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La neve nella tempesta
[50] Si chiudeva l'anno dalle molte vicende e dalle molte
inquietudini, senza un raggio di luce, senza promesse.
Il 1944, che sorgeva, si salutava alla mezzanotte
melanconicamente, mentre fuori infuriava una forte bufera di
vento e di neve. Sembrava che anche la natura volesse
partecipare, con le sue potenti forze occulte, al delirio del
mondo. Nel giorno dopo si accertavano, sotto un bianco manto,
danni gravissimi ovunque. Molti i tetti crollati, sotto alcuni
dei quali, come nell'Ospizio di mendicità, vi erano anche morti;
gli stessi pali di ferro del telegrafo, del telefono, della luce
elettrica erano stati piegati, spezzati. Neppure la robustezza
degli alberi secolari aveva potuto resistere a tanta violenza.
Nei pubblici giardini pareva che vi si fosse combattuta, con armi
potenti, una furiosa battaglia.
Un vero castigo di Dio, mai ricordato a memoria d'uomo.
Un vero castigo anche per le autorità, che nel giorno seguente
si trovavano di nuovo in conflitto con i comandi militari. Tutte
le strade erano state chiuse, dall'alta neve, al traffico. I
Tedeschi pretendevano che fossero subito riaperte al normale uso,
anche con l'impiego delle donne, almeno in città.
I cittadini rimasti, come al solito, sordi agli inviti ad essi
diretti, rendevano delicata la situazione. Si presentivano già
altri contrasti, altre minacce. Il giorno tre, infatti, alle ore
nove, si presentava a me, accompagnato da altro ufficiale, il
Comandante della Piazza. Dopo una sfuriata contro i cittadini,
che nulla volevano fare, concludeva sgarbatamente, con l'orologio
alla mano, che se per le ore undici di quello stesso giorno, non
Si fossero presentati dinanzi al palazzo delle magistrali
cinquecento uomini, la città sarebbe stata messa a fuoco.
La minaccia era stata fatta con un tono, con una rudezza tale da
non offrire speranza ad una qualsiasi attenuazione. Non
essendovi, per la salvezza della città, da perder tempo,
impartivo, con tutta urgenza, ai competenti organi comunali,
precise istruzioni. Nessuno pensava, neppure per un momento, ad
una eventuale disubbidienza. Comunicato il fatto anche alla
Prefettura, correvo dinanzi alle magistrali, per seguire, da
vicino, lo svolgersi degli eventi. Alle ore dieci e mezzo si
erano presentati, ciò che molto preoccupava, soltanto
centocinquanta operai. Molti ancora ne mancavano. Si facevano
successivamente intervenire, anche per interessamento della
Prefettura, per aumentare il numero, spazzini, carcerati,
impiegati.
Non erano alle undici gli spalatori cinquecento, ma erano di un
numero sufficiente a salvare ancora una volta Teramo.
[51] Non mancarono, dopo, per quel generoso atto, accuse di
collaborazionismo. Perfida menzogna, in cuori maligni. Innanzi
tutto, togliere dalle strade quella neve, come era stato sempre
fatto, tornava a beneficio della comunità, per il movimento
nella città, nelle campagne, nelle frazioni. Si sapeva, poi, per
dolorosa esperienza, che i Tedeschi non minacciavano invano. Far
incendiare la città, per falsi ipocriti scrupoli, significava
far distruggere opere a noi care, ricchezze che risalivano all'
operosità dei secoli; significava far perire nelle fiamme, nei
crolli delle case, donne e bambini, vecchi e malati, incapaci di
fuggire, d'affrontare, nell'alta neve, la bufera, che tormentava
la desolata campagna.
Ed i più accesi apparivano, nell' accusa stolta, coloro che
avevano cercato, nei giorni turbinosi, con il tremito dei
conigli, la via dei più sicuri rifugi.
Ma la storia un giorno, nella serena obiettività e giustizia,
saprà discernere ed onorare coloro che, senza avvilirsi, senza
parteggiare per gli uni o per gli altri degli stranieri,
affrontavano coraggiosamente i pericoli per prevenire o
allontanare sventure maggiori.
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