Parecchie volte i plotoni hanno perduto il collegamento. Alcuni bersaglieri sono caduti e non hanno potuto proseguire. Anch'io — come tutti — sono caduto varie volte, ma l'unico danneggiato è l'orologio che porto al polso. Non va più.
Dieci ore di marcia. Siamo giunti alle due del mattino. Per fortuna, non pioveva e c'erano le stelle. Ci siamo rintanati fra i macigni, nell'attesa dell'alba.
8 Ottobre.
Sveglia alle cinque. Ci spostiamo verso l'alto di un altro centinaio di metri. Ci troviamo sotto una delle «pareti» ripidissime dell'Jaworcek. Dalla cima le vedette austriache sparano continuamente. Mi metto a lavorare accanitamente di vanghetta e picconi, per farmi un buon riparo. Petrella mi aiuta. Ritrovo il tenente Fava, che mi presenta al capitano della sua compagnia, Jannone. Gli amici degli altri battaglioni — appena saputo del nostro arrivo — mi vengono a cercare. Rivedo il caporal maggiore Bocconi, barbuto e un po' dimagrito, il caporal maggiore Strada, ex vigile milanese, sempre pieno d'entusiasmo; il caporale Corradini che mi racconta la straordinaria avventura toccatagli. Doveva andare di guardia, con una squadra, al quarto boschetto. Giunto a un passaggio obbligato e scoperto, sul quale gli austriaci rotolavano continuamente sassi e macigni, il Corradini, volendo appunto evitare un macigno, mise un piede in fallo e rotolò giù, in fondo al burrone. Una notte intera rimase laggiù, nel fango, sotto la pioggia, ritenendosi ormai perduto.
— Fu il pensiero della mia piccina, che mi diede il coraggio — egli mi dice. — A giorno fatto, risalii il pendio del monte. Nella caduta avevo perduto tutto: zaino, fucile, mantellina, Giunsi a un piccolo posto di fanteria. La vedetta mi intimò l'alt. Quando il caporale del piccolo posto mi ebbe riconosciuto come appartenente all'esercito italiano, mi lasciò passare. Potei riguadagnare — sano e salvo — la mia compagnia. —
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