Il capitano ha finito. Le sue parole, franche e commosse, sono scese nel profondo dei nostri cuori. È un uomo che ispira molta fiducia e molta simpatia. Un tenente fa un passo innanzi e grida:
— Bersaglieri dell'ottava compagnia, al vostro capitano Vestrini, hurra!
— Hurra! Hurra! Hurra! — rispondiamo noi, a gran voce.
I portaferiti stanno ora raccogliendo i cadaveri dei soldati caduti stanotte. Sei, finora. Vengono deposti ai margini della mulattiera, nell'attesa di essere identificati e sepolti. C'è fra loro un magnifico tipo di abruzzese, che ho conosciuto ieri. Ha la testa avvolta in un telo da tenda. I morti sono coperti. Non si vedono che le mani irrigidite, nere per il fango della trincea. I soldati anziani passano e non guardano.
Ho notato — con piacere, con gioia — che tra ufficiali e soldati regna la più cordiale camaraderie.
La vita di rischi continui lega le anime. Più che superiori, gli ufficiali mi appaiono come fratelli. È bello! Tutto il formalismo disciplinare della caserma è abolito. Anche l'uniforme è quasi abolita. Proibito — anche nei ripari — di portare il berretto fez. Abolito il pennacchio tradizionale al cappello. Caschi di lana, invece, che i soldati fregiano esteticamente di una stelletta. Si può parlare con un ufficiale, senza bisogno di impalarsi sull'attenti. È difficile, in montagna, star sull'attenti...
Con questi ufficiali, coloro che parlano di un rafforzamento del militarismo, con la inevitabile vittoria italiana, si divertono a inseguire dei fantasmi. Il militarismo «made in Germany» non ha attecchito in Italia. D'altronde questa guerra, fatta dai popoli e non dagli eserciti di caserma, segna la fine del militarismo di casta o professionale.
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