Umberto Adamoli
Nel turbinio d'una tempesta
(dalle pagine del mio diario. 1943-1944)



Nubi nel sereno

[2] Riposavo, dalle fatiche, nel verde e nel silenzio del mio giardino del Viale Francesco Crispi. Nel godimento della breve pausa alla mia podestarile attività, seguivo curiosamente quanto accadeva intorno. Seguivo, nei loro amori, i passeri; li seguivo nel diligente lavoro, che compivano in omaggio alla imperiosa legge della riproduzione, che avveniva nella sicura ospitalità del tetto della mia casa. Seguivo in aria le rondini, nei guizzi, nei veloci movimenti, negli artistici voli. Ascoltavo il ronzio delle operose api, e le pigre cicale, che cantavano, nella stoppia infuocata, il loro canto di morte.
Nel godimento del breve ozio, ascoltavo anche la musica, diffusa dalla radio del non lontano autocentro militare.
L'ora del riposo si svolgeva, in quell'aperta campagna, nel caldo di luglio, poeticamente tranquilla. Nessuna nube in aria, di nessuna specie. Poche ombre nel cielo politico. Non si spiegavano, però, in relazione alla guerra che si combatteva, gli improvvisi rovesci della Tripolitania e della Tunisia. Non si spiegavano la resa, dopo debole resistenza, della ben munita base navale di Lipari, e l'abbandono precipitoso delle isole di Sicilia e di Sardegna, preziosissime perle del nostro Mediterraneo. Nè si spiegava il facile sbarco alleato nelle difficili coste della montagnosa Calabria. Molte altre cose non si capivano. Ma i buoni Pretuziani, guardando il paterno Gransasso, cuore d'Italia, simbolo d'unità e di potenza, non se ne scoraggiavano. Le armi italiche, al momento opportuno, si sarebbero lanciate ancora una volta alla riscossa, ed avrebbero ancora una volta scritto, nel glorioso nazionale poema, altri gloriosi canti.
[3] Invece, lontano, oltre i monti, oltre le valli, sulle rive del Tevere biondo, entro i Sette fatali colli, si maturavano eventi, che avrebbero duramente colpita la soverchia fiducia nella buona stella d'Italia, e data una brusca svolta alla tormentata sua storia.
Quella radio che serviva, con l'altoparlante, tutta la contrada, completato il suo programma, lanciava vicino e lontano, nel piano e su i colli, una notizia inaspettata, che colpiva, sbalordiva: con meccanica, precisa rudezza annunziava al mondo la caduta del fascismo e del suo capo.
La stessa radio dichiarava che il nuovo governo, affidato al maresciallo Pietro Badoglio, avrebbe mantenuto i suoi impegni, continuando, a fianco della alleata Germania, la sua guerra. Ciò non toglieva che non sorgessero, nei buoni, per il nostro avvenire, forti apprensioni. Ed invero, anche qui in Teramo, non tardava l' inizio della lotta, non contro lo straniero, ma contro le istituzioni e contro gli uomini del caduto regime. Lotta intestina, dunque, da cui si deduceva che non s'intendeva affatto di rispettare quel diritto di libertà, per riacquistare il quale si era lavorato, come si diceva, per oltre venti anni.
Addolorava, poichè si capiva che neppure questa volta si considerava che dalla violenza nulla si poteva ottenere di buono. Poteva considerarsi in qualche modo giustificata la lotta contro i disonesti, contro gli speculatori e gli sfruttatori, di qualunque ordine e specie; ma non quella tendente a colpire, non gli atti, ma l'idea, sacro personale patrimonio.
Faceva ancora pensare l'altro pietoso fenomeno dell'improvviso rinnegamento, da parte di altre persone, di tutto un proprio passato. Non appena il disgraziato regime, con la sua caduta, perdeva forza ed autorità, scomparivano, come per incanto, tutti i suoi distintivi. Non solo, ma molti, che vi avevano occupato posti elevati, che si erano ubriacati di una fede che non possedevano, assumendo strani atteggiamenti, s'imbrancavano con i più accesi sedicenti tribuni, che chiassosamente correvano a demolire, a frantumare nelle piazze, negli uffici, negli istituti, tutto quanto si potesse riferire ad emblemi portanti i segni del littorio, anche quando, resi sacri dal sacrificio del sangue, avessero altro significato da quello politico, altro scopo, altro valore.
[4] Nulla arrestava i demolitori improvvisati, quando avrebbero dovuto pur considerare che quel partito, sorto e sostenuto per oltre 20 anni da molti applausi e dall'autorità del Re, al quale aveva pure giurato fedeltà ed aveva donato un impero, più che per le sue ideologie, cadeva per i vizi, per il mal costume degli uomini, che ne dirigevano la fortuna. Cadeva per quelle catene che essi uomini, perdendo il bene delle umane facoltà, intendevano di stringere sempre più attorno al più sacro patrimonio, che è quello della libertà. Cadeva per una smodata avidità di conquista e per una errata valutazione delle proprie possibilità, in rapporto agli eventi in svolgimento, al valore delle alleanze internazionali.
Non capivano neppure che, in una composta ferma dignità, si poteva non nascondere di essere stati fascisti, quando per gli onesti, per quelli di buona fede, fascismo poteva significare, entro la legalità delle leggi, marcia verso l'elevazione intellettuale, morale e materiale del popolo lavoratore; verso la perfezione delle libere istituzioni; verso le maggiori fortune della nazione, entro la forza della quale il proletariato, in una più alta giustizia sociale, doveva vedere il trionfo delle sue legittime aspirazioni.
Il tralignamento doveva essere imputato, non all'idea, ma a quegli stessi uomini, che con i loro inganni, la loro avidità di godimento e di ricchezza ne avevano minate le fondamenta, determinata la caduta, senza speranza di risorgimento. Essi soltanto dovevano temere, se mai, la giusta reazione, la giusta ira dei propri camerati e del popolo tradito.
Con la caduta del fascismo nessun miglioramento avveniva, come molti ritenevano, nella nostra situazione interna ed internazionale. Anzi, all'odio dei nemici pareva che ora si aggiungesse l'odio delle nazioni, a favore delle quali si fingeva ancora di combattere.
Ma i nemici, nonostante la certezza del nostro non lontano crollo, non diminuivano per nulla la violenza dei loro attacchi; anzi pareva che un satanico spirito li spingesse a renderli sempre più potenti, micidiali, distruttivi. Le incursioni aeree, quindi, aumentando di numero e di potenza, gettavano nelle nostre belle città, ricche di popolo, di insigni monumenti e di insuperabili opere, rovina; pianto, lutto.
E le città, le case, le cose più care, per salvare la vita, dovevano essere abbandonate.
[5] Agli sfollati dell'Alta Italia, già numerosi, s'univano di conseguenza a Teramo anche quelli che giungevano, nella nuova intensificata distruzione, dalle città meridionali; che giungevano, appena dopo il 25 luglio, anche da Napoli, a migliaia, con treni speciali, ed offrivano, nella loro peregrinazione, uno spettacolo che dolorosamente colpiva, profondamente sconfortava.
Erano stati essi tratti d'autorità, dalle macerie insanguinate e fumanti, o dai sotterranei, in cui volevano, per l'amore della loro terra, continuare a vivere, senza preoccuparsi dei bombardamenti, che in quei giorni infierivano spietatamente contro la loro città. Trascinavano con sè, nella disgraziata odissea, con la propria miseria e con i propri pallidi denutriti bambini, i cadenti vecchi, i depressi sofferenti malati.
Dal treno, ove alla partenza erano stati a viva forza e confusamente cacciati, gettavano sul marciapiede della stazione d'arrivo, tra un chiasso scomposto, con i cenciosi fagotti, tutti gli altri oggetti, che non dovevano servire che a ricordare loro, con i tuguri abbandonati, il vecchio Vesuvio, il bel mare di Sorrento, tutto il luminoso cielo partenopeo. Giungevano quasi nudi, o con abiti a brandelli, sudici, con i capelli arruffati, gli occhi cisposi, le barbe incolte, pieni d'insetti, compagni fedeli della miseria.
Ma nel lasciare la loro magica Napoli, non avevano dimenticato di portare con sè il piccolo ringhioso cane, l'apatico sornione gatto, e, tra le tante sciagure, il buon umore, la tipica chiassosa loro natura, e quel concetto, molto semplice, in essi molto radicato, della proprietà.
Nelle scuole, dove erano provvisoriamente sistemati, con il concorso di medici, infermieri, barbieri, con la distribuzione di oggetti di biancheria e di vestiario, si sottoponevano ad una efficace opera di umana bonifica.
[6] Nella serata, dopo cena, nel caldo di agosto, saliva da quegli alloggiamenti e da quei naufraghi, nel patetico canto, accordato alle chitarre e ai mandolini, che avevano pure portati con sè, il melanconico spirito della loro Napoli lontana.
Giungeva in quei giorni, pure da Napoli, e metteva subito in atto, a favore del popolo, la sua squisita bontà, il professore Raffaele Caporali, vanto della terra d'Abruzzo. Lo accompagnava la nobile coraggiosa sua Signora donna Giacinta, che, quantunque fosse essa stessa vittima della guerra, si metteva ai primi posti nel prodigare il bene a favore dei colpiti della sventura.
Due forze, ancora una volta, si trovavano di fronte, con le loro alternative, le loro passioni: l'una, salendo dal regno oscuro del male, cercava d'avvolgere la vita con la potenza distruttiva di spiriti folli; l'altra, scendendo dalle musicali regioni di luce, si elevava, con l'angelica pietà, a valida generosa difesa.
Anche qui a Teramo si costituivano, quindi, nel doloroso frangente, come santa milizia, forti schiere che nobilitavano sempre più, con l'efficace operosità, l'umana schiatta e la città generosissima.

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