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Il valore di una missione
[38] Uno degli scopi di continuare nella carica di Podestà, che
diveniva sempre più pericolosa, consisteva, ripeto, nel vivo
desiderio di vigilare, nel modo migliore, su le sorti della città
affidata già da quattro anni al mio governo, al mio affetto. In
taluni momenti la vita, forse senza rendersene conto, dominata da
misteriosa forza, è sospinta verso generosi atti. In quel
periodo, invero, mi sentivo lieto quando potevo comunque
prevenire, impedire o lenire le altrui sventure, le cittadine
calamità.
Oltre agli interventi diretti, molto efficaci, provocavo anche
ordini tendenti a scongiurare, nei tanti pericoli, guai maggiori.
Riuscivo ad ottenere, ad esempio, dal generale Zanthier, forse
perchè austriaco e cattolico, un'ordinanza, che si poteva poi
vedere affissa alle porte della città, con la quale si
impartivano rigorose disposizioni sulla condotta da tenersi dalle
truppe tedesche che occupavano Teramo, o vi fossero di passaggio.
Ordinanza che, se non raggiungeva appieno il suo scopo, apportava
pur sempre notevoli benefici alla sicurezza ed alla tranquillità
della popolazione. Comunque, offriva la possibilità di correre a
presentare ai Comandi le mie proteste ogni qualvolta se ne
tentasse la violazione.
In uno di quei giorni ero chiamato d'urgenza da quell'ottimo e
colto Monsignore don Giovanni Muzi, decoro della Curia Aprutina,
al quale era stata affidata, saggiamente, la direzione della
ricca biblioteca Melchiorre Delfico.
Anche quest'ottimo Monsignore, pur nel turbinio dei pericolosi
eventi, fedele alla consegna, era rimasto, come un valoroso
soldato, saldo al suo posto. Un tal fatto, senza dubbio,
concorreva in modo notevole a salvare, dall'altrui rapacità, la
bella biblioteca.
[39] Quando, invero, soldati tedeschi, dai locali del Liceo-Convitto,
trasformato in Ospedaie, forzando una porta penetravano nel piano
inferiore, certo per farvi bottino, si trovavano di fronte il
forte custode di quel tesoro.
Insieme ci recammo dal Direttore, il quale non poteva non
piegarsi dinanzi alla serena figura del nostro sacerdote. La
porta, per la quale i soldati erano entrati, si faceva
rinchiudere, per maggiore sicurezza, in muratura; nei locali
della biblioteca si metteva, bene in vista e scritta nella loro
lingua, un'ordinanza di divieto per i Tedeschi di penetrarvi,
comunque di produrvi danni. Ordinanza che, successivamente, era
estesa al teatro romano e ad altri locali, che raccoglievano
opere di artistico storico valore.
Mi trovavo, un altro giorno, nel palazzo del Convitto, presso il
Tribunale di guerra, che per la prima volta si riuniva a Teramo.
Offriva, con il suo apparato, una certa solennità. I giudici
militari sedevano già, nell'abituale rigida compostezza, nei
loro seggi. Ad esaminarli non incoraggiavano, non facevano molto
sperare per la sorte degli imputati, che se ne stavano
silenziosamente a guardarli dai posti ad essi assegnati.
Dopo i moniti di rito si iniziava il dibattito. Vi si giudicava,
tra gli altri, per favoreggiamento al nemico, il Podestà di
Caramanico, avvocato Nicola Nanni. L' accusa era grave; la pena
chiesta dal pubblico accusatore, pena di morte, più grave
ancora. Il Nanni, nell'udirla sobbalzava, sbigottito, dal banco
su cui sedeva; i presenti rivolgevano, con sgomento, lo sguardo
verso di lui. La morte! Non poteva non atterrire quando giungeva
a colpire d'improvviso una forte esistenza, sottraendola
violentemente dalle cose terrene, dalla dolce famiglia, da tutte
le promesse, da tutte le speranze, delle quali sempre si lusinga
la povera vita. Non poteva non produrre, anche ad animi forti, un
profondo sconvolgimento.
[40] Dopo il primo stordimento, il Nanni si riaveva, si ricomponeva,
parlava ai giudici con una calma davvero ammirevole. I presenti
continuavano le loro osservazioni sulle mosse, sulle espressioni,
sulla voce di quell'uomo, che doveva già vagare con lo spirito
negli oscuri limiti del regno dell'eternità. Parlava, ma non si
comprendeva quale effetto producessero le sue parole sui giudici,
che rimanevano rigidamente composti.
Dopo l'arringa del difensore avvocato Moruzzi, i giudici si
ritiravano. lo, approfittando della conoscenza dell'interprete,
li seguivo, chiedendo, nella sala delle deliberazioni, di parlar
loro.
Tra i capi d'accusa figurava quello d'aver dato ospitalità ad
ufficiali inglesi, in esercizio di spionaggio, e di averli
accompagnati in una ricognizione, non lontano dal fronte. Io, che
ne assumevo, in quel consiglio, la difesa, giustificavo la
condotta del Nanni, non in funzione delittuosa, ma con lo spirito
di gentilezza, innato nel popolo abruzzese. Popolo che apre,
senza chiedere il nome, a chi bussa alla sua porta; che gli offre
il pane ed il letto; che gli indica, se necessario, la via nel
rimettersi in cammino.
Il Nanni aveva ubbidito, nel favorire quegli ufficiali, senza
conoscerli, ad un imperativo dell' indole sua e della sua razza.
Ed altro dissi con ansia, in una forma molto persuasiva. Nel
distendere la sentenza, quei giudici, che accusavano il Nanni di
molte contraddizioni nel discolparsi, attenuavano la richiesta
della pena, da quella di morte a quella di pochi anni di carcere,
in seguito anche graziati.
L'indulgenza era estesa ad altri imputati, che sedevano, per gli
stessi motivi, sullo stesso banco del Nanni.
Il Podestà di Caramanico non avrà, forse, mai saputo l'opera
con tanto fervore svolta, a suo favore, dal Podestà di Teramo.
[41] In seguito a mia viva intercessione presso il Prefetto erano
restituiti a libertà Ammazzalorso Amedeo, Camardella Alessio, De
Cicco Italo, D'Amico Carmelo, De Fabritiis Pasquale, Di Marco
Amilcare, Di Odoardo Pasquale, Ferri Umberto, Intellini
Alessandro, Ioannoni Giuseppe, Lattanzio Nicola, Mattucci Tobia,
Panbianco Cino, Pompa Alfredo, Romani Vincenzo, Trippetta
Giuseppe, Zaccaria Alfredo e Zippilli Felice.
Togliendoli dal carcere li toglievo anche dal campo di
concentramento dell'alta Italia, nel quale, senza dubbio,
sarebbero stati inviati, essendo sul loro conto, nell'ordine
politico, per cui erano stati arrestati, molto gravi le accuse.
Non tutti, forse, in quel periodo di diaboliche azioni, ne
sarebbero tornati.
Ottenevo pure, nonostante le gravi difficoltà, la scarcerazione,
da parte della polizia tedesca, del veterinario dott. Gatti,
detenuto anche lui per il reato di collaborazione con gli
Anglo-Americani.
Rendevo meno dura la vita agli internati politici, affidati, per
I' amministrazione, alle mie cure. I generi alimentari messi per
i medesimi a disposizione erano molto scarsi. Di conseguenza, per
poter far giungere ad essi cibo, oltre che sano, anche
abbondante, con mio rischio, dovevo alterare le cifre, che a
quegli internati si riferivano.
Mi recavo spesso a visitarli, per dir loro la buona parola. Erano
di tutte le condizioni: dall'operaio al professionista; dal
sacerdote all'ufficiale; dal cinico al mistico. Non mancavano le
donne, nè i bambini, che facevo ricoverare presso la Casa della
Madre e del Fanciullo.
Il giorno di Pasqua, chiusi nelle carceri di S. Agostino, ove li
visitavo, facevo somministrar loro un vitto speciale.
Mi adoperavo anche per la loro liberazione, a molti, a mano a
mano, concessa.
[42] Nè avevo timore dall'estendere fraterna assistenza agli Ebrei,
giunti nel comune dalla Francia e da Milano. Si presentavano a
me, nelle dure vicissitudini, timidamente. In ogni ariano,
nell'ingiusta persecuzione, vedevano un nemico, pronto a
colpirli; ma trovavano in me, per umane considerazioni, un vero
protettore.
Oltre a procurare ad essi una vita relativamente agiata, vegliavo
pure sulla loro sicurezza. Allorché i Tedeschi, ed anche la
nostra polizia, si mettevano alla loro ricerca per catturarli, li
facevo rifugiare in campagna, presso famiglie fidate.
Quando mi si chiedeva di fornire, con un elenco, il nome e il
domicilio, non esitavo dal negare la loro presenza nel territorio
del comune.
Umani sentimenti mi inducevano ancora a riscaldare la vita
sconsolata di coloro che, nel colmo dell'inverno, di giorno e di
notte, senza indumenti e senza mezzi, si rifugiavano, quali
sfollati o profughi, nella mia città.
Mi è caro riportare l'indirizzo di una lettera a me diretta, con
espressione di gratitudine, da uno di essi:
"Al Podestà di Teramo, valoroso protettore dell'umanità
smarrita".
Umanità davvero smarrita Giungevano a Teramo, questi nostri
fratelli, dalle terre colpite dalla sventura, isolati, a gruppi,
a brigate; giungevano con tutti i mezzi. Erano donne, bambini,
vecchi, malati; erano famiglie intere, frazioni di famiglie, che
avevano visto, nel partire, distrutti i loro beni, i prodotti dei
loro campi, i risparmi delle loro fatiche, il conforto del loro
dolce focolare domestico. Giungevano, nel pieno inverno, soli con
la loro desolazione, con i segni profondi delle sofferenze e
della sciagura, da cui erano stati così ferocemente colpiti.
Spesso non avevano con sè neppure il tradizionale fagotto di
cenci, unico patrimonio del pellegrino randagio.
Attendevo questi nostri fratelli, sperduti nella neve, sino a
tarda notte. Li attendevo per prodigare loro quelle prime cure,
con cibi caldi e locali riscaldati, con cui potessero
riacquistare un pò di forza, una maggiore fiducia in sè e nella
vita.
[43] Dopo la sosta fortunata, per rigorose disposizioni del comando
tedesco, che attentamente controllava, dovevano riprendere, come
deportati, il doloroso cammino. Ma molti di essi, da me favoriti,
si rifugiavano ovunque vi fosse, per ospitarli, una casa, una
capanna, un ricovero qualsiasi.
Vi erano figure del popolo lavoratore; ma vi erano anche, ridotte
in santa povertà, persone che rappresentavano I' elevata
categoria degli intellettuali, del clero, dei professionisti,
degli industriali, dei proprietari. Anch'essi, che avevano
guazzato nell' abbondanza, si dimostravano lieti di una minestra,
per mangiare, di un pò di paglia, in un locale riscaldato, per
dormire.
L'uomo per fortuna finisce sempre per adattarsi rassegnato, alle
crudeli burle, ai capricci del suo destino!
"Parlate anche di noi, nelle vostre memorie, della nostra
riconoscenza, della nostra grande gratitudine, che rimarrà
sempre viva nei nostri animi".
Così mi diceva una delle Signorine Zuccarini, la maggiore, nel
ripartire, dopo la liberazione, per la sua Lanciano.
Vi ricorderò, si, cara Signorina. Ma vi ricorderò nella
bellezza della vostra modestia, nel pregio della vostra bontà.
Con voi ricorderò tutta la vostra famiglia, nobile nella sua
fede, forte nella sua rassegnazione. Ricorderò, in modo
particolare, la squisita sensibilità del vostro mite genitore,
che tutto si compiaceva, nelle sue visite ai locali di Piazza
Muzi, per l'assistenza affettuosa, prodigata agli sfollati, suoi
compagni di sventura. Vostro padre, che scosso soverchiamente,
nel fisico e nel morale, non sapendo sopravvivere alle ultime
dure vicende, rendeva qui la sua bella anima al cielo.
[44] Completavano la mia opera, come per gli sfollati di Napoli, i
medici condotti, sempre presenti e pieni di premure nel vigilare
sulla loro salute; i Vigili del fuoco, con il comandante Umberto
Carpanelli, e le Guardie urbane, che si prodigavano in mille modi
in loro favore; il personale tutto d'ufficio, di cucina, di
refettorio, pronto a soddisfare, in tutte le ore, ogni richiesta,
ogni loro desiderio.
Facevano parte di quel personale, ed è doveroso, per la
riconoscenza, farne qui il nome, Arnaldo Di Paolo, Carlo Di
Felice, Luigi Di Marcantonio, Rosa Cesti, e le signorine, dalla
gentile grazia, Dora Quartapelle, Silvia Filipponi, Anita Di
Domenico ed Elsa Di Lodovico.
A sostegno di alcune di queste affermazioni, in riferimento ad un
santo dovere compiuto, trascrivo due lettere. Prima quella a me
diretta dalle buone Suore Domenicane, conducenti con sè
amorevolmente, nella dolorosa peregrinazione, molte orfanelle,
affidate alle loro cure.
Anime buone, che esprimevano in forma religiosamente gentile la
loro gratitudine, i loro ringraziamenti, i loro auguri.
Scrivevano:
« Signor Podestà, le Suore Domenicane e infermiere di S.
Caterina da Siena, unite all' Orfanelle di Pescara, ringraziano
di cuore per la bontà paterna avuta a loro riguardo nella breve
ed indimenticabile sosta fatta a Teramo.
Ricambieremo tale carità usataci, con la preghiera che insieme
alle Orfanelle innalzeremo al Signore per la felicità Vostra,
della Vostra famiglia e dell' intera città di Teramo. Che il
Signore voglia risparmiare la tanto ospitale città, che fa
dimenticare agli sfollati le loro sofferenze.
Forse non incontreremo più tanta bontà come a Teramo.
Vogliate estendere i nostri ringraziamenti a tutti gli Impiegati
dell' Eca, che furono con noi solleciti e gentili.
Inviamo i nostri ringraziamenti e vi ossequiamo.
S. M. Rosaria Bontempo
[45] Non dissimile, nei sentimenti della riconoscenza, la lettera, che
segue, scritta da persone di altra razza, di altre bibliche
credenze.
Signor Podestà, noi sottoscritti desideriamo, con questa
dichiarazione spontanea, esprimervi anche per iscritto la nostra
profonda gratitudine per aver salvato noi le nostre famiglie e
tanti altri correligionari che hanno lasciato nel frattempo
Teramo, dalla ferocità tedesca. Difatti ai primi di dicembre
scorso, le autorità tedesche avevano comandato I' arresto in
massa di tutti gli Israeliti. Voi, Podestà di Teramo, eludendo
la vigilanza teutonica e fascista, ci avete avvisati
tempestivamente del pericolo che incombeva sulle nostre teste
raccomandandoci paternamente di allontanarci da Teramo o di
rifugiarci presso quelle famiglie, fortunatamente numerose, non
contaminate dal virus della peste nazista e ci assicuravate ogni
qualsiasi aiuto.
E' pure a nostra conoscenza che durante il terrorismo teutonico
vi siete reso benemerito della popolazione teramana e sappiamo
anche che di concerto col Comandante del Campo di Concentramento
istituito dalle belve tedesche per sfogare il veleno che hanno
sempre in corpo, somministravate tra I' altro agli internati,
ricorrendo ad un abile stratagemma, doppia razione di cibo.
Così alla nostra benedizione si aggiungano quelle della
popolazione e degli internati.
Con riconoscente devozione".
Seguono, con quella di Oscar Stein, numerose firme.
Tra l'una e I' altra lettera, se ne trovano molte altre, di gente
di ogni condizione e di ogni contrada, che, per brevità, non si
trascrivono; lettere anch'esse colme di commoventi espressioni,
di calda affettuosa gratitudine.
Teramo ebbe a rendersi in quell' eccezionale periodo, forse come
nessun'altra città, molto benemerita per la sua squisita
sensibile generosità. Appariva ai profughi, nella dolorosa
peregrinazione, come concordemente dichiaravano, un' oasi ricca
di verde e di freschezza, in cui ritempravano le esauste forze,
ravvivavano le scosse speranze. Oasi che sarebbe rimasta, nel
volgere del tempo, particolarmente cara nel loro ricordo.
[46] Non mancavano, nella educazione latina, atti di squisita
cavalleria, ignorata, spesso, dalle altre razze, sempre disposte,
nella loro arroganza materialistica, ad umiliare, a maltrattare,
a offendere i deboli, i vinti, i colpiti dalla sfortuna.
Nel moderno edificio delle magistrali "Giannina Milli",
trasformato in ospedale di guerra, fra i feriti e gli ammalati,
vi erano anche ufficiali e soldati dell' esercito inglese, caduti
prigionieri. Quale capo della città, accompagnato dalla dama
della Croce Rossa Amina Panzieri e dal maggiore medico Guido
Bindi, facevo pure ad essi una visita di cortesia. Ve ne erano di
tutte le razze, di tutte le religioni, di tutti i continenti. Di
nulla avevano bisogno, essendo forniti di generi, anche di lusso,
che giungevano loro da ogni parte, quasi giornalmente e in
abbondanza tale da poter soddisfare, a profusione, ogni esigenza.
Gli Inglesi, ed anche gli Americani, trattavano bene coloro che,
in loro difesa e per la loro grandezza, dovevano dare la vita!
Gli Africani, dai letti in cui giacevano, mi fissavano con occhi
mestamente espressivi, come se pensassero in quel momento, ai
monti, alle valli, ai fiumi, alle foreste misteriose della loro
terra bruciata dal sole; una leggera ironia pareva che sfiorasse
i volti gialli degli Asiatici.
Gli ufficiali, quasi tutti di razza ariana, sospendendo la
lettura, in cui erano immersi, mi guardavano con curiosità, e,
conosciuta la mia qualità, si dimostravano lieti e grati della
mia visita.
M' interessavo anche dei loro morti, che qualcuno, nella nebbia
delle passioni, avrebbe voluto seppellire fuori del comune
cimitero. Io, da altre considerazioni sospinto, ordinavo che essi
fossero collocati non soltanto nel cimitero, ma addirittura nel
campo riservato ai nostri caduti, affinchè ne potessero
dividere, nella comune eterna pace, i fiori, le onoranze, la
umana pietosa bontà.
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