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Nubi nel sereno
[2] Riposavo, dalle fatiche, nel verde e nel silenzio del mio
giardino del Viale Francesco Crispi. Nel godimento della breve
pausa alla mia podestarile attività, seguivo curiosamente quanto
accadeva intorno. Seguivo, nei loro amori, i passeri; li seguivo
nel diligente lavoro, che compivano in omaggio alla imperiosa
legge della riproduzione, che avveniva nella sicura ospitalità
del tetto della mia casa. Seguivo in aria le rondini, nei guizzi,
nei veloci movimenti, negli artistici voli. Ascoltavo il ronzio
delle operose api, e le pigre cicale, che cantavano, nella
stoppia infuocata, il loro canto di morte.
Nel godimento del breve ozio, ascoltavo anche la musica, diffusa
dalla radio del non lontano autocentro militare.
L'ora del riposo si svolgeva, in quell'aperta campagna, nel caldo
di luglio, poeticamente tranquilla. Nessuna nube in aria, di
nessuna specie. Poche ombre nel cielo politico. Non si
spiegavano, però, in relazione alla guerra che si combatteva,
gli improvvisi rovesci della Tripolitania e della Tunisia. Non si
spiegavano la resa, dopo debole resistenza, della ben munita base
navale di Lipari, e l'abbandono precipitoso delle isole di
Sicilia e di Sardegna, preziosissime perle del nostro
Mediterraneo. Nè si spiegava il facile sbarco alleato nelle
difficili coste della montagnosa Calabria. Molte altre cose non
si capivano. Ma i buoni Pretuziani, guardando il paterno
Gransasso, cuore d'Italia, simbolo d'unità e di potenza, non se
ne scoraggiavano. Le armi italiche, al momento opportuno, si
sarebbero lanciate ancora una volta alla riscossa, ed avrebbero
ancora una volta scritto, nel glorioso nazionale poema, altri
gloriosi canti.
[3] Invece, lontano, oltre i monti, oltre le valli, sulle rive del
Tevere biondo, entro i Sette fatali colli, si maturavano eventi,
che avrebbero duramente colpita la soverchia fiducia nella buona
stella d'Italia, e data una brusca svolta alla tormentata sua
storia.
Quella radio che serviva, con l'altoparlante, tutta la contrada,
completato il suo programma, lanciava vicino e lontano, nel piano
e su i colli, una notizia inaspettata, che colpiva, sbalordiva:
con meccanica, precisa rudezza annunziava al mondo la caduta del
fascismo e del suo capo.
La stessa radio dichiarava che il nuovo governo, affidato al
maresciallo Pietro Badoglio, avrebbe mantenuto i suoi impegni,
continuando, a fianco della alleata Germania, la sua guerra. Ciò
non toglieva che non sorgessero, nei buoni, per il nostro
avvenire, forti apprensioni. Ed invero, anche qui in Teramo, non
tardava l' inizio della lotta, non contro lo straniero, ma contro
le istituzioni e contro gli uomini del caduto regime. Lotta
intestina, dunque, da cui si deduceva che non s'intendeva affatto
di rispettare quel diritto di libertà, per riacquistare il quale
si era lavorato, come si diceva, per oltre venti anni.
Addolorava, poichè si capiva che neppure questa volta si
considerava che dalla violenza nulla si poteva ottenere di buono.
Poteva considerarsi in qualche modo giustificata la lotta contro
i disonesti, contro gli speculatori e gli sfruttatori, di
qualunque ordine e specie; ma non quella tendente a colpire, non
gli atti, ma l'idea, sacro personale patrimonio.
Faceva ancora pensare l'altro pietoso fenomeno dell'improvviso
rinnegamento, da parte di altre persone, di tutto un proprio
passato. Non appena il disgraziato regime, con la sua caduta,
perdeva forza ed autorità, scomparivano, come per incanto, tutti
i suoi distintivi. Non solo, ma molti, che vi avevano occupato
posti elevati, che si erano ubriacati di una fede che non
possedevano, assumendo strani atteggiamenti, s'imbrancavano con i
più accesi sedicenti tribuni, che chiassosamente correvano a
demolire, a frantumare nelle piazze, negli uffici, negli
istituti, tutto quanto si potesse riferire ad emblemi portanti i
segni del littorio, anche quando, resi sacri dal sacrificio del
sangue, avessero altro significato da quello politico, altro
scopo, altro valore.
[4] Nulla arrestava i demolitori improvvisati, quando avrebbero
dovuto pur considerare che quel partito, sorto e sostenuto per
oltre 20 anni da molti applausi e dall'autorità del Re, al quale
aveva pure giurato fedeltà ed aveva donato un impero, più che
per le sue ideologie, cadeva per i vizi, per il mal costume degli
uomini, che ne dirigevano la fortuna. Cadeva per quelle catene
che essi uomini, perdendo il bene delle umane facoltà,
intendevano di stringere sempre più attorno al più sacro
patrimonio, che è quello della libertà. Cadeva per una smodata
avidità di conquista e per una errata valutazione delle proprie
possibilità, in rapporto agli eventi in svolgimento, al valore
delle alleanze internazionali.
Non capivano neppure che, in una composta ferma dignità, si
poteva non nascondere di essere stati fascisti, quando per gli
onesti, per quelli di buona fede, fascismo poteva significare,
entro la legalità delle leggi, marcia verso l'elevazione
intellettuale, morale e materiale del popolo lavoratore; verso la
perfezione delle libere istituzioni; verso le maggiori fortune
della nazione, entro la forza della quale il proletariato, in una
più alta giustizia sociale, doveva vedere il trionfo delle sue
legittime aspirazioni.
Il tralignamento doveva essere imputato, non all'idea, ma a
quegli stessi uomini, che con i loro inganni, la loro avidità di
godimento e di ricchezza ne avevano minate le fondamenta,
determinata la caduta, senza speranza di risorgimento. Essi
soltanto dovevano temere, se mai, la giusta reazione, la giusta
ira dei propri camerati e del popolo tradito.
Con la caduta del fascismo nessun miglioramento avveniva, come
molti ritenevano, nella nostra situazione interna ed
internazionale. Anzi, all'odio dei nemici pareva che ora si
aggiungesse l'odio delle nazioni, a favore delle quali si fingeva
ancora di combattere.
Ma i nemici, nonostante la certezza del nostro non lontano
crollo, non diminuivano per nulla la violenza dei loro attacchi;
anzi pareva che un satanico spirito li spingesse a renderli
sempre più potenti, micidiali, distruttivi. Le incursioni aeree,
quindi, aumentando di numero e di potenza, gettavano nelle nostre
belle città, ricche di popolo, di insigni monumenti e di
insuperabili opere, rovina; pianto, lutto.
E le città, le case, le cose più care, per salvare la vita,
dovevano essere abbandonate.
[5] Agli sfollati dell'Alta Italia, già numerosi, s'univano di
conseguenza a Teramo anche quelli che giungevano, nella nuova
intensificata distruzione, dalle città meridionali; che
giungevano, appena dopo il 25 luglio, anche da Napoli, a
migliaia, con treni speciali, ed offrivano, nella loro
peregrinazione, uno spettacolo che dolorosamente colpiva,
profondamente sconfortava.
Erano stati essi tratti d'autorità, dalle macerie insanguinate e
fumanti, o dai sotterranei, in cui volevano, per l'amore della
loro terra, continuare a vivere, senza preoccuparsi dei
bombardamenti, che in quei giorni infierivano spietatamente
contro la loro città. Trascinavano con sè, nella disgraziata
odissea, con la propria miseria e con i propri pallidi denutriti
bambini, i cadenti vecchi, i depressi sofferenti malati.
Dal treno, ove alla partenza erano stati a viva forza e
confusamente cacciati, gettavano sul marciapiede della stazione
d'arrivo, tra un chiasso scomposto, con i cenciosi fagotti, tutti
gli altri oggetti, che non dovevano servire che a ricordare loro,
con i tuguri abbandonati, il vecchio Vesuvio, il bel mare di
Sorrento, tutto il luminoso cielo partenopeo. Giungevano quasi
nudi, o con abiti a brandelli, sudici, con i capelli arruffati,
gli occhi cisposi, le barbe incolte, pieni d'insetti, compagni
fedeli della miseria.
Ma nel lasciare la loro magica Napoli, non avevano dimenticato di
portare con sè il piccolo ringhioso cane, l'apatico sornione
gatto, e, tra le tante sciagure, il buon umore, la tipica
chiassosa loro natura, e quel concetto, molto semplice, in essi
molto radicato, della proprietà.
Nelle scuole, dove erano provvisoriamente sistemati, con il
concorso di medici, infermieri, barbieri, con la distribuzione di
oggetti di biancheria e di vestiario, si sottoponevano ad una
efficace opera di umana bonifica.
[6] Nella serata, dopo cena, nel caldo di agosto, saliva da quegli
alloggiamenti e da quei naufraghi, nel patetico canto, accordato
alle chitarre e ai mandolini, che avevano pure portati con sè,
il melanconico spirito della loro Napoli lontana.
Giungeva in quei giorni, pure da Napoli, e metteva subito in
atto, a favore del popolo, la sua squisita bontà, il professore
Raffaele Caporali, vanto della terra d'Abruzzo. Lo accompagnava
la nobile coraggiosa sua Signora donna Giacinta, che, quantunque
fosse essa stessa vittima della guerra, si metteva ai primi posti
nel prodigare il bene a favore dei colpiti della sventura.
Due forze, ancora una volta, si trovavano di fronte, con le loro
alternative, le loro passioni: l'una, salendo dal regno oscuro
del male, cercava d'avvolgere la vita con la potenza distruttiva
di spiriti folli; l'altra, scendendo dalle musicali regioni di
luce, si elevava, con l'angelica pietà, a valida generosa
difesa.
Anche qui a Teramo si costituivano, quindi, nel doloroso
frangente, come santa milizia, forti schiere che nobilitavano
sempre più, con l'efficace operosità, l'umana schiatta e la
città generosissima.
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