Domenica 20 Febbraio.
Sole. Poche e rade fucilate tra le vedette delle squadre in trincea. Alcune cannonate, innocue. Con una bottiglia di «Barbera amabile» che il bersagliere Moroni Tomaso di Osimo mi ha regalato e con lo scaldarancio, facciamo un eccellente vino brulé che ristora i miei compagni. Ora, i cannoni austriaci di grosso calibro tirano nella Conca di Plezzo, verso la stretta di Saga per colpire le nostre batterie di 149. I 280 e i 305 scoppiano innanzi e indietro, sollevando nuvole di fumo. È un pezzo che gli austriaci «cercano» la nostra batteria, ma non l'hanno ancora trovata. Verso sera il sottotenente Barbieri mi dice che il colonnello vuole vedermi. Il nostro colonnello, venuto a comandare il reggimento in sostituzione di Barbiani, si chiama Benito cav. Giuseppe. Un uomo di media statura, asciutto, di poche parole. Capelli bianchi e un pizzetto pure bianco alla Lamarmora. È stato ferito sul Carso. Mi presento, saluto.
Una cordiale stretta di mano.
— Ho voluto conoscervi, nel momento in cui, compiuto il vostro dovere per un giorno e una notte di guardia alla trincea, siete disceso per un po' di riposo. So che siete un buon soldato. Non ne ho mai dubitato. —
Il colonnello passa ad altro e mi dice:
— Sono stato parecchie volte di picchetto a Milano, per causa vostra e dei vostri amici.
— Altri tempi! — rispondo.
Il colonnello vive la nostra vita, soffre degli stessi disagi di un semplice soldato. Egli poteva restare in seconda linea con uno degli altri battaglioni, ma ha voluto essere col battaglione più esposto al pericolo. Ciò è molto simpatico e i bersaglieri apprezzano questo gesto. Il colonnello dorme su alcune tavole in una specie di cuccetta alta un metro da terra. Sotto di lui, a terra, dorme il suo aiutante, il sottotenente milanese Olinto Fanti, mio buon amico.
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