Circa i risultati della nostra «azione» non sappiamo nulla di preciso. È rimasto ferito il tenente colonnello Albarelli. Passa — fasciato al capo — il caporal maggiore Corradini. Non è grave. Ecco due morti, vittime del 280. Uno di essi è ridotto un informe ammasso, avvolto in un telo di tenda. Comincia in questo momento, ore dieci, la quotidiana sinfonia dei nostri cannoni. Volo basso di corvi. Nel pomeriggio gli austriaci hanno bombardato, per tre ore, la posizione occupata dalla mia compagnia, Sono gli incerti dei «rincalzi». Ci siamo «ingrottati» in tempo. Alcuni feriti.
Non comprendo perché si faccia una distribuzione quotidiana di grappa ai soldati. In quantità minima, è vero, ma si dà ai soldati una pessima abitudine. Il «sorso» d'oggi predispone al bicchierino di domani. Inoltre, c'è chi riesce qualche volta a berne troppa e offre uno spettacolo poco edificante. L'unica punizione che sia a mia conoscenza è stata inflitta appunto a un caporale che, avendo abusato di grappa, è stato retrocesso.
La nostra guerra, come tutte le altre, è una guerra di posizione, di logoramento. Guerra grigia. Guerra di rassegnazione, di pazienza, di tenacia. Di giorno si sta sotto terra: è di notte che si può vivere un po' più liberi e tranquilli. Tutta la decorazione della vecchia guerra è scomparsa. Lo stesso fucile sta per diventare inutile. Si va all'assalto di una trincea colle bombe, colle micidialissime granate a mano. Questa guerra è la più antitetica al «temperamento» degli italiani. Eppure con le nostre meravigliose facoltà di adattamento ci siamo abituati alla guerra delle trincee, alla guerra del fango, dell'insidia continua, che pone il sistema nervoso a una prova durissima. È straordinaria la resistenza ai disagi e al freddo dell'alta montagna, in uomini che vengono da paesi dove non nevica mai. Molte volte ho sorpreso nei discorsi dei miei commilitoni questa affermazione:
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