Benito Mussolini
Diario di guerra (1915-1917)


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     — Nessuno deve dormire! — egli ci dice. — Non impressionatevi per le bombe a mano. —
     Freddo acuto. Siamo completamente all'aria aperta. La trincea non offre ripari di sorta. Ho sparato durante la notte mezza dozzina di caricatori. Gli austriaci hanno risposto fiaccamente. C'è un ferito, fra noi, ma leggero.

     Venerdì 18 Febbraio.
     Giornata serena, ma freddissima. Guardando verso l'Italia, si vede tutta la pianura di Udine e in lontananza, oltre le lagune, la linea azzurra, appena percettibile, dell'Adriatico.
     Tre shrapnels austriaci, provenienti forse dallo Jaworcek, battono sulla trincea degli alpini, sottostante alla nostra. Vedo passare, di corsa, alcuni feriti leggeri. Altri vengono trasportati in barella. Cominciano a tuonare i nostri 149. I proiettili sibilanti passano sulle nostre teste a pochi metri d'altezza e piombano sulla trincea austriaca. Guardando contro il sole, si vede giungere il proiettile; sembra una bottiglia nera con un leggero movimento di oscillazione. Tutti i proiettili scoppiano: ciottoli e pali vengono a cadere sino nella nostra trincea. Stormi di corvi volano descrivendo ampi cerchi sulla Conca di Plezzo. Sotto alla nostra trincea c'è la fossa di due soldati caduti nei primi combattimenti. Tutta la compagnia è rimasta per ventiquattro ore consecutive di vedetta alla trincea.

     19 Febbraio.
     La solita corvée. Bisogna andare a prendere i viveri al Comando di Brigata. Un'ora di marcia, faticosa. Chi ha i chiodi aguzzi o i ferri, può camminare. I bersaglieri mettono i piedi nei sacchetti per la terra e non scivolano più. Durante il tragitto, l'artiglieria nemica ha bombardato la posizione, ma la mulattiera è sotto a un costone, che forma un angolo morto bellissimo. Sotto quelle rocce si è sicuri e si può — come facciamo — assistere tranquillamente allo scoppio fragoroso dei proiettili nemici. Passa un generale. Lo seguono molti ufficiali. Un sergente dell'8a compagnia, tal Peruzzone, genovese, è stato colpito mortalmente da una fucilata al petto. È caduto senza un gemito. Gli scavano una fossa sotto la neve. Sole grandissimo, quasi primaverile. Si lavora a preparare «cavalli di Frisia» e reticolati. I soldati, nelle baracche, scrivono, scrivono... Mi fermo con un gruppo di giovani ufficiali che fraternizzano con me. C'è il tenente medico Musacchio, il «quasi avvocato» Peccioli che mi ricorda le manifestazioni e le barricate romane del maggio; il già avvocato Rapetti, pure romano; Santi e Barbieri della mia compagnia. Altre conoscenze: l'avv. Righini, volontario negli Alpini, avvocato bolognese. Ordine di servizio per la mia compagnia: il primo e secondo plotone vanno di guardia alla trincea; il terzo e quarto devono spostare avanti i reticolati. Ci vestono di bianco. Appena giunto al mio posto di vedetta, all'estremità destra della trincea, la vedetta austriaca mi tira una dietro l'altra due fucilate che si spezzano contro lo scudo. Metto la canna del mio fucile alla feritoia e rispondo. L'austriaco a sua volta risponde. Il duello dura alcuni minuti. Lo spostamento dei reticolati avviene senza incidenti e senza vittime. Notte freddissima e stellata. Siamo completamente all'aperto. Quindici gradi sotto zero. Se si resta immobili, le scarpe gelano e aderiscono al suolo duro e sonoro come un metallo.