13 Settembre.
Ore due: sveglia e in rango. C'è da ricevere la cinquina, un paio di scarpe di fatica, una coperta da campo e una scatoletta di carne da consumare durante il viaggio. Quest'operazione dura un paio d'ore. I bersaglieri si pigiano dinanzi alla fureria. Chi fa tutto, dentro, è il sergente Fogli, ferrarese. Grida, lavora e suda come un facchino. È l'alba!
— Zaino in spalla! —
In marcia verso la stazione. Il treno è pronto, ma si parte con un lieve ritardo. Siamo 351, compresi i tre ufficiali — un tenente e due sottotenenti — che ci accompagnano. Occupiamo i vagoni. Nell'attesa, una donna, completamente vestita di nero, taglia i gruppi delle persone raccolte attorno al treno e si getta fra le braccia del marito che parte. Il marito, col ciglio asciutto, si divincola dolcemente dalla stretta affettuosa e incuora la donna che si allontana — adagio — con le mani sulla faccia, per nascondere le lacrime. È l'unico episodio patetico della partenza. Il nostro vagone è adornato di rami. Una prima scossa. Un fischio breve. Ecco: il treno va. Addio! Addio! Un agitare convulso di mani fuori dai finestrini e un gridare tumultuoso: Addio! Addio! Poi canti a voce spiegata. I miei amici gridano: Viva l'Italia! Attraversiamo la campagna bresciana. Vaste distese di verde che impallidisce sotto il sole autunnale. Lago di Garda. Non l'ho mai visto così bello! Peschiera. Cittadella grigia. Mi ricorda un anno di vita militare. Addio, vaga penisola di Sirmione incantevole! Siamo alle campagne veronesi, melanconiche, sassose. Fa caldo. Sosta a Verona. Sosta più lunga a Vicenza. A Treviso grande movimento di soldati. Un treno di feriti. Altri vagoni pieni di soldati di fanteria si accodano al nostro treno, che diventa lunghissimo e deve rallentare la marcia. Stazioni: Conegliano, Pordenone, Sacile.
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