Benito Mussolini
Diario di guerra (1915-1917)


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     — Mi piacerebbe di averti nella settima compagnia — mi dice Giraud.
     Tenente Cauda, dei carabinieri, venuto a combattere volontario. È un sardo. Coraggio e sangue freddo eccezionali. Parla lento, all'inglese. Tenente Corbelli, romagnolo, di Russi.
     Una voce:
     — C'è qui il bersagliere Mussolini?
     — Sono io.
     — Vieni che voglio abbracciarti. —
     E ci abbracciamo. È il capitano Festa della 10a compagnia del 157° fanteria, che occupa le nostre posizioni.
     — La tua campagna giornalistica per l'intervento onora te e il giornalismo italiano! — aggiunge, alla presenza dei bersaglieri disseminati nei ripari.
     — Questa, caro Mussolini, è una guerra terribile. Abbiamo di fronte dei barbari che ricorrono a tutte le insidie... Ma — e si volge anche agli altri — coraggio e, soprattutto, religione del dovere! —
     Se ne va. È basso, tarchiato, barbuto. Porta gli occhiali. I suoi soldati parlano di lui con venerazione.
     La mia compagnia è comandata ai posti avanzati, di guardia.
     Tramonto. Il caporale Claudio Tommei — romano — mi offre un passamontagna e un numero del Rugantino. Grazie. Quando, in Italia, si parlava di trincee, il pensiero correva a quelle inglesi, scavate nelle pianure basse di Fiandra e munite di tutto il comfort, non escluso — si dice — il termosifone. Ma le nostre, qui, a quasi 2000 metri sul livello del mare, sono ben diverse. Si tratta di buche scavate fra le rocce, di ripari esposti alle intemperie.
     Tutto provvisorio e fragile. È veramente una guerra di giganti quella che i soldati d'Italia — fortissimi — combattono.