(segue) Alla nuova sede dei mutilati
(11 marzo 1923)
[Inizio scritto]
Quel postulato delle otto ore di
lavoro, pel quale si sono versati fiumi d'inchiostro e di
chiacchiere, è oggi legge dello Stato fascista. È assai
difficile quindi voler dipingere questo come un Governo di biechi
reazionari, di gente che vuole comprimere i diritti del popolo che
lavora. Tutto ciò, anche prima di essere delittuoso, è
ridicolo. È perfettamente comprensibile, logico e umano, che
io colpisca coloro che mentiscono sapendo di mentire.
Come del resto io potrei essere un
nemico del popolo che lavora, dico che «lavora»? Il
Delcroix ha ricordato le mie origini, delle quali ho l'orgoglio.
Essere contro il popolo, che ha fatto la guerra? Quando dico «popolo»
intendo comprendere anche quella media borghesia che è
l'ossatura salda della Nazione. Questa piccola borghesia che ha dato
i plotonisti, gli aspiranti, i meravigliosi giovanetti, che ho visto
combattere nelle trincee e sfidare intrepidamente il pericolo e la
morte, questo popolo è il sale della Patria. Questo popolo
cifra i suoi membri a milioni. Non sarebbe stolto e rovinoso un
Governo, che non tenesse conto delle giuste aspirazioni di questo
popolo? Come si può pensare di costituire la grandezza della
Patria, se si ignora questa parte preponderante ed integrante, che
forma la Nazione stessa?
Ma, detto questo, io distinguo; e
quando vedo i falsi pastori, che vogliono ancora mistificare il
popolo, che vogliono ancora fargli credere ad utopie, nelle quali
essi non credono più, quando questi mestieranti della
dottrina, questi pseudoscientifici della teoria pretendono avere la
libertà di sabotare la Nazione, io dichiaro che questa libertà
non l'avranno mai.
Il Governo fascista non imita i
vecchi Governi, i quali avevano sempre paura di essere un poco
coraggiosi. Il Governo che dirigo, miei cari commilitoni, non dovete
credere che sia un Governo venuto e nato nell'ottobre del 1922. Vista
a cinque mesi di distanza, la marcia su Roma ha già l'aspetto
mirabile, grandioso della leggenda. Molti di voi, certamente, erano
in quelle colonne, che marciavano su Roma. Roma testimonianza e
documento imperituro della vitalità della nostra razza. Ed a
Roma queste colonne confluivano con un sentimento che io conoscevo,
con un sentimento assai affine a quello che dovevano avere certi
popoli di altre epoche, che si precipitavano verso la città
eterna. Un sentimento di rancore e di infinito amore; di rancore,
perché vedevano in Roma non soltanto la Roma dei secoli, ma
una Roma di abbietti politicanti, di burocrati tardigradi, di
mestieranti e di affaristi. Accanto tuttavia a questo sdegno, era
anche l'infinito amore per questa Città dalle origini lontane
e misteriose, uno dei centri dello spirito in tutte le epoche della
storia, popolata di quattro milioni di uomini al tempo di Augusto, da
poche migliaia nei tempi oscuri del medioevo, mentre oggi si avvia a
diventare il cuore potentissimo della nostra vita mediterranea.
(segue...)
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