure si alza)
Allora andiamo ad accompagnare la cara Bibiana sino al cancello.
(Tutti escono dalla parte di sinistra. Il palcoscenico resta per
un momento vuoto.)
SCENA SECONDA
CLARA
(nel rientrare con la zia, poco dopo)
Ecco l'ora più mesta, cara zia, per l'anima mesta. Dopo il
giorno che conforta con la sua luce e le sue armonie, scende la
notte a ricordare, con il pianto delle ombre, la fugacità delle
umane cose.
PAOLA
Ma dopo la notte, come dopo un placido riposo, più bella torna
la luce del giorno, come più bello torna il sereno, dopo la
tempesta.
CLARA
Ma da troppo tempo, con i tanti contrasti, dura la mia notte.
PAOLA
Che tu hai voluto, mia bambina. Se avessi ascoltato i consigli di
tuo padre...
CLARA
(senza far completare il pensiero)
E sulla notte non sarebbe più sorto il giorno. I diritti del
cuore sono sacri. Nessuna scintilla può brillare da un corpo
senza fuoco.
L'amore, il vero amore, è tutto nella vita.
PAOLA
Pietosa illusione, della giovinezza senza esperienza. Guardando
in un mattino di maggio la vermiglia aurora, l'anima ne è
avvolta, inalzata a un cielo luminoso e nella dolce estasi si
dimenticano gli affanni terreni. Ma come l'aurora, breve è la
giovinezza, amaro il risveglio.
CLARA
E allora nulla contano i canti elevati da anime divine al più
divino dei sentimenti?
PAOLA
La solita capanna, resa suntuosa dalla fusione di due anime, in
armonia d'affetti. Ma l'armonia, come il fuoco dopo la fiammata,
s'attenua, si spegne e la capanna resta, nella realtà del
vivere, con la prosa, nella sua fredda nudità.
CLARA
Che avrei dovuto fare?
PAOLA
Ubbidire al padre.
CLARA
Col far tacere la bellezza dello spirito, per dar voce all'opaca
materia? No, no, zia. Meglio la capanna povera, resa calda dalla
simpatia, che le dorate gelide mura della reggia senza luce.
PAOLA
Non insisto. Che Iddio ti illumini, cara nipote, per il tuo
meglio.
CLARA
Io vivo nella fiducia, anzi nella certezza, zia, che Nemesio,
tanto buono, mi saprà far felice. La voce del cuore
difficilmente erra.
PAOLA
Possono errare i fatti ed esempi non se mancano.
(A questo punto si vede avanzare nel giardino, sul quale cadono
le ombre della sera, un mendicante. Spia? Forse. Quando arriva
vicino alle donne)
MENDICANTE
(togliendosi il cappello)
Qualche cosa per i vostri morti.
PAOLA
Andate, andate col nome di Dio.
MENDICANTE
Ma datemi qualche cosa, appunto in nome di Dio.
PAOLA
A quest'ora? Andate, andate, vi dico. Altri son venuti prima di
voi.
(Il mendicante, con bisaccia e bastone, un po' curvo, guardando
con aria sospetta a destra e a sinistra, se ne va brontolando.)
CLARA
Perdonate, zia. Nulla si nega a chi per fame tende la mano,
specialmente se vecchi e in tempo calamitoso come è il nostro
tempo.
PAOLA
È vero. Può darsi che quell'uomo, dallo sguardo torvo, sia un
povero, ma potrebbe essere anche una spia o un compagno tenebroso
della donna di Spiano, che questa mattina, con tanta insistenza,
ti voleva predire l'avvenire.
CLARA
Qualche cosa mi ha detto, con tinte rosee.
PAOLA
Come sempre fanno queste diaboliche donne, maestre di filtri, di
fatture, di veleni. Ne sanno più del demonio. Non hanno scrupoli
nell'inoculare, con erbe, polveri e altri malefici, il germe
malefico della passione irresistibile.
Non vorrei che anche tu ne fossi vittima. Nemesio, accecato anche
lui da torbidi sensi, può essersi rivolto, per conseguire il suo
intento, a qualcuna di queste fattucchiere.
CLARA
Ma che dite, zia. I sentimenti che Nemesio ha svegliato nella
profondità del mio cuore sono forti sì, ma sinceri, puri,
cristiani.
PAOLA
Sei, poi, proprio sicura che Nemesio torni? Difficilmente chi
giunge a Venezia, come poco prima ha detto Bibiana, si salva
dalle sue sirene.
CLARA
Ma Nemesio, che non somiglia agli altri, si salverà, non solo,
ma a quest'ora è già sulla via del ritorno. Le rose che
dovranno inghirlandare il nostro giorno felice stanno per
schiudersi al canto d'amore. Pieno di fiori dovrà essere il
nostro cammino, in ogni ora, in ogni stagione.
PAOLA
Godi, godi, nipote, di questi attimi che la vita offre, con i
rosei sogni, alla fiduciosa giovinezza. La realtà, purtroppo, è
sempre lontana dalle visioni, dalle promesse del mattino.
(In questo momento un lampo illumina le nubi nere che corrono per
il cielo, seguito da un tuono.)
Ecco l'immagine della vita: agli sguarci sereni seguono
immancabili le tempeste.
CLARA
O Dio, zia: mi turba davvero questo vostro parlare.
Con una inspiegabile angustia, neri presentimenti invadono
l'animo mio. Non cantano più gli usignuoli nella siepe, nè i
grilli nel prato, nè i ranocchi nel pantano.
Ora funesta. Ritiriamoci, zia, ritiriamoci, che sta per
scatenarsi l'uragano.
PAOLA
(mentre i tuoni, tra il lampeggiare, si fanno più rumorosi)
Restiamo, restiamo ancora. Talvolta è bello rimanere saldi tra
lo scatenarsi della tempesta.
CLARA
(mentre s'ode il rintocco d'una campana)
Suona già un'ora di notte. Siamo sole e io ho paura. Perchè il
padre non torna?
PAOLA
Lo trattengono nel giuoco i soliti sfaccendati amici.
CLARA
Amici di perdizione.
PAOLA
Il giuoco, nel quale molti si rovinano, è il vizio maledetto di
molti nostri signorotti. Non sanno, nel loro ozio, come meglio
passare il tempo. E a dire che ci sarebbero tante cose utili da
fare, per aiutare il popolo, alleviare la miseria.
CLARA
(mentre una folgore scoppia rumorosa poco lontano)
Andiamo, andiamo, zia.
(Stanno per muoversi, quando due uomini mascherati compariscono
in fondo al giardino e avanzano muti come fantasmi. Le donne,
allorchè avvertono la presenza, vorrebbero fuggire, ma non ne
hanno a tempo.)
CLARA
(afferrata da essi, dibattendosi, grida)
Aiuto, aiuto...
PAOLA
(che corre in soccorso della nipote, anch'essa grida)
Aiuto. Assassini, briganti. Tonio. Berardo. Aiuto, aiuto.
(Ma i due, liberatisi, con una spinta, di Paola, si allontanano
verso la collina di Torricella. Paola, che non vuole lasciare
sola la nipote, che sempre grida, li segue.
Intanto un contadino, della vicina casa colonica, che ha inteso
urlare, accorre con una forca in mano.)
TONIO
(il nome del contadino, che si mette subito alla ricerca, chiama)
Donna Paola, donna Clara...
GIANCARLO
(che di ritorno da Teramo, sbigottito dalle grida, entra
affannato nel giardino)
Tonio, che è stato, che è successo. Parla, parla Tonio.
TONIO
Ho inteso gridare. Sono accorso. Non ho trovato nessuno. La casa
è vuota.
GIANCARLO
(sempre più agitato, tra il rumore del tuono)
Ma cosa è stato... Cosa è stato... Dov'è Clara, dov'è
Paola. Parla. Parla.
TONIO
Non so, non so. Giunto qui ho inteso altre grida verso
la collina (indicando colla mano dalla parte di Torricella.)
GIANCARLO
Torricella? (Resta un po' pensoso. Dopo)
Ho capito, ho capito, Tonio. Sciagurato, vile, infame. Lo
raggiungeremo, lo raggiungeremo.
(Corre verso casa. Torna subito con un archibugio e con un
pugnale.)
Andiamo, Tonio. Andiamo. La notte che il fellone credeva d'amore,
sarà per lui notte di sangue.
(Partono. Il temporale ha diminuito di violenza. Si ode l'abbaiar
di cani. Appaiono altri contadini, agitati, armati di forche.
Mentre chiamano e frugano qua e là)
CALA LA TELA
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
In un salotto della stessa villa di Giancarlo. Seggono presso un
tavolo e parlano Clara e la zia Paola. Pomeriggio d'un giorno
d'autunno. S'ode nella campagna il canto in coro delle
vendemmiatrici.
CLARA
(afflitta)
Abiteranno in modeste case, vestiranno ruvidi panni, mangeranno
comuni cibi, ma quelle contadinelle che, nella gioia dello
spazio, si espandono come fiori, godono appieno la serenità
della vita.
PAOLA
E' vero. Ma anch'esse hanno le loro ore meste, alle quali, come
legge inesorabile, nessuno sfugge, neppure gli animali. Ove è
una casa, ove è un fuoco, ove palpita un cuore, ivi è tormento.
CLARA
Tormento che si alterna con la pace, come la burrasca s'alterna
con la bonaccia, la tempesta con il sereno. Non è stato così
per la povera mia vita. Il primo vagito coincise, dolorosamente,
all'ultimo respiro della dolce madre. Non rose adornarono la mia
cuna, ma crisantemi la bara affiancata, per un senso d'alta pietà,
alla mia cuna ornata di nero. A me quindi non fu concesso di
sentire la voce più dolce, l'ansia più affettuosa, la carezza
più morbida della donna più santa. E quando parve che un raggio
di sole giungesse a riscaldare questa casa fredda d'affetti, la
valanga scese a gettarvi nuovo scompiglio, la sventura nuova
afflizione.
PAOLA
Ma se forte è la fede, salda la volontà anche sulle distruzioni
possono tornare a rigermogliare i fiori della speranza.
CLARA
Che speranza, che speranza! Non vivrò d'ora innanzi che come
pallido fior di serra, in via di disfacimento.
PAOLA
A venti anni? Sulla primavera, qualunque la tempesta, la luce
torna sempre calda di vita e di festa.
CLARA
Ma spesso questa luce non torna che a illuminare le macerie che
non più si ricompongono.
PAOLA
Ma ragioniamo, ragioniamo, Clara. Tuo padre...
CLARA
(interrompendola)
Povero padre! Anche a lui non è stata benigna la fortuna.
Macchiarsi persino le mani di sangue... Anch'io, nella notte
funesta, mi macchiai, per l'onore, le mani di sangue... Non si può,
in taluni ricordi, tinti di rosso, non essere scossi da brividi
mortali.
PAOLA
Non si fanno talvolta brutti sogni? Il tuo, nelle tante vicende
umane, non è stato che un brutto sogno, che si deve dimenticare,
tanto più che tuo padre sta per tornare; Nemesio, rientrato da
Venezia, a quanto si sa, si va rasserenando sui crudele sospetto.
CLARA
No, no, zia. Ormai tra me e Nemesio si è scavata una voragine
che nessuno mai potrà ricolmare. Il giglio, sfiorato da maligno
alito, anche se non contaminato, non serba più in purezza il suo
candore. Inoltre i dubbi che Nemesio non seppe nascondere sulla
notte nera, renderebbero sempre freddi i nostri affetti. E poi,
l'ombra che, nella tragedia, sanguina cupa nel bosco, non
lascerebbe in pace la nostra esistenza.
No, no. Questa casa, ove si raccolgono tante memorie, in cui
dovevano risuonare altre voci, d'ora innanzi, nel chiuso
silenzio, costituirà la mia clausura.
PAOLA
Resteresti qui?
CLARA
Sì. Non andrei a portare il mio pianto, come è consuetudine,
dove, per la santità del luogo, si deve soltanto meditare,
pregare, espiare.
PAOLA
E che dirai a Nemesio quando, tra poco, sarà qui?
CLARA
Che tutto tra noi è finito.
PAOLA
Credi tu che si possa agevolmente far tacere il cuore in fiamma?
CLARA
Non lo credo. Ma bisogna sapersi arrestare, quando in fondo alla
via di luce s'intuisce la tempesta. Sono quasi pentita d'aver
concesso quest'ultimo incontro. Ricevilo tu, zia, ricevilo tu.
PAOLA
Bussano.
CLARA
È certamente lui.
PAOLA
Vado a vedere. (Va alla finestra, guarda, rientra) No, non è
Nemesio. È Rita, con l'uva. Vado ad aprire.
SCENA SECONDA
CLARA
(quando Rita, una bella contadinotta, le è dinanzi con la cesta
dell'uva)
Brava, Rita. L'offerta dell'uva è gentile e significativa come
l'offerta dei fiori. La vendemmia è dolce come una poesia,
musicale come un canto: l'ultimo canto, del poema santo, della
fecondità dei campi. E voi lo sentite, e voi cantate, con Non so
che di melanconico nella vostra voce, su questo mistico dramma.
Cantate in coro sui vostri sogni, sulle vostre speranze, sul
vostro amore, che non tradisce.
RITA
È quanto vi è di meglio nella nostra vita. E questa sera,
mentre i passeri, fedeli nostri compagni, cinguetteranno sulla
vecchia quercia, noi, ai suono dell'organino, balleremo il nostro
saltarello. E questa sera è chiaro di luna. E faremo il ballo
del sospiro, della seggiola, del bacio.
Venite anche voi?
CLARA
Verrei se potessi rimanere con voi, vivere della vostra
spensierata vita. Ti ricordi, Rita, quando bambine rincorrevamo
festose, per i prati, le farfalle dai cento colori? E facevamo le
casette, e raccoglievamo i fiori per le nostre bambole? Beati
tempi! Nessuna differenza di nascita, di casta, di ricchezza
allora ci separava e nessuna angustia tormentava il nostro
spirito infantile.
RITA
Ma siete stata sempre buona con me, sempre affettuosa. Se vi
potessimo avere con noi questa sera. Ma se non venite voi,
verremo noi questa sera, sotto la vostra finestra, a farvi la
serenata.
(S'ode ancora nella campagna il canto delle vendemmiatrici.)
Udite?
CLARA
Odo, odo.
Rimangono in ascolto. Dopo non molto si sente di nuovo bussare.)
PAOLA
(che nel frattempo, mentre ascoltava, sfogliava un libro, va alla
finestra)
È lui. Vado ad aprire. Vieni Rita?
CLARA
Va, va, con la tua gioia.
(Rita saluta ed esce con Paola. Clara, seguendola con lo sguardo)
Quanto t'invidio, cara fanciulla. (Si ritira.)
SCENA TERZA
NEMESIO
(che entra con Paola e come continuando in un discorso)
Ma non c'è?
PAOLA
No... ossia o e ma come se non ci fosse. Perchè rivederla? Chi
passa la soglia di questa casa, dopo quanto è accaduto, è come
se passasse, per voti, la soglia d'un convento: voti
irrevocabili.
NEMESIO
Anche i miei voti, dopo le prime sconsolate considerazioni,
parevano irrevocabili. Salii i colli, le valli, i monti; penetrai
nei boschi, urlai come lupo, per placare lo spirito sconvolto, ma
inutilmente. Una forza irresistibile m'attraeva verso Teramo, mi
spingeva a rivedere, se non altro, anche da lontano, questo caro
tetto e poi scomparire per sempre. Di poggio in poggio, di tappa
in tappa, senza che me ne avvedessi, giunsi una prima volta a
bussare a questa casa ed ora vi sono tornato, come un penitente.
PAOLA
Venezia vi è stata fatale.
NEMESIO
Ma non potevo eludere la missione a me affidata, con serena
fiducia, da mia madre, nella sua ultima ora.
PAOLA
Certo. Sacro sempre è il comandamento d'una madre. E ora che
intendete di fare?
NEMESIO
Rivedere Clara e poi... e poi...
PAOLA
(interrompendolo)
Ma perchè continuare a esacerbare, senza speranza, l'ampia
ferita?
NEMESIO
È vero. Ma la pietà ha pure un nome, lo strazio una pietà e
l'ultima parola non è stata ancora detta.
(Entra in questo momento Clara, mossa da pietà.)
NEMESIO
(che era seduto s'alza, confuso. Paola se ne va.)
Clara... perdonami. Ho lottato, ma ho perduto e sono qui. A ogni
modo non è male che si dica ancora una parola, prima che il
nostro amore scenda a seppellirsi nell'urna dell'oblio.
Oblio! Talvolta si dovrebbero davvero alzare i pugni in aria e
maledire.
CLARA
Maledire chi? I mali che turbano l'uomo derivano dalla
cattiveria, dai difetti, dalle insane sue passioni, non dal
cielo, soggiorno di luce, di promesse, di pace.
NEMESIO
Ma che male io ho fatto? E a dire che ero uscito vittorioso dalla
pericolosa prova di Venezia ed ero tornato, nella gioia, con
l'animo pieno di te. Quanti nuovi sogni! Invece?... No... no. Non
si può Clara non elevare alta la voce della ribellione.
CLARA
Non ne vedo la ragione. La tua giovinezza senza macchie ti
conforta a camminare verso altra più lieta mèta. Non è così
per me, per la mia vita avvolta di ombre.
NEMESIO
(con nuova commossa passione)
Ma queste ombre, se si volesse, potrebbero essere fugate. In
questi giorni d'angoscia ho tanto, tanto fantasticato sui drammi
d'ogni tempo, nel teatro degli affetti. Vi erano state
sull'altare dell'amore sante vittime; ma vi era pure stato, in
una superiore forza, il trionfo dei diritti del cuore.
Anche noi, in una maggiore serenità, potevamo dimenticare, come
si dimenticano i sogni tristi, l'episodio maledetto e riprendere
il dolce cammino.
CLARA
(come toccata nella parte più sensibile dell'animo commosso)
Riprendere il cammino! Caro è l'invito, teneri i pensieri che
gettano, sul paesaggio sconvolto, fasci di confortevole luce,
ma...
NEMESIO
Ma che cosa...
CLARA
Che le cicatrici delle ferite del cuore, come le cicatrici della
carne, rimangono sempre a rammentare il fatto che le produsse.
Non ricordi il caso della povera Maria?
NEMESIO
(molto afflitto)
Il confronto non mi lusinga, Clara.
CLARA
Mi è suggerito da una certa esperienza, anche se giovani sono i
miei anni.
L'amore suona, generalmente, nella prima giovinezza, con la
dolcezza dell'arpa; sfolgora magari più tardi con la
magnificenza d'una primavera in festa. Dopo? La primavera sfiora,
qualche burrasca guasta qua e là il bel paesaggio e arrivano le
delusioni, i rimpianti, le sofferenze. E allora? Allora torna in
atto, con la sua asprezza, il caso della povera Maria.
PAOLA
(che ha evidentemente inteso ciò che è stato detto, rientrando)
A me sembra che si esageri su questo episodio che, per quanto
maledetto, non ha nulla contaminato.
NEMESIO
Brava donna Paola: umana, saggia è la vostra parola. Non è vero
Clara?
CLARA
Pietosa, non saggia, ché, quando tutto si superasse, non
mancherebbero i maligni a gettare ombre sulla santità della
nostra unione.
NEMESIO
(come confortato da una nuova speranza)
Ma per sfuggire a queste ombre potremmo andare a costituire il
nostro nido, come le rondini, lontano, tra altra gente, sotto
altro cielo.
CLARA
(che non aveva forse mai pensato a una tale possibilità, come in
un risveglio)
Lontano?
NEMESIO
Lontano, si...
PAOLA
Coraggio, Clara.
CLARA
(come smemorata)
Lontano!...
PAOLA
Su, Clara. La vita ti chiama. La promessa è bella.
CLARA
(resta un poco pensosa. Dopo, come in una reazione)
No... No... Non è possibile, non è possibile.
(S'ode un canto in coro d'un pellegrinaggio, diretto al Santuario
della Madonna delle Grazie. Rimangono in ascolto. Quando il canto
si perde in lontananza)
PAOLA
(come ispirata)
Non avete mai pensato a quella nostra Madonna che tante grazie
elargisce a chi, con fede, ad essa si rivolge?
NEMESIO
Ecco un raggio di luce sulla nostra oscurità. Vado, vado anch'io
con quei pellegrini a invocare la grazia che deve dare a noi la
pace.
PAOLA
Va, va Nemesio e va con fede.
NEMESIO
Con fede ferma e con speranza. (Saluta e va.)
PAOLA
E Nemesio tornerà con quella grazia che dovrà fugare gli
scrupoli, vincere i vani fantasmi.
CLARA
Vana illusione. Io venero la Madonna, ma sento che nessuno mai
potrà allontanare lo spettro che s'aggira in questa casa torvo
nella sua ira, nella sua minaccia, nel suo sangue: spettro che
potrà essere placato soltanto con la mia rinuncia, con il mio
sacrificio.
(Si sente ancora bussare al portone.)
PAOLA
(che va alla finestra, con ansia)
È tuo padre, Clara.
CLARA
O padre...
(Corre commossa con la zia verso di lui. Nel rientrare uniti nel
salotto)
Padre, padre mio!
GIANCARLO
Figlia, figlia mia cara!
CLARA
Padre, padre!
GIANCARLO
(vinto dalla commozione, quasi in lagrime)
Quanto, quanto ho sofferto, figlia mia, nel silenzio della
montagna, tra le tenaglie del rimorso. Ora soltanto capisco che a
nulla vale l'oro se, nell'incontro di due anime, manca la bontà,
la tenerezza, il canto spontaneo e divino del cuore. Altre
sarebbero oggi le nostre condizioni se non fossi stato tanto
ostinato nella mia cecità.
CLARA
È inutile affliggersi ancora, padre, su ciò che non potrà
essere mai modificato.
GIANCARLO
Invece ti dico, figliuola che non tutto è perduto.
PAOLA
Ho fatto a Clara, presso a poco, lo stesso discorso, ma
inutilmente.
GIANCARLO
Sui campi della tempesta, devastati nella terribile notte, tornò,
con il sole, a rigermogliare ricca la vegetazione. Anche in
questa casa deve tornare, con la fede, la ragione della vita.
PAOLA
E Nemesio è in ansiosa attesa d'una risposta.
GIANCARLO
Nemesio?
PAOLA
Si ed è al Santuario a pregare.
GIANCARLO
Caro ragazzo, figlio di eroe, degno della nostra casa. Le valli,
i boschi, i monti, dove io sono stato, cantano le gesta gloriose
del prode genitore; cantano della madre, santa in amore, le gesta
eroiche di Poggio Umbricchio. E poi, figlia, non dobbiamo
aggiungere le angustie della famiglia alle angustie di questa
nostra povera terra, avvilita dai rinnegati, straziata dallo
straniero. Le famiglie sane hanno il sacrosanto dovere di
accrescerne, con la prole, la forza, per le giuste
rivendicazioni.
Tu intendi cosa io voglia dire.
CLARA
Comprendo, comprendo, padre. Ma io odo una voce, vedo nell'ombra
uno spettro che sta minaccioso tra il passato e il futuro, tra un
vivo e un morto. Ormai, padre, il sipario è fatalmente disceso
sul dramma, conclusosi nel pianto. Sacrilego sarebbe, padre,
passare comunque sul sangue, per raggiungere la mèta senza pace.
GIANCARLO
No, no, figlia. Il sangue del perfido non macchia. Di troppo la
tua sensibilità offusca la tua mente, sconvolge il tuo spirito.
Il lupo che artiglia l'innocente agnello, lo sparviero la candida
colomba, debbono essere uccisi e ucciso fu chi, con la torva
violenza, voleva togliere a te il candore, a me l'onore, a questa
casa la santità.
PAOLA
Ascolta, ascolta, Clara, la parola di tuo padre, da tanto tempo
attesa.
CLARA
Troppo tardi, zia. Perdonatemi.
PAOLA
Non è mai tardi nell'attuare la bontà.
(S'ode ancora bussare al portone. Paola che va a vedere,
annunzia)
È Nemesio.
GIANCARLO
Nobile giovane!
PAOLA
(avvicinandosi con particolare affetto a Clara)
Non senti Clara la voce che ti invita a ubbidire a tuo padre? Su
di' la parola che deve ridare vita a questa casa.
(S'ode di nuovo bussare.)
Dunque?
(Sale intanto dal di sotto la serenata delle vendemmiatrici.)
GIANCARLO
Dunque?
(Clara raccolta in sè, china il capo sul tavolo, presso il quale
va a sedere, se non vi è già seduta. Il padre e la zia le si
avvicinano, premurosamente.)
PAOLA
(che si china ansiosa su lei)
Dunque?
(Mentre Clara rompe in pianto e la serenata continua)
CALA LA TELA
FINE DEL DRAMMA
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