I cannoni austriaci tacciono sempre. I nostri pure riposano. Anche se piove, anche se nevica o tempesta, quando i cannoni nemici tacciono, c'è allegria fra noi.
4 Novembre.
Ieri sera il mio plotone — il primo — è stato comandato ai piccoli posti. Siamo partiti alle diciotto. Pioggia a scrosci. Buio pesto. Siamo montati a uno a uno — in fila indiana — per un camminamento franato e pieno di fango. Quando i razzi luminosi degli austriaci solcavano il cielo, ci gettavamo di colpo a terra. Giunti alla posizione, non è stato facile trovarmi un riparo. Non un barlume di luce, all'infuori di quella dei razzi, spenti i quali, le tenebre erano più dense di prima. Finalmente ci siamo cacciati, io e il mio capo-squadra Mario Simoni, dietro a un masso roccioso.
Ho chiesto al mio capo-squadra:
— In caso di un attacco austriaco, qual'è la nostra fronte?
— Quella a destra... —
La risposta non mi ha convinto. La responsabilità delle guardie avanzate sulle linee del fuoco è terribile. Devono costituire una garanzia e una prima difesa per coloro che stanno dietro. Per fortuna, gli austriaci non prendono mai l'offensiva per i primi. Possono contrattaccare, ma «attaccare», no.
Verso mezzanotte, dopo sei ore di pioggia e di tuoni, si fa un grande silenzio bianco. È la neve. Siamo sepolti nel fango, fradici sino alle ossa. Simoni mi dice:
— Non posso muovere più le punte dei piedi. —
E la neve cade lenta, lenta. Siamo bianchi anche noi.
Il freddo ci è penetrato nel sangue. Siamo condannati all'assoluta immobilità. Muoversi significa «chiamare» la mitragliatrice austriaca. Vicino a me c'è qualcuno che si lamenta. Il tenente Fanelli lo redarguisce, con voce sommessa, ma il bersagliere risponde e c'è nella voce una invocazione quasi disperata:
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