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La tedesca rabbia
[11] A Teramo, sino a quel momento, non vi erano stati Tedeschi.
Quando si diffondeva la voce, che provocava molto panico, che una
colonna, proveniente dall'Aquila, vi si avvicinava, nascevano,
tra le autoritą responsabili, molte discussioni. I pareri non
erano concordi su la condotta da tenere nei suoi confronti. Anzi,
si produceva a tal riguardo, tra il Comandante del Presidio,
colonnello Leopoldo Scarienzi, ed il capitano dei carabinieri
Ettore Bianco, un vivace diverbio, dal quale si rilevava, con
dolore, il rallentamento di quello spirito di disciplina, che era
stato, nel passato, vanto dell' esercito italiano. Ma forte
dell'autoritą, che gli derivava dal proprio grado, le
disposizioni del colonnello, che concordavano con quelle
impartite dal governo, avevano il sopravvento. Di conseguenza,
quando la colonna, costituita da pochi autocarri e da pochi
soldati, giungeva, si lasciava passare indisturbata.
Una tale determinazione non soddisfaceva l'ardente capitano, che
mosso, evidentemente, da giovanile impulso, aveva ancora per il
superiore vivaci parole; nč soddisfaceva i pił accesi
antitedeschi, che, se non proprio la distruzione, volevano di
quella colonna certo la cattura. Poichč s'annunziavano altri
arrivi, i dissidenti, tra cui alcuni ufficiali, per poter agire
liberamente, deliberavano, in un consiglio, di costituirsi in
bande, per iniziare dalla montagna la ribellione e la resistenza
armata.
Il capitano Bianco trovava un valido sostenitore nel dottore
Mario Capuani, coadiuvato, a sua volta, da un' altra schiera di
giovani. Il Capuani, anzi, nel suo acceso fervore, voleva senz'
altro lanciare alla popolazione, con apposito manifesto, un
invito alla insurrezione. Ma ne era sconsigliato, e a giusta
ragione, da coloro che ritenevano di non scoprirsi ancora, non
soltanto per meglio organizzarsi, ma anche per meglio conoscere
le intenzioni degli Alleati, nelle loro operazioni, sul
territorio nazionale. Da una mossa non bene ponderata, o
prematura, potevano derivare conseguenze molto funeste.
Il manifesto non si pubblicava, ma si facevano altre riunioni, in
posti diversi, per concretare, comunque, un piano organico
d'azione.
[12] Non tardavano, intanto, molti a raggiungere il bosco Martese,
localitą scelta per l'inizio delle operazioni, dove si trovava
gią, per caso, con armi e munizioni, una batteria del 49.
reggimento artiglieria, al comando del capitano Giovanni
Lorenzini.
Raggiungevano, inoltre, il bosco con il t. colonnello Guido
Taraschi, altri ufficiali, tra cui il capitano dei carabinieri
Carlo Canger e il capitano di artiglieria Gelasio Adamoli.
Il movimento non sfuggiva alla cittą, che udiva di notte, nelle
strade, gente affaccendata e il rumore di quegli autocarri, che
trasportavano nel luogo dell'adunata, con nuovi aderenti, il
necessario vettovagliamento, prelevato dai magazzini militari e
fascisti.
Il maggiore Luigi Bologna mandava, con la sua macchina, condotta
dal figlio ventenne Giulio, due stazioni radio, trasmittente
l'una, ricevente l' altra, in dotazione alla sua caserma.
Io osservavo e, per la mia carica, tacevo; ma il prefetto Elmo
Bracali, da poco giunto dalle rovine di Napoli con molta
esperienza, riteneva d'intervenire, per dare qualche utile
consiglio. Il capitano Bianco, al quale parlava, presente il
Bologna, pareva che non disdegnasse i suggerimenti; ma una volta
fuori della Prefettura faceva a suo modo, e prendeva anche lui la
via della montagna.
Accorrevano, inoltre, ad ingrossare quelle bande, essendosi
divulgata la notizia della loro costituzione, anche stranieri,
tra cui qualche ufficiale, fuggiti dai campi, ove stavano o come
internati, o come prigionieri.
Tutto pareva che andasse conformemente ai disegni dei pił
arditi. Ma in molti altri, non sembrando che i Tedeschi fossero
disposti ad andarsene, non tardavano a sorgere dubbi e
preoccupazioni.
La mattina del 25 dello stesso settembre, infatti, verso le ore
cinque, piombava dalla Specola su Teramo, come tempesta, un
battaglione autocarrato, al comando di un duro capitano
prussiano. Occupata la cittą e disposto, nei punti pił
importanti, un servizio di sicurezza, quei Tedeschi, dalla
caserma Costantini, si recavano ad assediare quella dei
carabinieri, nella quale era stata, effettivamente, organizzata
la rivolta. Di lą, con il telefono, invitavano il maggiore
Bologna, che era ancora in casa, a recarvisi subito, ciņ che
faceva, senza preoccuparsi dei pericoli, cui poteva andare
incontro.
Dinanzi a quella caserma, contro la quale infieriva, pel momento,
l'ira teutonica, prelevato dal mio gabinetto podestarile, da un
drappello fortemente armato, comandato da un tenente, e caricato
su un autocarro, tra la curiositą e i commenti del pubblico, ero
condotto anch' io, come ostaggio, quale capo della cittą.
[13] Il fatto, che molto impressionava, produceva molto fermento e
propositi ardimentosi. Un gruppo di giovani, in collegamento
forse con le bande della montagna, armati di bombe e di
rivoltelle, si erano proposti di tentare la mia liberazione.
Intenzione, certo, encomiabile, gesto degno di storico ricordo,
ma in quel momento, dinanzi a quella soverchiante rabbiosa forza
avida di sangue, funeste ne sarebbero state per me, per la cittą
e per gli stessi giovani, le conseguenze. Per fortuna, poco prima
di lanciarsi all' assalto, capitava tra essi il brigadiere dei
Vigili del Fuoco, Armando D'Amico, il quale con fatica riusciva
ą richiamarli alla realtą della situazione. S'allontanavano, č
vero, ma per correre ad appostarsi nei pressi del ponte della
stazione, per tentare colą la mia liberazione, qualora fossi
stato condotto altrove.
Quella caserma, intanto, guardata attorno da una siepe di cannoni
e di mitragliatrici, era, nel modo pił brutale, svaligiata. Il
sangue, dinanzi a tanto scempio, ribolliva nelle vene; ma
purtroppo non si poteva che guardare con le braccia incrociate,
non avendo pił quelle armi, con cui avremmo dovuto difendendoci;
rintuzzare la violenza, tutelare il nostro onore.
Anche i carabinieri, non avvezzi a piegare, frementi nell'
impotenza, erano brutalmente disarmati. Le stesse loro armi
erano, poi, gettate, con violento disprezzo, dall'iroso
straniero, su un autocarro, come preda di guerra. Il pubblico,
trattenuto di lą dal cordone, guardava e mormorava.
Dopo un'attesa incerta di qualche ora, ed un breve colloquio con
un colonnello, tra il generale sollievo, ero lasciato libero. Era
trattenuto, invece, e trattato aspramente, il Bologna, Nel saluto
che ci scambiammo, quando gli passai vicino, si poteva leggere
tutta la tempesta che, per quella nostra sciagurata situazione,
tumultuava in fondo al nostro animo.
Una volta libero tornavo al mio ufficio, ove ero atteso con molta
ansia. Tornava con me l' ottimo funzionario del comune Gino Di
Francesco, che, in uno squisito senso di devozione, con suo
rischio, mi aveva voluto accompagnare volontario in quella
pericolosa avventura.
Nello stesso giorno, in quella stessa piazza del Carmine, nelle
vicinanze della Chiesa, accadeva un fatto molto grave. Un uomo
della campagna, modestamente vestito, si era avvicinato, timido e
bonario, ad un gruppo di quei soldati. Evidentemente doveva
conoscere, forse per essere stato in Germania, qualche parola
della loro lingua. Alcune donne, non molto lontano, con i capelli
arruffati, con gli sguardi torvi, ne osservavano, con sospetto, i
movimenti. Quando pareva loro che quell' uomo, ritenuto spia,
desse a quei soldati indicazioni sulle posizioni occupate dai
partigiani in montagna, esplodevano in un terribile satanico
furore. Si lanciavano sul malcapitato, come belve ferite, lo
afferravano, lo trascinavano con sč, lo atterravano. Senza
alcuna sosta lo percuotevano con zoccoli, sassi, bastoni; gli
tiravano i capelli, gli conficcavano le unghie nelle carni.
Invano il disgraziato gridava aiuto, invocava pietą. I presenti
s'allontanavano, i passanti, inorriditi, affrettavano il passo,
andavano oltre. Gli stessi Tedeschi assistevano alla feroce scena
muti, freddamente impassibili; nč se ne occupavano, nel generale
smarrimento, i carabinieri, nč gli altri agenti della forza
pubblica.
[14] Quando in quelle furie l'ira trovava un pņ di tregua, lo
sventurato giaceva a terra scomposto e senza vita. Non placate
incrudelivano ancora su quel corpo straziato, trascinandolo oltre
la piazza, oltre la strada, per gettarlo dal muraglione, sotto il
quale passava il fiume.
Era il primo sangue, forse, di un innocente, che bagnava, nella
demenza, la nostra civile terra!
In tanta confusione, il prefetto Bracali riteneva opportuno di
invitare ad una riunione, in una sala del comune, cittadini di
ogni ordine e di ogni idea, per una comune intesa sulla condotta
da tenersi nel doloroso frangente. Esposta, nei particolari, la
nuova situazione, per il bene della cittą, raccomandava
ponderazione su ogni atto, calma, prudenza. Raccomandava di
soprassedere, pel momento, nel comune interesse, ad ogni
personale iniziativa, di far tacere ogni moto passionale, per
continuare ad ubbidire alle disposizioni delle competenti autoritą
responsabili. Il pericolo che gravava su la cittą, e per il
concluso armistizio, e per la costituzione delle bande dei
partigiani, doveva esaminarsi, con cuore d' Italiano, con molta
serietą. I Tedeschi, che avevamo ormai in casa, con rabbiosi
propositi, avrebbero inesorabilmente spento nel sangue, come
avevano gią fatto in altre localitą, ogni tentativo di
ribellione.
Raccomandazioni sagge, veramente paterne, da molti perņ non bene
comprese, quindi vivacemente discusse ed anche contrastate.
Si sentiva che la tempesta delle passioni, nel suo tumulto,
travolgeva anche i migliori. Invece in quel momento,
particolarmente delicato, dovere di ognuno doveva essere il
rispetto alle leggi, con la conseguente ubbidienza alle autoritą,
che guardavano lo svolgersi degli eventi da un punto di vista
molto diverso da quello della comunitą.
Gli scatti improvvisi popolari possono talvolta, con la luce che
sprigionano, commuovere e conquistare; ma non sostenuti da una
ragionata disciplina, non riescono quasi mai ad innalzare, sulla
lotta, la bandiera della vittoria. Talvolta, anzi, aumentano le
sciagure, che si intendevano eliminare.
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