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Scompiglio nel bosco
[15] Verso le ore undici dello stesso giorno venticinque la città
vedeva, con sgomento, sfilare lungo il corso S. Giorgio, con il
maggiore Bologna, una parte di quel battaglione, diretto a
riconoscere le posizioni occupate dai ribelli. A Torricella i
componenti, evidentemente già a conoscenza della sua attività,
eseguivano una perquisizione in casa del dottore Capuani, ed
interrogavano il maresciallo dei carabinieri, ma senza positivi
risultati.
Poco dopo, ripresa la marcia, s'imbattevano, malauguratamente, in
un uomo, seduto su un ponticello. Sottoposto ad interrogatorio,
con invito di dire dove fossero i ribelli, e di dire la verità,
pena la vita, indicava con la mano un mulino, che si vedeva nel
basso, di proprietà del De Iacobis. Ad un ordine del capitano,
che li comandava, una cinquantina d'armati correvano a
circondarlo da ogni parte. Dopo una breve azione di fuoco, vi
catturavano sette partigiani, addetti al servizio dei
rifornimenti, e molto materiale, che era distrutto. I partigiani
erano condannati alla fucilazione, sospesa, pel momento, per il
coraggioso intervento del Bologna.
Nelle vicinanze di Rocca S. Maria, essendo ormai in vista, la
colonna riceveva il primo saluto, con la voce dei cannoni, messi
in azione dai ribelli; quella voce che anche a Teramo, ove era
giunta chiaramente, produceva molta commozione. I Tedeschi, che
avevano avuto colpito qualche autocarro e ferito qualche soldato,
cercavano, in tutta fretta, salvezza in un angolo morto, nei
pressi della frazione di Paranesi. Da quella località
predisponevano un attacco, allo scopo evidente di accertare di
quali forze disponessero i partigiani, e come distribuite. Avanti
al plotone, destinato all'azione, dopo avergli legate le mani
dietro la schiena, con slealtà militare, mettevano il nostro
ufficiale e i sette catturati, costringendo, inoltre, questi
ultimi, a spingere innanzi cannoncini da trincea. Ma l'attacco,
facilmente contenuto, non era spinto a fondo.
Ad un certo momento il capitano prussiano, in relazione forse al
suo piano, dava l' ordine di ripiegamento su Paranesi, per
rientrare, nella sera stessa, a Teramo.
Nel frattempo un loro maggiore medico, non conoscendo i luoghi,
si spingeva, in motocicletta, tra i partigiani, dai quali era
fatto prigioniero.
Prima di lasciare la località, nonostante il nuovo intervento
del Bologna, i Tedeschi disponevano per la fucilazione dei
catturati. Cadevano così, sotto l'iniquo piombo, vittime di una
propria fede, i giovani Mario Lanciaprima, Guido Palucci, Guido
Belloni, Gabriele Melozzi e Luigi De Iacobis. Si salvavano, come
per miracolo, Berardo Lanciaprima, che nello stesso momento in
cui si faceva fuoco, sottraendosi alla raffica, si precipitava
nel sottostante burrone, e Gennaro Di Berardino, che cadendo
svenuto, senza essere stato colpito, era ritenuto morto e
abbandonato.
[16] Nei giorni che seguivano si presentava a me il Signor Arduino
Correale per studiare insieme la possibilità di ricuperare, per
condurle a Teramo, le salme insepolte dei caduti. Ma per allora,
per ragioni complesse, con nostro rammarico, non si potè
condurre a compimento il pietoso atto, come più tardi fu fatto
per altri.
A Teramo consentivano al Bologna di rientrare in famiglia, ma
sempre in istato d' arresto, quindi vigilato. Nel mattino
successivo, avvertito dalla Prefettura che anche lui, secondo
l'ordine del colonnello comandante della piazza dell' Aquila,
doveva essere fucilato per intesa con i partigiani, in abito
civile, riusciva abilmente ad allontanarsi, conducendo con sè la
famiglia.
A ciò era indotto questo valoroso ufficiale superiore, la storia
del quale si pregiava, per opere di pace e per opere di guerra,
di pagine davvero superbe. Questo ufficiale, al quale, appunto
per le sue speciali doti, erano state affidate, nella carriera
missioni di alta fiducia, in ogni ordine, in ogni tempo. Il poeta
ultimo del rinnovamento e della patria, che lo aveva avuto
addetto alla sua persona, aveva nutrito per lui stima ed affetto.
Questo ufficiale superiore, che trovandosi a Teramo, di ritorno
dall'Albania, in regolare licenza di smobilitazione, se ne
sarebbe potuto rimanere tranquillamente nella sicurezza della sua
casa; ma quando sapeva che in quel momento molto oscuro quasi
tutti gli ufficiali, anche quelli che esercitavano comando, erano
scomparsi, correva, senza esitazione, come in trincea, a
prenderne il posto.
Il suo allontanamento, che si trasformava per lui e per la sua
famiglia in una vera odissea, molto addolorava perchè molto si
sperava dalla sua intelligente, equilibrata, ferma operosità,
dal suo sano patriottismo.
Il ritorno in città non significava, per i Tedeschi, rinuncia
alla lotta. In quella stessa giornata, infatti, e nella notte,
destando non poche preoccupazioni, specialmente nelle autorità
ed in coloro che avevano al bosco mariti, figli, fratelli,
continuavano ad arrivare, da Pescara e dall'Aquila, notevoli
rinforzi, che proseguivano, dopo breve sosta, per la zona
montana.
Sull' alba del ventisei il cannone, con cupi rombi, che si
ripercuotevano di valle in valle, di poggio in poggio sino alla
pianura, annunziava alla città la ripresa del combattimento.
I partigiani avevano cercato, nell' attesa, di meglio predisporsi
a difesa, ma non tardavano a sorgere tra essi dissensi. Nel darsi
lassù un ordinamento, non riuscivano i capi a mettersi
d'accordo. Ognuno riteneva di possedere i requisiti per
esercitare le funzioni di comandante, disdegnando i diritti che
agli altri potessero competere per la maggiore capacità, età e
grado militare. Il capitano Bianco, ad esempio, molto impulsivo,
non intendeva cedere il comando tattico, che già esercitava,
quando tra gli ufficiali vi era il t. colonnello Taraschi, reduce
da molte guerre. La discordia, che nella discussione si allargava
sempre più, anche per la scelta della posizione sulla quale fare
la maggiore resistenza, non poteva non avere, di fronte alle bene
agguerrite truppe tedesche, conseguenze dolorose.
[17] Ciò nonostante, anche quel giorno, per bravura della loro
artiglieria, comandata dai capitani Adamoli e Lorenzini,
resistevano, in qualche modo, agli attacchi nemici.
Mentre nel bosco si lottava, i Tedeschi rimasti a Teramo,
ritenendo che quella resistenza, favorita dal terreno, non
potesse essere stroncata, pensavano per rimuoverla di ricorrere
ad altri mezzi. Alcuni ufficiali, in vero, presentatisi al
Prefetto, dopo un riepilogo della situazione, gli dichiaravano,
con la consueta durezza, che se quelle bande non si fossero
sciolte entro un dato tempo, sarebbe stata compiuta, su Teramo,
per rappresaglia, una forte incursione aerea.
Molto turbato e preoccupato, il Prefetto, che aveva in me molta
fiducia, me ne dava subito comunicazione. Sperava, poi, che io mi
offrissi di andare al bosco, per persuadere i partigiani, con la
mia autorità. a sciogliersi, a far ritorno alle proprie case.
Offerta brusca, che mi poneva in una alternativa penosissima. Per
scongiurare il minacciato bombardamento, certo funesto alla mia
città e ai miei concittadini, sarei dovuto andare, avrei dovuto
impegnare tutto me stesso, per assolvere nel modo migliore la
dura missione.
Ma come sarei stato accolto dai partigiani, che si erano spinti a
quella avventura tra tanti consensi, entusiasmi, fermi propositi
e belle speranze? E' vero che io avrei parlato a nome della città,
delle stesse loro famiglie, dei loro bambini in pericolo, ma le
mie parole, anche se salivano dal cuore e dalla sincerità,
potevano essere fraintese, sfavorevolmente interpretate. Si
poteva vedere nel mio atto, in quel momento colmo di sospetti, un
eccesso di zelo, se non un inganno, un tradimento.
Non andando, mi sarei assunto ugualmente una grave responsabilità.
Qualora la sanguinosa minaccia fosse stata effettuata, dal crollo
e dalle macerie delle case, con i lamenti dei colpiti, dovevano
salire a me il rimbrotto, la maledizione.
La discussione col Prefetto non poteva non essere larga, minuta,
appassionata. Non poteva sfuggire al medesimo la lotta tremenda
che si combatteva entro il mio animo.
In un certo momento, dopo altre riflessioni, qualunque cosa mi
potesse capitare, decidevo di andare, a condizione, però, che si
accettassero le mie dimissioni da Podestà, appena dopo il
ritorno. Mi pareva che dopo quanto stava per accadere non potessi
più restare a quel posto. Ma il Prefetto non vi aderiva, e
pensava d' affidare quella missione al maggiore Bologna, che
faceva ricercare nella campagna. Ma neppure lui, per altre
ragioni, poteva compierla.
La minaccia su Teramo, quindi, non soltanto rimaneva, ma si
aggravava, essendo stato ucciso nel frattempo, dai partigiani,
quel maggiore medico, che era caduto nelle loro mani.
Nella città in subbuglio ed in panico, intanto, tra il rumore
delle armi, si chiudevano negozi, uffici, istituti, case. La fuga
verso la campagna, verso i luoghi più sicuri, con ogni mezzo,
diveniva sempre più larga, viva, affannosa. Pareva come se si
fuggisse, con le cose più care, da una città colpita dal morbo,
da una città maledetta.
Lassù, nella montagna, coperta di nebbia, il cannone continuava
a tuonare.
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