|
L'armistizio
[7] Cadeva su la città pretuziana, nelle strade senza luce, oscura
la notte. Un improvviso chiasso, voci tumultuose, mi colpivano
nell'ufficio, ove mi trovavo in raccolto lavoro. La notizia
dell'armistizio conclusosi tra l'Italia e gli Anglo-Americani,
giunta in quel momento, aveva indotto gli spensierati allegri
studenti ad una rumorosa manifestazione di giubilo. Gli eventi
precipitavano, evidentemente, con particolare rapidità.
Si riteneva da molti che la guerra fosse ormai finita per noi;
che i Tedeschi, dinanzi al fatto nuovo, si sarebbero ritirati con
tutta fretta 'a difesa delle loro frontiere; che l'Italia sarebbe
tornata libera e tranquilla al suo lavoro. Così generalmente si
credeva e si faceva festa. Ma molti non erano ancora tranquilli.
La data dell'otto settembre, certo storica, capovolgeva tutta una
situazione, della quale non era possibile pel momento, prevedere
le conseguenze.
"Non si contrasti la ritirata, se i Tedeschi non useranno la
violenza".
Questa raccomandazione, giunta ambiguamente dall'alto, era
variamente intesa, in diverso modo applicata. Anche il silenzio
sulle clausole dell'armistizio era motivo di molte discussioni. I
soldati, intanto, anche di Teramo, una volta che non dovevano più
combattere, si ritenevano, nel nuovo governo, sciolti da ogni
vincolo, da ogni giuramento. Di conseguenza, a mano a mano,
svestita la divisa, che vendevano o barattavano, ciò che forse
non avevano previsto i nuovi salvatori della patria, in fuga
anch'essi, s'allontanavano in tutta fretta. Gli ufficiali,
purtroppo, tranne poche onorevoli eccezioni, in tanta confusione,
non sapevano resistere dal seguire l'esempio dei loro soldati e
del nuovo governo.
I timori di violenze, in tanto disordine, non erano infondati,
poichè apparivano già, qua e là, i segni del risveglio dei
bassi istinti umani. Dagli atti che già si commettevano era
evidente che non si temevano più quelle leggi, che dovevano
assicurare, alla convivenza civile, ordine, disciplina,
sicurezza.
[8] Con lo sfasciarsi dell'esercito, s'iniziavano quelle azioni,
dalle quali la folla esaltata acquistava, fatalmente, una sola
accesa fisonomia, un solo torvo aspetto. In queste azioni, il
latin sangue gentile, dimostrava, purtroppo, di non essere
dissimile, in certe manifestazioni, da quegli altri popoli, che
si chiamavano ancora inferiori. I componenti di quella folla, i
più accesi s'intende, pochi però, per fortuna, forse
forestieri, assalivano, con rabbiosa furia, le caserme
abbandonate, i depositi, i negozi, gli uffici, ne forzavano le
porte, vi entravano, ne asportavano quanto ancora vi si potesse
trovare in viveri, in indumenti, in mobili, in altri valori
Asportavano ancora, con uguale satanico spirito, le imposte delle
porte e delle finestre; asportavano dal tetto le tegole, dai
pavimenti le mattonelle, dai muri quanto vi si trovava
conficcato, non esclusi i chiodi.
Ciò che non potevano portar via, allo stesso modo dei barbari,
rompevano, distruggevano. In qualche caso, come nella caserma
Costantini, non mancavano di ricorrere, per la distruzione, alla
forza del fuoco.
Gli agenti della forza pubblica, i pochi rimasti, non erano in
condizione d'agire, in nessun modo. I buoni cittadini, e ne erano
molti, non potevano che guardare in silenzio e con dolore tanto
scempio.
[9] Con la conclusione dell' armistizio, dinanzi ai nuovi eventi, che
si presentavano nelle tinte più nere, potevo ritenere esaurito
il mio mandato e ritirarmi. Ma in quel grave momento abbandonare
la città e quella carica di responsabilità, che rivestivo, con
piena soddisfazione dei miei concittadini, da oltre quattro anni,
doveva sembrare una defezione, se non una vigliaccheria, indegna
di un soldato, quale io ero. Restavo, come ero restato a quel
posto senza emolumenti, anche quando dal Comando Generale, con il
richiamo alle armi, mi si voleva destinare ad Ancona in un comodo
e ben rimunerato servizio di carattere civile.
Oltre a quelli comuni, altri pericoli potevo incontrare nella
nuova situazione e nei rivolgimenti in atto, dalla mia iscrizione
al partito fascista. Ma anche in tale ordine, da un esame di
coscienza, stabilivo che non mi potevano fare accuse, non essendo
stati mai a me affidati incarichi di natura politica, non avendo
mai preso parte attiva alle manifestazioni del partito.
Restavo anche nella convinzione che, con la mia condotta, avrei
influito beneficamente su la popolazione, che aveva in me molta
fiducia, esposta anch'essa, con i nuovi metodi di guerra, a tutti
i disagi, a tutte le preoccupazioni, a tutti i pericoli.
Non far allontanare la popolazione dalla propria residenza
significava, in quel disgraziato momento, evitare, sotto ogni
riguardo, i turbamenti determinati dagli affrettati sfollamenti;
significava mantenere nella propria contrada intatta la
produzione, tanto necessaria ai bisogni nazionali; significava
mantenere in efficienza l' ordinamento, dal quale la comunità
traeva il suo ordine, la forza della sua disciplina, le ragioni
della sua integrità e della sua continuità, la certezza del suo
sviluppo.
Ad ogni modo, tra i marosi della tempesta, che diveniva sempre più
minacciosa su la povera Italia, io non dovevo preoccuparmi
d'altro che di compiere tutto il mio dovere, a qualunque costo,
sino in fondo.
Intanto, anche gli ineffabili Alleati festeggiavano, in Abruzzo,
l'inizio dell'era nuova, la caduta di quello Stato che aveva
osato di accompagnare con le armi, di là dal mare, nelle lontane
terre vergini, nel cuore dell'Abissinia, i propri esuberanti
figli, avidi di spazio, bisognosi di lavoro. Quello Stato che
aveva osato, nello spirito delle giuste rivendicazioni, di alzare
la voce per la libertà del Mediterraneo e delle sue porte; che
aveva osato di inculcare ai figli di Roma, contro l'Anglia avidità
di dominio e di potenza, con il senso dei suoi diritti, un nuovo
forte spirito.
[10] La festa doveva essere tale quale la imponevano gli eventi in
atto. La località, come inizio, doveva essere scelta in quella
terra, ove un altro maniaco, che poteva rispondere al nome di
Gabriele D'Annunzio, aveva osato anche lui, con il malato genio,
elevare alta la voce per risvegliare i dormienti, per esaltare le
virtù, i diritti, le glorie vecchie e nuove della stirpe sacra.
Sistemata convenientemente la bella città del molesto cantore, a
mano a mano si sarebbe provveduto, con l'ausilio dei Sassoni
consanguinei, che operavano nel basso, alla sistemazione della
infiorata Francavilla, luogo natio del moderno mago del pennello;
della musicale Ortona, da dove usciva colui, che poteva
allietare, con la elegante giovialità, con le dolci melodie, gli
ottusi abitatori della pesante città delle nebbie, ma non
intenerirne, umanizzarne l'animo impietrito. Non sarebbero state
risparmiate, successivamente, la industriosa Lanciano, la mite
Orsogna ed altre consorelle della terra dei Marrucini.
In uno di quei giorni, quindi, mentre i cittadini della
movimentata Pescara erano raccolti fiduciosi, dopo il lavoro, per
il pranzo, nelle proprie case, gli alberghi e i ristoranti
rigurgitavano di avventori, dal mare, nuovamente amarissimo,
giungevano inaspettati, a fitti stormi, gli spietati messi di
morte. E la festa s'iniziava e sotto la pioggia, non di fiori, ma
di micidiali ordigni, cadevano case, alberghi, chiese; cadevano
vecchi e giovani, donne e bambini.
Non cadevano opere militari, che soltanto avrebbero dovuto
costituire gli obiettivi degli attacchi, poichè non ve ne erano;
non cadevano Tedeschi, poichè ne erano lontani.
La bella città marinara, fervida di giovinezza, forte di
propositi, avida di lavoro e di progresso, non appariva, dopo la
pioggia maledetta, che un cumulo di fumanti macerie, dalle quali
salivano, con le fiamme distruttrici, rantoli, invocazioni, grida
strazianti dei sepolti.
Saliva anche terribile, da quelle macerie arroventate, per i
tristi assassini, la maledizione dei colpiti. La voce degli
innocenti, prima o poi, troverà ascolto nella divinità della
giustizia!
[Capitolo Precedente] - [Indice] - [Capitolo Successivo]
|