Umberto Adamoli
Nel turbinio d'una tempesta
(dalle pagine del mio diario. 1943-1944)



Il valore di una missione

[38] Uno degli scopi di continuare nella carica di Podestà, che diveniva sempre più pericolosa, consisteva, ripeto, nel vivo desiderio di vigilare, nel modo migliore, su le sorti della città affidata già da quattro anni al mio governo, al mio affetto. In taluni momenti la vita, forse senza rendersene conto, dominata da misteriosa forza, è sospinta verso generosi atti. In quel periodo, invero, mi sentivo lieto quando potevo comunque prevenire, impedire o lenire le altrui sventure, le cittadine calamità.
Oltre agli interventi diretti, molto efficaci, provocavo anche ordini tendenti a scongiurare, nei tanti pericoli, guai maggiori. Riuscivo ad ottenere, ad esempio, dal generale Zanthier, forse perchè austriaco e cattolico, un'ordinanza, che si poteva poi vedere affissa alle porte della città, con la quale si impartivano rigorose disposizioni sulla condotta da tenersi dalle truppe tedesche che occupavano Teramo, o vi fossero di passaggio. Ordinanza che, se non raggiungeva appieno il suo scopo, apportava pur sempre notevoli benefici alla sicurezza ed alla tranquillità della popolazione. Comunque, offriva la possibilità di correre a presentare ai Comandi le mie proteste ogni qualvolta se ne tentasse la violazione.

In uno di quei giorni ero chiamato d'urgenza da quell'ottimo e colto Monsignore don Giovanni Muzi, decoro della Curia Aprutina, al quale era stata affidata, saggiamente, la direzione della ricca biblioteca Melchiorre Delfico.
Anche quest'ottimo Monsignore, pur nel turbinio dei pericolosi eventi, fedele alla consegna, era rimasto, come un valoroso soldato, saldo al suo posto. Un tal fatto, senza dubbio, concorreva in modo notevole a salvare, dall'altrui rapacità, la bella biblioteca.
[39] Quando, invero, soldati tedeschi, dai locali del Liceo-Convitto, trasformato in Ospedaie, forzando una porta penetravano nel piano inferiore, certo per farvi bottino, si trovavano di fronte il forte custode di quel tesoro.
Insieme ci recammo dal Direttore, il quale non poteva non piegarsi dinanzi alla serena figura del nostro sacerdote. La porta, per la quale i soldati erano entrati, si faceva rinchiudere, per maggiore sicurezza, in muratura; nei locali della biblioteca si metteva, bene in vista e scritta nella loro lingua, un'ordinanza di divieto per i Tedeschi di penetrarvi, comunque di produrvi danni. Ordinanza che, successivamente, era estesa al teatro romano e ad altri locali, che raccoglievano opere di artistico storico valore.

Mi trovavo, un altro giorno, nel palazzo del Convitto, presso il Tribunale di guerra, che per la prima volta si riuniva a Teramo. Offriva, con il suo apparato, una certa solennità. I giudici militari sedevano già, nell'abituale rigida compostezza, nei loro seggi. Ad esaminarli non incoraggiavano, non facevano molto sperare per la sorte degli imputati, che se ne stavano silenziosamente a guardarli dai posti ad essi assegnati.
Dopo i moniti di rito si iniziava il dibattito. Vi si giudicava, tra gli altri, per favoreggiamento al nemico, il Podestà di Caramanico, avvocato Nicola Nanni. L' accusa era grave; la pena chiesta dal pubblico accusatore, pena di morte, più grave ancora. Il Nanni, nell'udirla sobbalzava, sbigottito, dal banco su cui sedeva; i presenti rivolgevano, con sgomento, lo sguardo verso di lui. La morte! Non poteva non atterrire quando giungeva a colpire d'improvviso una forte esistenza, sottraendola violentemente dalle cose terrene, dalla dolce famiglia, da tutte le promesse, da tutte le speranze, delle quali sempre si lusinga la povera vita. Non poteva non produrre, anche ad animi forti, un profondo sconvolgimento.
[40] Dopo il primo stordimento, il Nanni si riaveva, si ricomponeva, parlava ai giudici con una calma davvero ammirevole. I presenti continuavano le loro osservazioni sulle mosse, sulle espressioni, sulla voce di quell'uomo, che doveva già vagare con lo spirito negli oscuri limiti del regno dell'eternità. Parlava, ma non si comprendeva quale effetto producessero le sue parole sui giudici, che rimanevano rigidamente composti.
Dopo l'arringa del difensore avvocato Moruzzi, i giudici si ritiravano. lo, approfittando della conoscenza dell'interprete, li seguivo, chiedendo, nella sala delle deliberazioni, di parlar loro.
Tra i capi d'accusa figurava quello d'aver dato ospitalità ad ufficiali inglesi, in esercizio di spionaggio, e di averli accompagnati in una ricognizione, non lontano dal fronte. Io, che ne assumevo, in quel consiglio, la difesa, giustificavo la condotta del Nanni, non in funzione delittuosa, ma con lo spirito di gentilezza, innato nel popolo abruzzese. Popolo che apre, senza chiedere il nome, a chi bussa alla sua porta; che gli offre il pane ed il letto; che gli indica, se necessario, la via nel rimettersi in cammino.
Il Nanni aveva ubbidito, nel favorire quegli ufficiali, senza conoscerli, ad un imperativo dell' indole sua e della sua razza.
Ed altro dissi con ansia, in una forma molto persuasiva. Nel distendere la sentenza, quei giudici, che accusavano il Nanni di molte contraddizioni nel discolparsi, attenuavano la richiesta della pena, da quella di morte a quella di pochi anni di carcere, in seguito anche graziati.
L'indulgenza era estesa ad altri imputati, che sedevano, per gli stessi motivi, sullo stesso banco del Nanni.
Il Podestà di Caramanico non avrà, forse, mai saputo l'opera con tanto fervore svolta, a suo favore, dal Podestà di Teramo.

[41] In seguito a mia viva intercessione presso il Prefetto erano restituiti a libertà Ammazzalorso Amedeo, Camardella Alessio, De Cicco Italo, D'Amico Carmelo, De Fabritiis Pasquale, Di Marco Amilcare, Di Odoardo Pasquale, Ferri Umberto, Intellini Alessandro, Ioannoni Giuseppe, Lattanzio Nicola, Mattucci Tobia, Panbianco Cino, Pompa Alfredo, Romani Vincenzo, Trippetta Giuseppe, Zaccaria Alfredo e Zippilli Felice.
Togliendoli dal carcere li toglievo anche dal campo di concentramento dell'alta Italia, nel quale, senza dubbio, sarebbero stati inviati, essendo sul loro conto, nell'ordine politico, per cui erano stati arrestati, molto gravi le accuse. Non tutti, forse, in quel periodo di diaboliche azioni, ne sarebbero tornati.
Ottenevo pure, nonostante le gravi difficoltà, la scarcerazione, da parte della polizia tedesca, del veterinario dott. Gatti, detenuto anche lui per il reato di collaborazione con gli Anglo-Americani.

Rendevo meno dura la vita agli internati politici, affidati, per I' amministrazione, alle mie cure. I generi alimentari messi per i medesimi a disposizione erano molto scarsi. Di conseguenza, per poter far giungere ad essi cibo, oltre che sano, anche abbondante, con mio rischio, dovevo alterare le cifre, che a quegli internati si riferivano.
Mi recavo spesso a visitarli, per dir loro la buona parola. Erano di tutte le condizioni: dall'operaio al professionista; dal sacerdote all'ufficiale; dal cinico al mistico. Non mancavano le donne, nè i bambini, che facevo ricoverare presso la Casa della Madre e del Fanciullo.
Il giorno di Pasqua, chiusi nelle carceri di S. Agostino, ove li visitavo, facevo somministrar loro un vitto speciale.
Mi adoperavo anche per la loro liberazione, a molti, a mano a mano, concessa.

[42] Nè avevo timore dall'estendere fraterna assistenza agli Ebrei, giunti nel comune dalla Francia e da Milano. Si presentavano a me, nelle dure vicissitudini, timidamente. In ogni ariano, nell'ingiusta persecuzione, vedevano un nemico, pronto a colpirli; ma trovavano in me, per umane considerazioni, un vero protettore.
Oltre a procurare ad essi una vita relativamente agiata, vegliavo pure sulla loro sicurezza. Allorché i Tedeschi, ed anche la nostra polizia, si mettevano alla loro ricerca per catturarli, li facevo rifugiare in campagna, presso famiglie fidate.
Quando mi si chiedeva di fornire, con un elenco, il nome e il domicilio, non esitavo dal negare la loro presenza nel territorio del comune.

Umani sentimenti mi inducevano ancora a riscaldare la vita sconsolata di coloro che, nel colmo dell'inverno, di giorno e di notte, senza indumenti e senza mezzi, si rifugiavano, quali sfollati o profughi, nella mia città.
Mi è caro riportare l'indirizzo di una lettera a me diretta, con espressione di gratitudine, da uno di essi:
"Al Podestà di Teramo, valoroso protettore dell'umanità smarrita".
Umanità davvero smarrita Giungevano a Teramo, questi nostri fratelli, dalle terre colpite dalla sventura, isolati, a gruppi, a brigate; giungevano con tutti i mezzi. Erano donne, bambini, vecchi, malati; erano famiglie intere, frazioni di famiglie, che avevano visto, nel partire, distrutti i loro beni, i prodotti dei loro campi, i risparmi delle loro fatiche, il conforto del loro dolce focolare domestico. Giungevano, nel pieno inverno, soli con la loro desolazione, con i segni profondi delle sofferenze e della sciagura, da cui erano stati così ferocemente colpiti. Spesso non avevano con sè neppure il tradizionale fagotto di cenci, unico patrimonio del pellegrino randagio.
Attendevo questi nostri fratelli, sperduti nella neve, sino a tarda notte. Li attendevo per prodigare loro quelle prime cure, con cibi caldi e locali riscaldati, con cui potessero riacquistare un pò di forza, una maggiore fiducia in sè e nella vita.
[43] Dopo la sosta fortunata, per rigorose disposizioni del comando tedesco, che attentamente controllava, dovevano riprendere, come deportati, il doloroso cammino. Ma molti di essi, da me favoriti, si rifugiavano ovunque vi fosse, per ospitarli, una casa, una capanna, un ricovero qualsiasi.
Vi erano figure del popolo lavoratore; ma vi erano anche, ridotte in santa povertà, persone che rappresentavano I' elevata categoria degli intellettuali, del clero, dei professionisti, degli industriali, dei proprietari. Anch'essi, che avevano guazzato nell' abbondanza, si dimostravano lieti di una minestra, per mangiare, di un pò di paglia, in un locale riscaldato, per dormire.
L'uomo per fortuna finisce sempre per adattarsi rassegnato, alle crudeli burle, ai capricci del suo destino!
"Parlate anche di noi, nelle vostre memorie, della nostra riconoscenza, della nostra grande gratitudine, che rimarrà sempre viva nei nostri animi".
Così mi diceva una delle Signorine Zuccarini, la maggiore, nel ripartire, dopo la liberazione, per la sua Lanciano.
Vi ricorderò, si, cara Signorina. Ma vi ricorderò nella bellezza della vostra modestia, nel pregio della vostra bontà. Con voi ricorderò tutta la vostra famiglia, nobile nella sua fede, forte nella sua rassegnazione. Ricorderò, in modo particolare, la squisita sensibilità del vostro mite genitore, che tutto si compiaceva, nelle sue visite ai locali di Piazza Muzi, per l'assistenza affettuosa, prodigata agli sfollati, suoi compagni di sventura. Vostro padre, che scosso soverchiamente, nel fisico e nel morale, non sapendo sopravvivere alle ultime dure vicende, rendeva qui la sua bella anima al cielo.

[44] Completavano la mia opera, come per gli sfollati di Napoli, i medici condotti, sempre presenti e pieni di premure nel vigilare sulla loro salute; i Vigili del fuoco, con il comandante Umberto Carpanelli, e le Guardie urbane, che si prodigavano in mille modi in loro favore; il personale tutto d'ufficio, di cucina, di refettorio, pronto a soddisfare, in tutte le ore, ogni richiesta, ogni loro desiderio.
Facevano parte di quel personale, ed è doveroso, per la riconoscenza, farne qui il nome, Arnaldo Di Paolo, Carlo Di Felice, Luigi Di Marcantonio, Rosa Cesti, e le signorine, dalla gentile grazia, Dora Quartapelle, Silvia Filipponi, Anita Di Domenico ed Elsa Di Lodovico.
A sostegno di alcune di queste affermazioni, in riferimento ad un santo dovere compiuto, trascrivo due lettere. Prima quella a me diretta dalle buone Suore Domenicane, conducenti con sè amorevolmente, nella dolorosa peregrinazione, molte orfanelle, affidate alle loro cure.
Anime buone, che esprimevano in forma religiosamente gentile la loro gratitudine, i loro ringraziamenti, i loro auguri.
Scrivevano:
« Signor Podestà, le Suore Domenicane e infermiere di S. Caterina da Siena, unite all' Orfanelle di Pescara, ringraziano di cuore per la bontà paterna avuta a loro riguardo nella breve ed indimenticabile sosta fatta a Teramo.
Ricambieremo tale carità usataci, con la preghiera che insieme alle Orfanelle innalzeremo al Signore per la felicità Vostra, della Vostra famiglia e dell' intera città di Teramo. Che il Signore voglia risparmiare la tanto ospitale città, che fa dimenticare agli sfollati le loro sofferenze.
Forse non incontreremo più tanta bontà come a Teramo.
Vogliate estendere i nostri ringraziamenti a tutti gli Impiegati dell' Eca, che furono con noi solleciti e gentili.
Inviamo i nostri ringraziamenti e vi ossequiamo.
S. M. Rosaria Bontempo
[45] Non dissimile, nei sentimenti della riconoscenza, la lettera, che segue, scritta da persone di altra razza, di altre bibliche credenze.

Signor Podestà, noi sottoscritti desideriamo, con questa dichiarazione spontanea, esprimervi anche per iscritto la nostra profonda gratitudine per aver salvato noi le nostre famiglie e tanti altri correligionari che hanno lasciato nel frattempo Teramo, dalla ferocità tedesca. Difatti ai primi di dicembre scorso, le autorità tedesche avevano comandato I' arresto in massa di tutti gli Israeliti. Voi, Podestà di Teramo, eludendo la vigilanza teutonica e fascista, ci avete avvisati tempestivamente del pericolo che incombeva sulle nostre teste raccomandandoci paternamente di allontanarci da Teramo o di rifugiarci presso quelle famiglie, fortunatamente numerose, non contaminate dal virus della peste nazista e ci assicuravate ogni qualsiasi aiuto.
E' pure a nostra conoscenza che durante il terrorismo teutonico vi siete reso benemerito della popolazione teramana e sappiamo anche che di concerto col Comandante del Campo di Concentramento istituito dalle belve tedesche per sfogare il veleno che hanno sempre in corpo, somministravate tra I' altro agli internati, ricorrendo ad un abile stratagemma, doppia razione di cibo.
Così alla nostra benedizione si aggiungano quelle della popolazione e degli internati.
Con riconoscente devozione".
Seguono, con quella di Oscar Stein, numerose firme.
Tra l'una e I' altra lettera, se ne trovano molte altre, di gente di ogni condizione e di ogni contrada, che, per brevità, non si trascrivono; lettere anch'esse colme di commoventi espressioni, di calda affettuosa gratitudine.
Teramo ebbe a rendersi in quell' eccezionale periodo, forse come nessun'altra città, molto benemerita per la sua squisita sensibile generosità. Appariva ai profughi, nella dolorosa peregrinazione, come concordemente dichiaravano, un' oasi ricca di verde e di freschezza, in cui ritempravano le esauste forze, ravvivavano le scosse speranze. Oasi che sarebbe rimasta, nel volgere del tempo, particolarmente cara nel loro ricordo.

[46] Non mancavano, nella educazione latina, atti di squisita cavalleria, ignorata, spesso, dalle altre razze, sempre disposte, nella loro arroganza materialistica, ad umiliare, a maltrattare, a offendere i deboli, i vinti, i colpiti dalla sfortuna.
Nel moderno edificio delle magistrali "Giannina Milli", trasformato in ospedale di guerra, fra i feriti e gli ammalati, vi erano anche ufficiali e soldati dell' esercito inglese, caduti prigionieri. Quale capo della città, accompagnato dalla dama della Croce Rossa Amina Panzieri e dal maggiore medico Guido Bindi, facevo pure ad essi una visita di cortesia. Ve ne erano di tutte le razze, di tutte le religioni, di tutti i continenti. Di nulla avevano bisogno, essendo forniti di generi, anche di lusso, che giungevano loro da ogni parte, quasi giornalmente e in abbondanza tale da poter soddisfare, a profusione, ogni esigenza.
Gli Inglesi, ed anche gli Americani, trattavano bene coloro che, in loro difesa e per la loro grandezza, dovevano dare la vita!
Gli Africani, dai letti in cui giacevano, mi fissavano con occhi mestamente espressivi, come se pensassero in quel momento, ai monti, alle valli, ai fiumi, alle foreste misteriose della loro terra bruciata dal sole; una leggera ironia pareva che sfiorasse i volti gialli degli Asiatici.
Gli ufficiali, quasi tutti di razza ariana, sospendendo la lettura, in cui erano immersi, mi guardavano con curiosità, e, conosciuta la mia qualità, si dimostravano lieti e grati della mia visita.
M' interessavo anche dei loro morti, che qualcuno, nella nebbia delle passioni, avrebbe voluto seppellire fuori del comune cimitero. Io, da altre considerazioni sospinto, ordinavo che essi fossero collocati non soltanto nel cimitero, ma addirittura nel campo riservato ai nostri caduti, affinchè ne potessero dividere, nella comune eterna pace, i fiori, le onoranze, la umana pietosa bontà.

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