La vita di trincea — monotona e aspra — contrassegnata soltanto dallo stillicidio quotidiano dei morti e dei feriti, indurisce i soldati. Parlar loro, non si può. Riunire gli uomini in prima linea, per tener loro un discorso, significa esporli a un sicuro immediato massacro da parte dell'artiglieria nemica. È il «nemico», la presenza del «nemico» che spia e spara a cinquanta, cento metri, ciò che tiene elevato il «morale» dei soldati: non i giornali che nessuno legge; non i discorsi che nessuno tiene...
Sono religiosi questi uomini? Non credo troppo. Bestemmiano spesso e volentieri. Portano quasi tutti al polso una medaglia di santo o di madonna, ma ciò equivale a un porte-bonheur. È una specie di «mascotte» sacra. Chi non paga il suo tributo alle superstizioni delle trincee? Tutti: ufficiali e soldati. Lo confesso: porto anch'io nel dito mignolo un anello fatto con un chiodo di ferro da cavallo.
Questi soldati sono nella loro grandissima maggioranza solidi, sia dal punto di vista fisico che morale. Se il vecchio Enotrio Romano tornasse al mondo, dinanzi a questi uomini meravigliosi nella loro tenacia, nella loro resistenza, nella loro abnegazione, non direbbe più come un tempo:
La nostra Patria è vile!
Quale altro esercito terrebbe duro in una guerra come la nostra?
3 Novembre.
Ieri sera ci siamo spostati di duecento metri più in alto, a destra. Ora comprendo l'obiettivo della nostra azione. Bisognerebbe occupare la depressione fra il Vrsig e lo Jaworcek, per tagliare — io credo — la linea della difesa austriaca. A squadre e plotoni, abbiamo impiegato, per spostarci, quasi due ore. Non pioveva, per fortuna. Il mio riparo è relativamente buono. Da stamani pioggia e neve. La mitragliatrice austriaca spara, ma siamo «defilati» e finora nessuno dei nostri è rimasto ferito. Ci troviamo in mezzo al fango. Camminare nella mulattiera significa immergersi nella melma fino al ginocchio. Fra i ripari corre un vero torrente di mota. Qui, siamo più raccolti.
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