Qualcuno mi dice:
— Picchiano?
— Pare! E forte! —
Il fuoco dell'artiglieria nemica aumenta di vigore. Gli shrapnels scrosciano sui ricoveri e, poi, è tutta una pioggia di schegge e di sassi. Silenzio d'attesa.
Un grido vicino lacera l'aria:
— Portaferiti! Portaferiti! —
Ora le nostre artiglierie sono entrate in funzione. È un concerto infernale.
— Giovanotti, armatevi e tenetevi pronti! — ordino ai compagni.
Un tenente passa correndo da riparo a riparo, urlando:
— Bersaglieri, armatevi, ma non uscite dai ricoveri! —
La tempesta delle artiglierie continua, con un crescendo indiavolato. La fucileria, sopraffatta dalle esplosioni, non si sente più. Lo scoppio dei grossi proiettili fa sussultare la collina. Noi, immobili, attendiamo sempre.
È finita. Passa un ferito alla testa, ma non è grave. Cammina, senza scarpe, sul fango, saltellando verso il posto di medicazione. Tre barelle di feriti alle gambe.
Un altro portato a spalla. Un ferito al braccio. Due sono gravi. Vanno senza un lamento.
— Sergè, quaggiù c'è uno che non si muove più. È colla faccia a terra...
— È morto?
— Non lo so.
— Voltalo e portami il piastrino di riconoscimento.
— È morto. È il romano. —
Un gruppo di bersaglieri è raccolto intorno al cadavere. È stato fulminato da una palletta di shrapnel, mentre usciva dal ricovero. Appello delle squadre. Nel mio plotone nessun ferito. Nelle altre compagnie ci sono alcuni uomini fuori di combattimento.
Mattinata temporalesca. Burrasca. Le artiglierie tacciono. Mezzogiorno solatio. Usciamo tutti al sole, malgrado gli shrapnels. Ci asciughiamo un po'. Nel pomeriggio i loro cannoni tirano qua e là. Mentre scrivo, tirano sulla nostra terza linea, ma le granate cadono nel lago sollevando colonne di acqua. Dal punto dove mi trovo si vede un piccolo tratto di mare. Una domanda che i bersaglieri mi rivolgono spesso:
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