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La vita in trincea è la vita naturale, primitiva. Un po' monotona. Ecco l'orario delle mie giornate. Alla mattina non c'è sveglia. Ognuno dorme quanto vuole. Di giorno non si fa nulla. Si può andare — con rischio e pericolo di essere colpiti dall'implacabile «Cecchino» — a trovare gli amici delle altre compagnie; si gioca a sette e mezzo o, in mancanza di carte, a testa e croce; quando tuona il cannone, si contano i colpi. La distribuzione dei viveri è l'unica variazione della giornata: di liquido, ci danno una tazza di caffè, una di vino e un poco di grappa: di solido, un pezzo di formaggio che può valere venti centesimi e mezza scatoletta di carne. Pane buono e quasi a volontà. Di rancio caldo, non è questione. Gli austriaci — tempo fa — hanno bombardato coi 305 le cucine e hanno fatto saltar per aria muli, marmitte e cucinieri.
C'è un'ora nella giornata, che i bersaglieri attendono sempre con impazienza e con ansia: l'ora della posta che comincia a giungere regolarmente. Ci pensa Jacobone, per il Reggimento. Nostro «postino» è il calabrese Suraci. Quando si grida «posta!», tutti escono dai ripari e si affollano attorno al distributore. Nessuno pensa più alle fucilate e agli shrapnels.
Ho scritto una lettera per Jannazzone e una per Marcanico. Non si negano questi favori a uomini che possono morire da un momento all'altro. La fidanzata di Marcanico si chiama Genoveffa Paris. Questo nome mi porta, chissà perché, al tempo dei «Reali di Francia».
12 Ottobre.
Pulizia al fucile. Sole pallido. Poi, non c'è nulla da fare. Passano i soliti feriti. C'è il bersagliere Donadonibus che si spidocchia al sole.
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