Non dobbiamo espugnare delle fortezze, dobbiamo espugnare delle montagne. Qui, il macigno è un'arma e micidiale quanto il cannone!
Il vento della sera porta in alto il freddo e il fetore dei cadaveri dimenticati.
Notte chiara, di stelle.
20 Settembre.
Appena è giorno, il capitano mi chiama. Vado con lui alla trincea più avanzata. Riparato da due sacchetti di terra, posso guardare, con una relativa tranquillità, il luogo conteso. È uno spiazzo di forse 150 metri quadrati. Non più. Il «cocuzzolo» ha perduto i suoi connotati. È stato spianato, livellato dalle bombe e delle mine. Macigni frantumati, grossi pali, fili di ferro, stracci di uniforme, zaini, borracce: segni delle tempeste. Gli austriaci sono a trenta metri — appena — da noi. Non si fanno vedere.
Le nostre mitragliatrici non scherzano. Chi si scopre, è fulminato.
Un siciliano coraggiosissimo, tal Failla, sta oltre la trincea e getta bombe. Gli mancano, a un certo punto. Il caporale Morani gliele porta volontariamente. È appena giunto che una bomba austriaca gli cade vicina. Per un momento non lo vedo più. Trepidazione. Ma ecco che si rialza e viene di corsa verso di noi. Mi cade fra le braccia. È soltanto ferito. Ha il volto sporco di polvere e di sangue. Le ferite sono alle gambe. Vuole che io lo accompagni al posto di medicazione. Lo portiamo in barella, io e il portaferiti Greco. Il Morani è calmo, tranquillo. Non un grido, non un gemito. Contegno da vero soldato. Il tenente medico gli fa una prima sommaria medicazione e mi assicura che le ferite non sono gravissime. Ci abbracciamo. Il Morani è portato via in barella, io torno al mio posto. Giunge un ordine scritto:
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