(segue) Restituire Caporetto
(24 ottobre 1918)
[Inizio scritto]
Quelli che nelle due capitali di
guerra e di pace — Udine e Roma — avrebbero dovuto
avvertire i sintomi della crisi
ignoravano o fingevano di ignorare.
L'Italia era affidata a un vecchio
che non aveva — ahimè!
— la stoffa di Clemenceau.
La situazione verso la metà
d'ottobre era questa: la Nazione era estranea all'Esercito;
l'Esercito stava per rendersi estraneo alla Nazione. La disfatta di
Caporetto è la disfatta della Nazione. La rivincita di
Caporetto è la rivincita della Nazione.
Ed ecco da qualche tempo le voci
che incitano all'oblio. Caporetto è un ricordo noioso e
molesto. Tutti gli eserciti hanno avuto Caporetto. Dopo Caporetto
c'è il Piave. Dimentichiamo. No. Non bisogna dimenticare.
Bisogna vivere di questo ricordo. Come i romiti della Trappa
che si
ricordano vicendevolmente l'ineluttabilità della morte
così
gli Italiani
dovrebbero
nelle ore grigie del dubbio e anche in
quelle della sorte lieta
ricordarsi di Caporetto.
Non consoliamoci col pensiero di
quanto può essere capitato ad altri eserciti. È una
consolazione da femminette superficiali. I popoli forti sanno
guardare in faccia al loro proprio destino. Roma repubblicana non
nascose a se stessa quella grande Caporetto che fu la battaglia di
Canne. La utilizzò
per tendere sino al possibile l'arco delle
energie. Il bruciore rovente di una percossa
può stimolare —
muscoli e nervi — alla rivincita.
C'è stata la nostra
rivincita? Non ancora. Non siamo ancora tornati là
dov'eravamo. Ed eravamo andati molto innanzi oltre il fiume
sui
monti
verso Trieste
verso Trento. Dalle quote sabbiose del Carso
si vedeva
nei mattini chiari spazzati dalla bora
Trieste
biancheggiante
fra monte e mare
nel suo arco di case. Noi
soldati
finivamo per amare le nostre «quote». Dietro le «doline»
brulicavano o stavano nell'immobilità trogloditica della
trincea gli uomini
mentre una vita tragica e primitiva uguagliava i
giorni e le notti
senza data e senza fine.
(segue...)
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