— Ho visto — dice Pietroantonio — alcuni scartati mordersi per la rabbia. —
Si comprende. I milioni e milioni di italiani — in particolar modo meridionali — che negli ultimi venti anni hanno battuto le strade del mondo, sanno per dolorosa esperienza che cosa vuol dire appartenere a una nazione politicamente e militarmente svalutata.
Ho asciugato al fuoco anche le pagine di questo-diario. Alcune, coll'acqua, sono diventate indecifrabili.
6 Novembre.
Tornando ieri sera dalla posizione dove ci eravamo asciugati e rifocillati, ho trovato il mio riparo occupato da altri. Gli artiglieri della Sezione che è con noi mi hanno offerto ospitalità sotto la loro tenda. Sono stati gentilissimi. Hanno voluto dividere con me il loro rancio. C'è fra essi un volontario, tal Cecconi, vicentino. Stamani, cielo buio, di tempesta. Al lavoro! Bisogna costruirsi il «ricovero». Tre ore di fatica. Grande fuoco per asciugare il terreno sul quale dovremo stenderci.
È giunto dalla Divisione, per telefono, l'ordine di partenza per il plotone accelerato degli Allievi Ufficiali. Del mio Reggimento siamo soltanto in cinque: io, Lorenzo Pinna, Vismara, di Milano; Moscatello e Inglese, di Napoli.
Lascio la compagnia. Saluto il capitano e gli ufficiali. Tutti i bersaglieri mi gridano il loro affettuoso saluto e il loro augurio. Addio! Addio! Non sono contento. Mi ero ormai abituato alla trincea. Scendiamo allo Slatenik. Tre ore di marcia faticosa. In certi punti la mulattiera è tutta un pantano. A quota 1270, o Trincerone, tappa. Il maresciallo Zanotti deve farci il foglio di via. Al Trincerone c'è il 27° a riposo. In tutti i reparti ardono grandi fuochi. Qua e là si canta a grande voce. Piove. Ci ripariamo nella baracca del cantiniere. Come letto: il rivestimento di paglia delle bottiglie. Dormire? Niente. Poco lungi è Jacobone, napoletano, che dirige un coro di milanesi. Si canta a voce spiegata la canzone della «povera Rosetta»:
|