Benito Mussolini
Diario di guerra (1915-1917)


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     14 Novembre.
     Dopo sei giorni passati a Vernazzo — ambiente mediocre — stamani, domenica, un ordine è venuto, portato da un motociclista della Divisione. E l'ordine dice: «Il bersagliere Mussolini torna al reggimento». Non domando perché.
     La notizia non mi sorprende e non mi addolora. Do un'occhiata al Monte Nero, tutto incappucciato di neve e mi dico: «Domani sarò a quota 1270». Da San Pietro Natisone si vede nettamente stagliarsi sul fondo dell'orizzonte il famoso «Naso di Napoleone». I miei amici del plotone si mostrano non meno sorpresi e molto più addolorati di me. La trincea non ha fascino per loro, sebbene fossero quasi tutti allogati nei «posti ufficiali» e quindi lontani dal pericolo immediato.
     Pochi saluti, in fretta. Zaino in spalla. Mi presento in fureria. Il maresciallo c'è. Mi paga la cinquina, mi consegna la «bassa» di marcia e una scatoletta di carne.
     Sono nella strada. Mi fermo a San Pietro, al Comando di Tappa, per attendere un camion automobile che mi trasporti a Caporetto. Ma qui faccio un incontro inatteso. Trovo Alberto Meschi, ex segretario della Camera del Lavoro di Carrara, soldato della territoriale. Egli mi dà un recapito per Caporetto: si tratta di certo Oreste Ghidoni, che ha piantato a Caporetto un negozio di tessuti e pannine. Ma mentre passeggiamo lungo il marciapiede, ecco giungere il Ghidoni su di un carro. Mi presenta. Il Ghidoni è un mantovano, traslocatosi a Carrara. È già sera. Ci fermiamo a Pulfero, villaggio a 10 chilometri da San Pietro. All'osteria troviamo — naturalmente — dei soldati. Ci sono degli alpini che tornano dal fronte e si recano a Targetto per il plotone allievi-caporali; ci sono dei fanti del distretto di Cremona e della classe dell'83 che vanno a Caporetto. Uomini maturi, ma solidi e pieni di buon umore. Essi mi dicono che nel cremonese non c'è miseria e la popolazione attende con fiducia l'esito della guerra.