Umberto Adamoli
Nel turbinio d'una tempesta
(dalle pagine del mio diario. 1943-1944)

La neve nella tempesta

[50] Si chiudeva l'anno dalle molte vicende e dalle molte inquietudini, senza un raggio di luce, senza promesse.
Il 1944, che sorgeva, si salutava alla mezzanotte melanconicamente, mentre fuori infuriava una forte bufera di vento e di neve. Sembrava che anche la natura volesse partecipare, con le sue potenti forze occulte, al delirio del mondo. Nel giorno dopo si accertavano, sotto un bianco manto, danni gravissimi ovunque. Molti i tetti crollati, sotto alcuni dei quali, come nell'Ospizio di mendicità, vi erano anche morti; gli stessi pali di ferro del telegrafo, del telefono, della luce elettrica erano stati piegati, spezzati. Neppure la robustezza degli alberi secolari aveva potuto resistere a tanta violenza. Nei pubblici giardini pareva che vi si fosse combattuta, con armi potenti, una furiosa battaglia.
Un vero castigo di Dio, mai ricordato a memoria d'uomo.
Un vero castigo anche per le autorità, che nel giorno seguente si trovavano di nuovo in conflitto con i comandi militari. Tutte le strade erano state chiuse, dall'alta neve, al traffico. I Tedeschi pretendevano che fossero subito riaperte al normale uso, anche con l'impiego delle donne, almeno in città.
I cittadini rimasti, come al solito, sordi agli inviti ad essi diretti, rendevano delicata la situazione. Si presentivano già altri contrasti, altre minacce. Il giorno tre, infatti, alle ore nove, si presentava a me, accompagnato da altro ufficiale, il Comandante della Piazza. Dopo una sfuriata contro i cittadini, che nulla volevano fare, concludeva sgarbatamente, con l'orologio alla mano, che se per le ore undici di quello stesso giorno, non Si fossero presentati dinanzi al palazzo delle magistrali cinquecento uomini, la città sarebbe stata messa a fuoco.
La minaccia era stata fatta con un tono, con una rudezza tale da non offrire speranza ad una qualsiasi attenuazione. Non essendovi, per la salvezza della città, da perder tempo, impartivo, con tutta urgenza, ai competenti organi comunali, precise istruzioni. Nessuno pensava, neppure per un momento, ad una eventuale disubbidienza. Comunicato il fatto anche alla Prefettura, correvo dinanzi alle magistrali, per seguire, da vicino, lo svolgersi degli eventi. Alle ore dieci e mezzo si erano presentati, ciò che molto preoccupava, soltanto centocinquanta operai. Molti ancora ne mancavano. Si facevano successivamente intervenire, anche per interessamento della Prefettura, per aumentare il numero, spazzini, carcerati, impiegati.
Non erano alle undici gli spalatori cinquecento, ma erano di un numero sufficiente a salvare ancora una volta Teramo.


[51] Non mancarono, dopo, per quel generoso atto, accuse di collaborazionismo. Perfida menzogna, in cuori maligni. Innanzi tutto, togliere dalle strade quella neve, come era stato sempre fatto, tornava a beneficio della comunità, per il movimento nella città, nelle campagne, nelle frazioni. Si sapeva, poi, per dolorosa esperienza, che i Tedeschi non minacciavano invano. Far incendiare la città, per falsi ipocriti scrupoli, significava far distruggere opere a noi care, ricchezze che risalivano all' operosità dei secoli; significava far perire nelle fiamme, nei crolli delle case, donne e bambini, vecchi e malati, incapaci di fuggire, d'affrontare, nell'alta neve, la bufera, che tormentava la desolata campagna.
Ed i più accesi apparivano, nell' accusa stolta, coloro che avevano cercato, nei giorni turbinosi, con il tremito dei conigli, la via dei più sicuri rifugi.
Ma la storia un giorno, nella serena obiettività e giustizia, saprà discernere ed onorare coloro che, senza avvilirsi, senza parteggiare per gli uni o per gli altri degli stranieri, affrontavano coraggiosamente i pericoli per prevenire o allontanare sventure maggiori.

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